Sebastiano Vassalli. Terre Selvagge
Mi si perdoni la metafora, ma se dovessi pensare al nocciolo dell’ultimo libro di Sebastiano Vassalli, il corpo dentro al corpo narrativo che più di tutto il resto è destinato a rimanere, per germogliare e sopravvivere, penserei a un brano che si trova alla pagina duecentodiciassette di questo Terre selvagge, che Rizzoli ha pubblicato nell'aprile scorso: «dopo avere riferito ciò che è stato scritto sulla battaglia dei Campi Raudii e sulla fine dei Cimbri, è tempo ormai che cerchiamo di rappresentarci quegli avvenimenti come già nell’antichità faceva Omero: chiedendo aiuto alla dea della poesia epica cioè alla nostra immaginazione».
La citazione è tratta dal finale di un capitolo che si intitola «La battaglia secondo gli antichi», e anticipa il capitolo successivo: «La battaglia secondo noi». Quale sia la battaglia, è stato detto. Quali siano gli avversari dei Cimbri, è ovvio, ma non nuoce esplicitarlo: i Romani. Nel mezzo c’è il popolo dei Galli Cisalpini, entro il quale si sviluppa uno dei due fili che intrecciano il romanzo: la «storia d’amore, anzi due storie», ovvero quella di Tasgezio, il fabbro di Proh, con… Beh, se vorrete, lo scoprirete; qui è meglio che la frase rimanga incompiuta.
Ad ogni modo, la suspense dovrebbe suggerire, oltre l’opportunità della lettura di questo libro, anche – e prima ancora – la presenza di un intreccio avvincente dentro un romanzo dalla sapiente architettura, tra i cui elementi spicca il contesto storico spettacolare, che solo contesto, però, non è. Primo, perché dà luogo e tempo al secondo dei due fili accennati prima, e cioè la battaglia tra Cimbri e Romani, vivacizzata dai contrasti interni a entrambi gli schieramenti, drammatizzati con gusto dall’autore (il console Lutazio Catulo, Lucio Cornelio Silla – suo luogotenente – e l’altro console Caio Mario, da una parte; Agilo “l’Orso” e Boiorige, suo genero, dall’altra).
Il secondo motivo per cui l’ambientazione del romanzo (ai tempi della crisi della Repubblica romana) non può essere ridotta a un mero elemento di arredo è che il ricorso a vicende storiche tanto remote ha una sua funzione precisa. Così Vassalli: «qualcuno a cui è capitato tra le mani questo libro si starà chiedendo a cosa serve, oggi, rievocare il passato, e a cosa serve raccontarlo. È un vecchio ritornello […]. La letteratura, dice quel ritornello, deve aiutarci a capire il presente. […] Forse ci sono dei periodi, nella nostra storia, in cui per guardare avanti bisogna voltarsi. Come ai tempi di Omero e come oggi».
Quello della storia che è funzionale alla comprensione dell’oggi (ad esempio: della nostra Europa, a partire dalla «grande e misteriosa Europa» di «duemila e cento e quindici anni fa») è un ritornello blochiano, che Vassalli fa proprio e applica al discorso letterario. Un esempio è quello di «Caio Mario […] un personaggio […] che finché visse suscitò molte contrastanti passioni di amore e di odio, e che ora è soltanto un nome dentro ai libri di storia. Bisogna rimetterlo, vivo, nel suo tempo». Ma il libro è letteralmente disseminato di rimandi al presente, anche ironici e giocosi – pare un tic. Ancora due esempi: in un punto si dà del transessuale, «nell’uso della lingua», al fiume Sesia, perché un tempo era nominato al maschile e ora al femminile; in un altro si tenta l’analogia tra il rispedire al mittente i malocchi, da parte degli indovini e dei maghi dei Galli, all’uso odierno della posta elettronica.
Quel credo (intendo la volontà di evidenziare le corrispondenze tra passato e presente) è applicato alla scrittura attraverso uno stile serafico e connettivo, che va ben oltre il «tratto discorsivo» di cui parla Giovanni Tesio sull’Indice dei Libri del Mese di giugno (2014); ha il passo didascalico e “omniesplicativo” della voce fiabesca, e non è un’iperbole: gli studenti delle classi seconde superiori potrebbero leggere Terre selvagge rischiando di avvicinarsi agli eventi della storia romana più di quanto permettano molti manuali scolastici.
La lingua adoperata da Vassalli non scade mai nel banale, in immagini o in espressioni consumate. Anche la punteggiatura è raffinata, mai corriva: si noti l’uso frequente dei due punti come primo segno interpuntivo di molti incisi in luogo di una virgola che faccia il paio con quella che racchiude il sintagma. L’unico dubbio instillato da questa abbondante chiarezza è forse neanche un dubbio, ma piuttosto una mancanza, una nostalgia. Tutto è esposto, illuminato, detto: di spazio per il mistero ne rimane poco, o non ne rimane. Esso (il mistero), nel nuovo romanzo di Vassalli, ha un corpo minuscolo e sfuggente.
Commentando un altro libro, che qui non c’entra nulla, Andrea Cortellessa una volta ha parlato di «un livello di correttezza» al quale certi testi si fermano; testi interessanti, piacevoli, ben costruiti, «ma che non turba[no] in nulla la percezione del lettore». Cortellessa finiva col riferirsi a una «correttezza sempre più artigianale» dei testi selezionati dalle agenzie e dagli “scout” editoriali. Non è certo il caso di Vassalli, la cui artigianalità è altra, cioè tutta autoriale; ma il discorso valga almeno da provocazione, buona per quel lettore che alla saggezza, del narratore, preferisce la seduzione.
Dunque, eccolo: il narratore. Sempre Giovanni Tesio scrive, al riguardo, di un «ampio ricorso a un’onniscienza d’autore consapevole di tutta la precarietà del suo ruolo». E infatti il ricorso è «ampio», non totalizzante. C’è un breve passaggio, al centro del libro, apparentemente privo di interesse, il quale indugia su uno «specchio d’acqua sorgiva» inglobato dall’accampamento di Mario ai Campi Raudii. Il laghetto è abitato dall’esox, enorme pesce d’acqua dolce, antenato forse del luccio, forse dello storione, o forse del salmone. Vassalli scrive: «a giugno, il mostro della palude aveva cessato di esistere perché era stato pescato e mangiato: e chissà poi se il console in persona aveva potuto partecipare a quel banchetto, come aveva detto di voler fare!».
Qui, l’onniscienza del narratore ha un cedimento tutt’altro che inconsapevole. Qui, da questa minuscola crepa, filtra quel minuscolo corpo che è il mistero; e più lo si osserva da vicino, più il mistero s’allunga come un’ombra sotto la quale gli occhi non faticano a focalizzare e, anzi, se fanno fatica a focalizzare qualcosa, quel qualcosa è proprio l’ombra, che però s’insinua fino a diventare un sospetto consistente. È un sospetto affine a quello suggerito dall’atteggiamento illuminista, ma ambiguo, di Vassalli. Da una parte lo scrittore segnala e corregge il revisionismo del Silla storico – via Plutarco, che senza scrupoli né riscontri ne riporta la parola in La vita di Mario – testimone menzognero dello scontro ai Campi Raudii, «una delle più grandi battaglie del mondo antico e dell’intera vicenda umana».
Dall’altra – e lo conferma la sequenza dei capitoli sulla battaglia: «secondo gli antichi»/«secondo noi» – egli non si preoccupa di riscrivere la stessa storia, con tutti i rischi (non tutti calcolabili) del caso, immaginando piccoli destini dentro quello maggiore e ben noto, calando un romanzo tra dei fatti che gli storici ci hanno restituito insieme a molte lacune documentali. Proprio in queste zone d’ombra – di nuovo, l’ombra – gioca Vassalli, innescando un meccanismo che – e ogni autore lo sa bene – sfugge di mano a lui per primo.
È solo un romanzo, questi fatti non sono successi per davvero. Ma sarà poi vero? Togliamo il «solo»: «è» un romanzo, la sua storia, in qualche modo, esiste (dice un corno). O è forse tutta una mistificazione? Che gran confusione… (risponde l’altro corno della dialettica). Inutile cercare una risposta definitiva. Non per caso ho scritto che Vassalli «gioca». Ed è banale, ma comunque sempre vero, che il gioco è un affare molto serio. Ci si addentri dunque senza fretta in queste Terre selvagge; se ne ammiri, senza troppa fede, l’equilibrio apollineo: potrebbe anche capitare di sentirvi un’eco, un sorriso misterioso, come di sileno.