Una conversazione con la First Lady del cinema israeliano / Gila Almagor: L'estate di Aviha

22 Marzo 2021

Gila Almagor nasce nel 1939 a Petah Tiqvah, villaggio rurale a nord di Tel Aviv. La madre Chayiah era fuggita dallo shtetl di Kashnow in Polonia, poco prima che tutta la famiglia fosse deportata ad Auschwitz. Il padre fu ucciso a Haifa da un cecchino arabo pochi mesi prima che lei nascesse. 

Mentre la madre è ricoverata in istituti psichiatrici, Gila Almagor, salvo rari momenti, trascorre l’infanzia in collegio e l’adolescenza nel villaggio-scuola di Hadasim. A 15 anni si iscrive a un corso teatrale alla Habima, il teatro di Tel Aviv e da lì, sotto la guida di Ya’kov Agmon, inizia la sua folgorante carriera teatrale e cinematografica. Frequenterà anche i corsi di recitazione di Lee Strasberg e Uta Hagen a New York.

 

Ha recitato in una cinquantina di film, alcuni sono pietre miliari del cinema israeliano: con The House on Chelouche Street (1973), diretto da Moshe Mizrahi, ha ottenuto la nomination all’Oscar nel 1974. E poi tra i suoi film più noti all’estero ci sono: Munich di Spielberg (2007) e Il responsabile delle risorse umane, tratto dal romanzo di Yehoshua e diretto da Eran Riklis (2010). Ha partecipato alle serie TV israeliane: A wonderful Country, 2006, e Be-tipul (In Treatment), 2005-2008, con Assi Dayan, per citare quelle note all’estero; per anni ha condotto un programma radiofonico. All’impegno professionale unisce quello civico e umanitario. Dal 1998 al 2004 ha fatto parte dell’amministrazione di Tel Aviv come assessore alla cultura e all’arte. È considerata la First Lady del teatro e del cinema israeliano, ha scritto quasi per caso questa storia d’ispirazione autobiografica nel 1985: il libro ebbe grande risonanza, è tradotto in venti lingue diverse e fa parte del programma scolastico in Israele.

Nel Web Side dell’edizione Acquario Gila Almagor si svela in un’intervista di Giulia Vola, registrata nella sua casa di Tel Aviv il 20 novembre 2020.

(Acquario)

 

 


Il pubblico italiano – al di fuori della cerchia degli appassionati di cinema israeliano – la conosce per i suoi ruoli nei film Munich e Il responsabile delle risorse umane, ma ignora che sia anche scrittrice. Come ha iniziato a scrivere? Come è nato il racconto L’estate di Aviha?

Non ho mai pensato che sarei diventata una scrittrice, benché abbia sempre avuto in testa molte storie. Ho lavorato a sceneggiature nate da una mia idea, ma non scrivevo mai le mie idee, le disegnavo. Ho sempre avuto paura di scrivere, avevo una sorta di fobia per lo scrivere parole. Poi, nell’anno in cui fu pubblicata L’estate di Aviha (1985), ho vissuto un momento di profonda crisi; per non impazzire, immagino, mi sono ritrovata a scrivere, e per la prima volta non a disegnare, la storia.

Scrissi per dieci giorni di filato, senza interruzioni, e a mano. Improvvisamente si ruppe un argine e la storia straripò fuori. Nemmeno pensai al passo successivo, pensavo che la cosa più importante fosse che la storia era venuta fuori da me, ma cinque mesi dopo era già nei negozi. È diventata un successo enorme, è tradotta in molte lingue; era famosa, e lo è ancora, sia fra gli adulti sia fra i bambini. Dal libro fu tratto un film e una pièce teatrale che ancora viene messa in scena. Il libro mi aprì nuove opportunità professionali, come scrittrice e come attrice, e ne scrissi la continuazione (Under the Domim Tree). Entrambi i libri sono studiati a scuola, in Israele, fanno parte dei programmi. Ma il secondo libro e i seguenti furono scritti in modo più tranquillo, e superai definitivamente la paura di scrivere.

 

Il motto che ha posto a introduzione del racconto (“un racconto che ho narrato per emigrare nella sua continuazione”) indica quanto esso abbia costituito una tappa importante della sua vita; troviamo però anche l’indicazione che le figure rappresentate sono frutto di fantasia – quanto è autobiografico?

Il motto ha molto a che fare con il fatto che sono diventata madre piuttosto tardi. Volevo essere una mamma ideale, ridente e felice. Un giorno mia figlia venne da me e mi chiese se la mia infanzia fosse stata così felice, disse che non ha senso che qualcuno sia sempre felice. Così le raccontai un poco della mia infanzia e nel 1985 mi ritrovai a scrivere tutto quello che le avevo detto e molto altro che non le avevo raccontato. Il libro è autobiografico. Racconta la storia dell’estate nella quale avevo dieci anni, così come me la ricordo, completa di tutto: il quartiere, i vicini, tutto.

 

 


Come ha scelto il nome Aviha? Nella quarta di copertina dell’edizione originale del racconto è riportato un breve testo che ne dà una spiegazione – il testo è suo o dell’editore?

Il nome ha un significato molto profondo. Per spiegare il testo di quell’edizione – che ho scritto io: mio padre fu ucciso quattro mesi prima della mia nascita. Quando venni al mondo l’infermiera chiese a mia madre se avesse pensato a un nome per una bambina. Mia madre disse il nome di mio padre (Max) e iniziò a piangere. L’infermiera le disse che non era un nome da bambina e suggerì il nome Aviha (in ebraico: il padre di lei). Mia madre, che non conosceva bene l’ebraico, chiese cosa volesse dire e quando glielo dissero ricominciò a piangere. Disse che era troppo triste e chiese se ci fosse una parola per gioia in ebraico, perché aveva bisogno di un po’ di gioia e questo è il mio nome (Gila significa gioia, in ebraico); anni dopo, mi lamentai del mio nome e mia madre mi chiese se Aviha fosse meglio per me e mi raccontò la storia. Quando si trattò di scegliere un nome per il mio personaggio fui sicura che quello sarebbe stato il suo nome.

 

 


Osservando la struttura del testo si nota che il centro del racconto è il momento di maggior vicinanza, fisica, oltre che emotiva, di Aviha con la madre – ad esso tende la prima parte del racconto e da esso inizia la serie di illusioni e delusioni che portano al nuovo allontanamento. Può parlarci del rapporto di Aviha con sua madre, di quanto rispecchi il rapporto con sua madre?

Da quando fui in grado di comprendere qualcosa, capii che mia madre era diversa. Mia madre aveva una malattia mentale, entrava e usciva continuamente dalle cliniche. Le sue crisi erano imprevedibili e io vissi un totale scambio di ruoli. Ero la madre di mia madre. Tutti i bambini che hanno un genitore con una disabilità diventano dei sostituti: se hanno un genitore cieco, diventano i suoi occhi, se disabile, le sue gambe. Per me si trattava di qualcosa di più pesante, perché la malattia mentale è uno stigma: io ero “la figlia della pazza”. Era molto pesante, ma allo stesso tempo avevo un’enorme ammirazione per mia madre. L’amavo moltissimo, ma sapevo che lei non poteva amarmi, per lo meno non come qualsiasi altra madre. Non mi abbracciava; non parlava molto. Non mi diceva chi fosse mio padre, chi fossi io. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale scoprii che era tedesco e il fatto che tutta la faccenda fosse avvolta in tale silenzio mi fece pensare a mio padre come a un criminale di guerra. Dedicai molto tempo a cercare di capire chi fosse, ma solo negli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, riuscii a visitare la sua città natale e a ricomporre tutta la storia.

 

Il racconto è uno dei primi ad affrontare il tema del rapporto tra i figli dei sopravvissuti alla Shoah – la “seconda generazione” – e i loro genitori. Esiste secondo Lei una specificità di quella che si potrebbe definire la “terza generazione”? Nella società israeliana odierna quanto è viva la consapevolezza delle difficoltà che hanno dovuto affrontare i figli dei sopravvissuti?

Mia madre non è mai stata in un campo di concentramento. Fuggì e passò tutto il tempo della guerra fuggendo. Il fatto che fu l’unica della sua famiglia a sopravvivere influenzò pesantemente la sua condizione mentale. Era solita incidersi sulle braccia delle lettere per assomigliare ai sopravvissuti dei campi.

Per quanto riguarda la “terza generazione”: penso che essere nati in Israele significhi essere consapevole della Shoah dal momento in cui si viene al mondo. Non c’è bisogno di provenire dalla famiglia di un sopravvissuto o essere un sopravvissuto polacco o libico o di qualsiasi altro luogo. La Shoah non è finita quando furono aperti i cancelli dei campi, è una parte del nostro essere, e io spero che le storie si racconteranno per tutte le generazioni a venire.

 

 

Aviha è un racconto, una pièce teatrale, un film – come si pone nei confronti di ciascuna di queste realizzazioni? e qual è la sua preferita oggi?

Ogni medium è differente, e ognuno costituisce un’esperienza differente. Scrivere mi ha procurato una catarsi. Per la prima volta ho parlato chiaramente di quegli argomenti e sono stata in grado di andare nel profondo di me stessa. La pièce teatrale e il film, nel quale ho recitato il ruolo di mia madre, sono stati un tentativo di accostare la sua natura in modo differente.

 

Come presenterebbe il racconto ai lettori italiani?

Il libro ha toccato il cuore di così tante persone nel mondo, in venti lingue diverse, spero che succederà anche qui. Invece mi preme dire qualcosa sul mio modello, l’attrice italiana Anna Magnani. Sul muro sopra il mio letto ci sono le fotografie dei miei genitori, di quelli di mio marito e la sua: è diventata per me proprio una parte della mia famiglia. Non so se esista un premio a suo nome, ma se non ci fosse, vorrei contribuire a istituirlo.

 

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