L'impresa fuori dall'impresa
Il 15 settembre del 2008, i dipendenti della Lehman Brothers, banca d’affari americana, abbandonano la sede della società sulla settima strada di New York imbracciando scatoloni di cartone. Tra gli oggetti personali dei trader, si nasconde il velo che per decenni ha mascherato le storture del rapporto tra impresa e società (e del capitalismo nel suo complesso). Il 15 settembre del 2008 segna l’inizio, naturalmente solo metaforico e simbolico, della crisi finanziaria e poi economica in corso. Due anni dopo, Michael Porter, influente studioso di management e docente ad Harvard, scrive che il capitalismo è sotto assedio e che è necessario ridefinire il legame tra business e società. Pochi mesi fa, McKinsey, società di consulenza direzionale tra le più importanti (e connesse alla sfera politica ed economica), afferma in un articolo che il rapporto tra impresa e società, così come è impostato oggi, rischia di fallire. Nel mezzo, le più grandi imprese del mondo (Nestlè, Marks & Spencer, Tesco e i principali marchi di informatica ed elettronica, solo per citarne alcuni) avviano nuovi programmi di responsabilità sociale d’impresa (CSR) con investimenti mai visto primi, rafforzando le strategie già in essere, la cui efficacia è ancora da misurare pienamente.
Se è vero che un colosso come Wal Mart produce un fatturato superiore al Pil di buona parte dei Paesi del mondo (se Wal Mart fosse uno Stato starebbe al ventiduesimo posto nella graduatoria dei Paesi classificati per Pil - e per un pelo siederebbe al tavolo del G20, mentre l’ENI, per citare un’italiana, si piazza al settantasettesimo), allora è giunto il momento di chiedersi quale ruolo può avere la sostenibilità d’impresa, intesa come punto di contatto tra le dinamiche economiche e quelle sociali, incluse quelle ambientali, nella trasformazione in atto.
Le crisi finanziarie servono storicamente a razionalizzare le irrazionalità e in genere portano a riconfigurazioni del sistema dominante, o alla meglio, a nuovi modelli di sviluppo. Il tema centrale per il mondo corporate, stavolta, è spostare il focus dal tema del profitto, al tema del valore. La sfida è quella di ridefinire il modello di creazione di valore mediante un’applicazione efficace e sostenibile di una nuova idea di governance, e poi di prodotto e servizio. L’impresa si configura sempre più come un’organizzazione aperta all’ecosistema in cui opera, quasi liquida. Il ruolo degli stakeholder, gli strumenti a loro disposizione e le istanze soggette ad attenzione sono in via di moltiplicazione (basti pensare al ruolo dei social network). La pressione è forte: alle imprese, che – è bene ricordarlo - in sé non esistono ma sono composte da persone, è richiesto un cambio culturale, prima ancora che di modello di business. Un cambio culturale che passa per un’evoluzione del pensiero nei luoghi più diversi, dall’università, dai media, dalle istituzioni.
La domanda è semplice: come può un’impresa dare risposta a bisogni sociali emergenti in modo innovativo, creando al contempo valore anche per se stessa? Come può un’impresa collocarsi come attore di sviluppo del contesto sociale in cui opera utilizzando le proprie attività come leva per la creazione di nuove relazioni, collaborazioni e partnership e per proporre una risposta efficace (e redditizia) a istanze della collettività?
Porter, padre della teoria del valore condiviso (shared value) proposta nel 2011, attiva uno spunto interessante. La responsabilità sociale dell’impresa non si limita alla condivisione del valore creato, ma alla creazione di valore condiviso. Ovvero, il rapporto con gli stakeholder, cioè gli interlocutori primari dell’impresa stessa (consumatori, dipendenti, fornitori, comunità e territori solo per citarne alcuni), non deve essere basato sulla distribuzione di utili a fini filantropici (in sintesi, beneficienza) ma sull’integrazione delle loro logiche dentro le strategie core. Da giving a partnership. Solo così è possibile attivare processi di innovazione (sociale): un’impresa che opera in un contesto socio economico solido e contribuisce a fertilizzarlo è sostenibile e acquisisce vantaggio competitivo. La domanda che la comunità pone all’impresa non è più “quanto puoi darmi per tollerare la tua presenza?”, ma “cosa possiamo condividere per stabilire un rapporto a vantaggio reciproco?”. La domanda che l’impresa dovrebbe porre ai suoi interlocutori sul territorio non è più “che cosa vuoi che io faccia per te?” ma è “di che cosa hai bisogno tra ciò che possiedo, ovvero che cosa posso darti di quanto ho di mio per crescere insieme?”. L’impresa genera (dovrebbe generare) una piena condivisione delle proprie risorse tangibili e intangibili con la società, per contribuire ad un tempo, anche attraverso la creazione di profitto, a risolverne i bisogni.
Ciò, con tutti i caveat del caso, assume maggior peso in una fase di restringimento del welfare state e può essere fatto anche rimodulando i rapporti tra mondo profit e mondo no profit, attraverso nuovi approcci a vantaggio reciproco e una compenetrazione tra confini per contribuire al “benessere della società”. Si aprono nuove forme di economia collaborativa, ovvero in una delle migliori definizioni formulate ad oggi, “modelli economici in cui il possesso e l’accesso sono condivisi tra i cittadini, le start up e le organizzazioni”. Le sue conformazioni possono essere molteplici: il coworking, il crowdfunding, il social lending, le piattaforme di scambio e riuso o di condivisione solo per citarne alcune. Niente di nuovo, ma qualcosa di rinnovato. Come possono le imprese (soprattutto le piccole e medie, che in Italia compongono il 97% del tessuto economico) prendere parte a questo flusso, mettendo a disposizione propri asset sottoutilizzati o ripensando i propri servizi ottenendone benefici, quali efficienza e riduzione degli impatti?
In questa direzione nascono opportunità interessanti. Nuovi modelli di impresa, nuove forme organizzative, nuove prospettive per rileggere la catena del valore.
Le BCorp (Benefit Corporations) sono organizzazioni che utilizzano il potere del business per rispondere a sfide di carattere sociale e ambientale, per le quali il profitto è mezzo e non fine. Nascono nell’ordinamento USA (anche se per il momento sono riconosciute solo in 18 Stati) ma offrono un modello di business innovativo, che ha preso piede nel mondo ed è già stato abbracciato da quasi un migliaio di imprese in 27 Paesi (di cui una in Italia). Certo, molte sono piccole realtà, il modello è ancora di nicchia, ma non mancano alcuni esempi di marchi noti a livello internazionale, figli delle big corporations (ad esempio i gelati Ben&Jerry’s, del gruppo Unilever o l’abbigliamento Patagonia) che hanno sperimentato il nuovo territorio.
Il baricentro decisionale dell’impresa si sta dunque muovendo verso l’esterno. Il focus dei processi strategici si sta spostando rapidamente verso la società nel suo complesso non più rappresentata solo da alcuni interlocutori selezionati dall’impresa stessa ma da una sintonizzazione sulle istanze sociali diffuse (ciò che Emile Zola chiamava “milieu”). L’ombelico dell’impresa è ora fuori dall’impresa, in un mercato non più composto solo da clienti (di cui l’impresa conosce tutto) ma da stakeholder organizzati (di cui l’impresa dovrebbe conoscere tutto), in grado di influenzarne le strategie almeno tanto quanto i clienti influenzano l’offerta. Non più un’impresa che “prende” alla società (risorse naturali, capitale umano, per esempio), ma un’impresa che “dà” (valore e risposte) alla società in una logica di co-creazione.
Si tratta di un processo evolutivo prima culturale e poi economico, ancora in fase embrionale e dall’esito incerto, ma dal potenziale dirompente. Si tratta di un cambiamento forse ineluttabile: un nuovo punto di vista, un nuovo modo di osservare i bisogni, sociali ed economici, e di interpretare il ruolo di ciascuno nel mondo economico, tra cui quello dell’impresa, anche attraverso la rilettura della propria identità in una logica multistakeholder, per offrire alla società soluzioni coerenti, condivise e sostenibili.