Per una scienza dell’ecceità / Deleuze e la psicologia

1 Febbraio 2018

Lo stupido è colui che fa della clausura della conoscenza la condizione normativa della propria vita, colui che ha eliminato dall’orizzonte del proprio sguardo il piacere dell’attesa, la creatività dell’istante ignoto, l’incertezza dell’esplorazione.

Lo stupido è chi non esce dalla culla, chi non scioglie le cime del familismo, chi non osa considerare l’evento fulmineo che scompagina le regole, o l’inaspettato che spezza il fiato a tutte le cose troppo ordinate.
Se ciò è vero, la psicologia è allora quella scienza che, a causa della propria timidezza, spregia qualsiasi possibilità di incontro con l’inatteso, non rinunciando, per ciò stesso, alla venefica tentazione di normalizzare l’impossibile.
Come gettare con profitto, dunque, i semi di una nuova psicologia, più audace e radicale? È l’interrogativo portante dell’opera di Maria Nichterlein e John R. Morss, Deleuze e la psicologia (Raffaello Cortina, Milano 2017). Per gli autori, l’abbozzo di una delle plausibili risposte risiede nell’affidamento alla filosofia, o più precisamente, al pensiero di quel filosofo contemporaneo che, malgrado abbia nutrito forti dissapori verso alcuni dei fondamenti psicologici e psicoanalitici relativi alla vita mentale della soggettività, consentirebbe alla stessa disciplina della psicologia di aprirsi alla potenza creatrice dell’evento inatteso: Gilles Deleuze.


La psicologia teme l’ignoto: è questo l’assioma scientemente iperbolico che sovente risuona nei diversi capitoli del libro. Ma v’è di più: se è vero, come sottolineano a più riprese gli autori, che la psicologia preferisce il pigro tepore della familiarità, dove ogni conseguenza logica è prevedibile – se non già prevista – in quanto normata, che cosa avrebbe allora da offrire la filosofia di Gilles Deleuze per condurre la disciplina psicologica fuori dal tinello familiare, in quel territorio aperto e senza confini nel quale è possibile scontrarsi con l’assoluta imprevedibilità di un evento dirompente? Seguendo per certi versi la fratellanza tematica che lega nella distanza le riflessioni di Deleuze e Guattari intorno alla proposta della schizoanalisi e quelle di Gregory Bateson in merito al tentativo di definire la natura sistemica dell’umano, il quadro che gli autori ci presentano è tale per cui sarebbe necessario, per la psicologia, spingersi coraggiosamente a una rivoluzionaria trasfigurazione della propria unità analitica di riferimento.
Altrimenti detto, quella proposta da Nichterlein e Morss è principalmente una sollecitazione metodologica: votarsi a un empirismo rigoroso per vincere il rischio della timidezza.


Empirismo radicale: unitamente ad alcuni dei concetti fondamentali del pensiero di Deleuze, è proprio questa la formula attraverso la quale la psicologia, come sapientemente sottolineano Pietro Barbetta ed Enrico Valtellina nella loro introduzione al volume, può lottare per recuperare la ricchezza creativa dell’evento in ogni sua dimensione (ivi, p. XVI). In questo senso, ciò che Deleuze ha visto nel Maggio ’68 incarna a tutti gli effetti quella potenza sconvolgente di un reale puro o, per usare le puntuali parole di Nichterlein e Morss, quella potenza inaspettata dell’evento, che aprirebbero la strada a uno spazio di possibilità del tutto impreviste (ivi, p. 12). Ecco, dunque, che il contributo autenticamente politico alla formulazione di una “scienza deleuziana” della psicologia è ravvisabile nella vitalità impetuosa in cui l’evento ha luogo, esemplificato nel Maggio francese: per Deleuze l’evento è, come ricordano puntualmente gli autori, una possibilità concreta di cambiamento e di rinnovamento, una forza che incide l’ordine normativo e stabilito delle cose, la produzione immanente di un reale che si configuri come apertura di uno spazio virtuale in cui ogni possibile possa profilarsi.

In tale prospettiva si tratta, allora, di recuperare quella forma radicalmente trascendentale di empirismo che Deleuze ha di fatto eretto a metodologia del proprio lavoro teoretico, rivalutando l’importanza di un contatto immediato con il mondo.

 


 

Non esiste nulla al di fuori del tutto costituito dall’esperienza. L’esperienza è quel suo fuori assoluto, è quel tutto che non ha esteriorità alcuna, e che si sostiene da sé. Principio o limite trascendentale di sé stessa, come Deleuze già scriveva in Empirismo e soggettività, l’esperienza non presuppone alcunché.

L’empirismo trascendentale di Deleuze, fondato in quanto metodologia d’indagine – e al tempo stesso di costruzione – del reale medesimo, è ciò che consente di rovesciare e mettere in crisi l’edificio della metafisica occidentale e dei suoi più inveterati dualismi, a partire dal dualismo cartesiano, fino a quello di sapore fenomenologico che oppone il soggetto e l’oggetto.
Quella di Deleuze è una filosofia profondamente anti-dialettica e non dualistica: uno dei concetti su cui Nichterlein e Morss fanno leva per sottolineare quest’aspetto della riflessione del pensatore francese è quello di concatenamento. Sottolineando a più riprese l’importanza del pensiero sistemico di Gregory Bateson per una più precisa definizione di quello che Deleuze e Guattari in Mille plateaux intendono con la nozione di agencement, infatti, gli autori fanno riferimento all’idea di concatenamento come a una creazione concettuale che eluda ogni forma di dualismo. Lungi dall’assimilarsi a individualità personali, il concatenamento rimanda all’idea di un sistema complesso, o più precisamente, a un tutto funzionante (ivi, p. 53).


Ma non è tutto: disconoscendo la matrice individualistica della teorizzazione psicoanalitica di Freud, l’idea deleuziana di concatenamento supera l’insufficienza della linearità e si colloca su un piano multidimensionale, o per meglio dire, rizomatico, nella misura in cui il rizoma, in Mille plateaux, viene descritto come una struttura articolata che non ha inizio né fine e che si sviluppa nomadicamente, in un infinito intermezzo; seguendo la risolutezza della proposta avanzata da Nichterlein e Morss, allora, si potrebbe forse aggiungere che il contributo sistemico di Deleuze (in particolar modo di quel Deleuze che ha saputo leggere e apprezzare i lavori di Bateson) alla psicologia risieda proprio nell’idea deleuziana di agencement, ossia di quella struttura complessa in cui l’unità della relazione non coincide con la somma delle parti coinvolte nella relazione stessa e ove, in fin dei conti, non v’è sintesi possibile tra l’Uno e il Molteplice.


I concatenamenti non sono gli individui, ma attraversano gli individui e i corpi stessi, trasfigurando l’idea convenzionalmente intesa di soggettività e neutralizzando i dualismi per mezzo dei quali la tradizione metafisica occidentale si è sempre riferita alla soggettività umana; con questo concetto problematico, dunque, Deleuze sfida la psicologia alla modificazione della propria unità di analisi: concatenamenti e non individui, ecceità e non persone.

In fin dei conti, si può dire che tutta l’importanza e la paradossalità dell’impresa deleuziana si sintetizzi nel tentativo di ricondurre la filosofia alla sua matrice eminentemente speculativa, a un pensiero puro che possa pensare la totalità dell’esperienza nella sua assenza di presupposti trascendentali, o più precisamente, che sappia pensare l’assoluto del pensiero stesso, a prescindere da ogni riferimento alla soggettività umana; pensiero puro, assoluto, senza medium, inumano.


In linea con le intenzioni globali delle riflessioni di Deleuze, l’empirismo trascendentale si pone, per certi versi, l’obiettivo di procedere oltre il privilegio della vita umana (ivi, p. 173), per piegare il pensiero nella direzione di un reale non antropologico, assolutamente immanente, un reale solcato da zone di indiscernibilità tra quanto è umano e quanto invece non lo è affatto.

Filosofia dell’immanenza assoluta: l’ontologia di Deleuze è un’ontologia che assegna all’essere una sola e unica voce. Univocità del reale: che l’essere si dica in un solo e medesimo senso per tutti i suoi enti o manifestazioni significa sostenere, con un atto speculativo confacente a quello che abbiamo visto configurarsi nei termini di un empirismo metodologicamente rigoroso, che l’essere univoco coincida con quel piano di immanenza organizzato in molteplicità o differenze individuanti. Per dirla con le parole di François Zourabichvili – fine studioso dell’opera e del pensiero deleuziani –, a fronte di enti molteplici e differenti, o membra disjuncta, l’univocità è la sintesi immediata – non derivata da alcun procedimento dialettico – del molteplice.


In linea con l’ontologia immanentista di Spinoza – che, come ricordano Nichterlein e Morss è forse uno dei filosofi che, insieme a Nietzsche e Bergson, ha fornito a Deleuze le coordinate chiave del suo lavoro teoretico – l’immanenza assoluta è un concetto profondamente anti-dualistico: la dottrina dell’immanenza procede di pari passo con la proposta di una cosiddetta “ontologia piana” (ivi, p. 7), un’ontologia, cioè, che spieghi il reale rovesciando la metafisica platonica.
Deus sive natura: così come in Spinoza l’univocità dell’essere si afferma in quanto sostanza unica, universale e infinita di tutto ciò che è, in Deleuze l’immanenza è quel piano davvero assoluto cui nulla si può contrapporre, neppure la trascendenza.


A dispetto delle innegabili difficoltà che chiunque abbia tentato di scontrarvisi ha incontrato, le parole di Deleuze nel suo breve scritto L’immanence: une vie sono perentorie: la vita della pura immanenza, quella vita che vive prima di ogni processo di individuazione personale, è “una" vita le cui connotazioni risplendono tutte nella specificità di quell’articolo indeterminativo. Vita neutra, al di là del bene e del male; vita innocente, ma nella misura in cui quell’innocenza coincide proprio con un’immanenza radicale, priva di opposti, un’immanenza dell’immanenza, un’immanenza di una vita singolare, di una pura ecceità senza nome eppur inconfondibile nella sua singolarità.
Se l’immanenza, dunque, è quel tutto fuori dal quale non esiste niente, e se essa coincide, altresì, con il tutto di un’esperienza non ulteriormente trascendibile, come è possibile giudicare quel tutto? Solcando i tracciati segnati dalle riflessioni nietzscheane, la filosofia di Deleuze afferma entusiasticamente l’innocenza del divenire e di tutto ciò che è, senza giudicare.

 

Il processo del pensiero afferma la vita. È questa, in fin dei conti, la formula per mezzo della quale Maria Nichterlein e John R. Morss sintetizzano l’intimità teoretica tra Nietzsche e Deleuze, proprio perché il pensiero è ciò che consente di porre soluzioni ai problemi della vita “sotto forma di possibilità nuove e inaspettate” (ivi, p. 157). Nelle intenzioni profonde degli autori di questo libro si tratta, in altre parole, di cogliere l’incontro con l’evento inatteso come occasione di affermazione. Per l’umanità a venire d’ispirazione nietzscheana, l’affermazione della vita di fronte all’inaspettato implica la creazione di nuovi valori che alleggeriscano la gravità di tutto ciò che vive. Giocare, ridere, danzare, come Dioniso.

Come vincere, allora, la bêtise della psicologia, la sua stupidità, la sua timidezza? Come affidarsi alla potenza scardinante dell’evento inatteso? Si tratta, in fondo, di sondare inedite e imprevedibili possibilità di vita votandosi al potere della deterritorializzazione, ossia a quell’attività che consenta di inaugurare e intraprendere linee di fuga nel caos molteplice dell’immanenza, che permetta di sfuggire alla rigida codificazione delle istituzioni familiari, statali, burocratiche. Come sottolineano con precisione Nichterlein e Morss, le attività di deterritorializzazione sono tutte quelle attività che rendono possibile l’emersione di ciò che Deleuze e Guattari definiscono nei termini di uno spazio liscio, un territorio senza confini, un piano immanente, abitato da pure ecceità nomadi, solcato esclusivamente da linee di fuga, da viaggi intensivi, da movimenti assoluti.


In fin dei conti, l’obiettivo di Nichterlein e Morss è proprio questo: consentire alla clinica di offrirsi come ambito nel quale coltivare le opportunità di dischiudere spazi lisci, di promuovere atti di deterritorializzazione, di tracciare linee di fuga. Fuggire agli apparati di cattura istituzionali, respirare aria pulita. Ma per farlo è necessario che il soggetto rinunci alla propria identità e si voti all’energia impersonale dell’evento; è necessario, nondimeno, che il soggetto si faccia evento egli stesso.
Ecco l’autenticità del contributo della filosofia di Deleuze alla ridefinizione di una teoria psicologica e di una pratica clinica che sappiano valorizzare creativamente l’incontro con l’impetuosità di quanto v’è di inaspettato in ogni evento: come nella riflessione psicoanalitica di Jacques Lacan, ad esempio, il reale dell’inconscio emerge nell’incontro fatale con l’Altro, così in una terapia sistemica che sappia lasciarsi corroborare dalla filosofia deleuziana, il soggetto deve darsi in quanto struttura collettiva, in quanto soggetto nomade, portatore di molteplici possibilità virtuali, costantemente attraversato da linee di fuga che egli stesso inaugura senza posa. Il soggetto non può più essere inteso in senso individuale o personalistico, ma in quanto pura singolarità anonima e nomade.
È forse proprio questo il senso di una trasfigurazione dell’unità psicologica di analisi prospettato da Maria Nichterlein e John R. Morss: divenire ecceità impersonali, pure individuazioni senza soggetto. E disegnando spazi lisci, vivere nella pura immanenza di una vita.

 

M. NICHTERLEIN e J. R. MORSS, Deleuze e la psicologia, Raffaello Cortina, Milano 2017.

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