Dieci anni di attesa / Vasco Pratolini e Cronache di poveri amanti

19 Ottobre 2017

Sulla prima edizione di Cronache di poveri amanti, uscita per l’editore fiorentino Vallecchi nel 1947, si trova scritto: «Napoli, 3 febbraio 1946 – Firenze, 14 settembre 1946». Chi si fosse imbattuto in quella copia avrebbe pensato che Pratolini avesse le idee piuttosto chiare, se in un così breve lasso di tempo era riuscito a comporre l’intero romanzo. Ma naturalmente non era così: «Anche se questa trascrizione è avvenuta in sei mesi, ho impiegato dieci anni a decifrare i documenti». Dieci anni. Sì, perché secondo alcune dichiarazioni dello stesso autore, le prime idee delle Cronache gli erano balenate alla mente già nel 1937, prima ancora del suo esordio con Il tappeto verde. Anzi, Pratolini proclamava nel 1953 di essersi «portato dietro le Cronache per vent’anni». Occorre dunque fare un passo indietro e legare la vicenda biografica a quella del romanzo.

 

 

Nel 1927, il quattordicenne Vasco si trasferisce con la nonna materna in via del Corno, a Firenze, in mezzo a «gente con cui noi non abbiamo nulla da spartire – sosteneva la nonna – che vive sulla strada, fa cento mestieri, e di che genere [...] è la sventura che ci porta in mezzo a loro, ma per poco, un mese al massimo [...] e troveremo di meglio, tra gente per bene».

La sventura è una vicenda famigliare di morte e abbandoni. Nell’estate del 1918 Nella Casati, madre di Vasco Pratolini, spira poche settimane dopo aver dato alla luce il secondogenito, Dante. Vasco resta con i nonni materni, dai quali sarà cresciuto, mentre il secondo sarà affidato a una famiglia benestante che gli cambierà nome in Ferruccio e lo alleverà. La fine del conflitto mondiale non segna un ricongiungimento con il padre, che convolerà a seconde nozze, e la morte del nonno materno, avvenuta nel 1925, costringerà Vasco a trasferirsi nella popolare via del Corno con la nonna.

Vi rimasero sino al 1930, e furono gli anni dell’adolescenza: «Gli anni che mi innamorai per la prima volta, in cui cominciai a portare a casa un salario, e potei disporre di due o tre lire, la domenica. Uno di quei momenti che resistono a lungo nella memoria». Non è quindi un caso se Pratolini considerava Cronache di poveri amanti come il suo ultimo romanzo autobiografico.

 

Il libro racconta la vita in una strada popolare della Firenze tra le due guerre e via del Corno, dove tutto è ambientato, si presenta come fosse circondata da quinte teatrali. Ne conosciamo le dimensioni con esattezza: lunga «cinquanta metri e larga cinque; è senza marciapiedi»; è una strada che diventa «un Politeama». E, proprio come in teatro, dei personaggi che si allontanano dal palcoscenico quasi si perdono le tracce, poiché, nella composizione di questo affresco, il singolo è funzionale al tutto. Pratolini scrive molti anni dopo aver vissuto in quelle case; egli è stato un cornacchiaio, ma non è più partecipe di quelle esperienze, non svolge più mestieri umili e manuali, non frequenta i bar lungo la via: egli siede a tavolino e lavora di intelletto. Coerente dunque la scelta della terza persona, con un narratore che si fa regista e tenta di raccontare non più solo le singole vicende ma, attraverso quelle, le sorti di tutta la comunità, che coincidono poi con quelle dell’intero quartiere, alla città, alla nazione. Via del Corno è dunque emblema di vicende italiane (la consacrazione del potere fascista, la clandestinità delle opposizioni) e di sentimenti universali: l’amore, la solidarietà, le rivalità tra uomini. Un tentativo di interpretazione della storia tutta, dunque, sebbene attraversato da una troppo netta distinzione tra chi sta dalla parte del bene e chi da quella del male; una specie di manicheismo che l’autore sfumerà poi in Lo scialo, altro testo ambientato a Firenze tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.

 

Per centrare l’obiettivo di coralità, Pratolini trova ispirazione in Flaubert: «Dicendo che non bisogna scrivere col proprio cuore mi sono espresso male, volevo dire: non bisogna mettere in scena la propria persona. Il primo venuto è più interessante del signor Flaubert, siccome è più generale, più tipico». Sono le parole appuntate sulle prime pagine del dattiloscritto, che lo scrittore toscano rileggeva a ogni seduta di lavoro.

Un lavoro lungo dieci anni, si diceva. E tutto quanto Pratolini avesse elaborato sino ad allora era da lui considerato come preparatorio alle Cronache, «anche i raccontini che vado scrivendo, – si legge in una lettera al poeta Piero Bigongiari del 1942 – molto sotto l’urgenza dell’elzeviro per il giornale e il relativo compenso, se ti capitano devi prenderli come esercitazione, appunti, prospettive per le Cronache». Stessa considerazione per Il quartiere, come rivela una lettera degli anni Cinquanta a Giorgio Pullini: «È una specie di “cartone” per le Cronache, ma è anche un libro che mi ha dato fiducia nelle mie possibilità, che mi ha, se posso dir così, “svezzato” da molte cose» e principalmente, continua l’autore, da quella prosa d’arte, da quel tono per lunghi tratti elegiaco che aveva caratterizzato la sua prima produzione.

 

 

Per comprendere la gestazione dell’opera sono fondamentali le lettere inviate al poeta e amico Alessandro Parronchi, a cui già nel 1940 rivelava di aver «mandato per “Incontro” un racconto abortito e nemmeno scritto; dovevano essere le ultime pagine delle Cronache che così mi mancano ancora». Già in quell’anno, dunque, le difficoltà di realizzazione erano conclamate e già Vallecchi chiedeva conto dell’opera se Pratolini si sentì costretto a scrivergli – dopo aver avuto conferma che l’editore avrebbe stampato Il tappeto verde –: «Io vorrò restare fedele al credito che tu mi apri, e le Cronache dovranno testimoniarti che, forse anche sbagliando, non ti avrò deluso».

A guerra in corso, Pratolini si trovava impiegato presso il Ministero dell’educazione nazionale, lavoro questo che lo distraeva dal portare avanti la stesura: troppe le energie nervose che l’ufficio richiede e troppo brevi le licenze per pensare di impegnarsi seriamente al libro. Da Firenze, intanto la casa editrice voleva ancora notizie, ma la risposta a Enrico Vallecchi è senza appello: «Ci impiegherò chissà quanto tempo [...]. È per Vallecchi, ma Vallecchi mi deve dare il tempo, rispettare la mia necessità di lavoro».

Intanto esce Via de’ Magazzini, che ancora una volta è solo un allenamento per via del Corno («ne è venuto fuori quello che ne è venuto, per me resterà come una parentesi “magica” nel mio travaglio di un linguaggio da poter prestare alle Cronache») e Le amiche, all’interno del quale l’editore annuncia come in corso di stampa Cronache di poveri amanti. Ma siamo nel 1943, Mussolini cade e Pratolini si unisce alla Resistenza: di nuovo ci si deve fermare.

 

C’è poi un fatto tutto personale che lo sorprende e ne devia gli intenti: suo fratello, quel Ferruccio allevato da una famiglia benestante, quel lattante a cui il Vasco bambino dava la colpa della scomparsa della madre, muore nel 1945. 

La guerra è finita: occorre fare i conti con la memoria del fratello. Nasce così Cronaca familiare, un libro, si legge nell’avvertenza delle prime pagine, che «non è un’opera di fantasia. È un colloquio dell’autore con suo fratello morto. L’autore, scrivendo, cercava consolazione, non altro. Egli ha il rimorso di aver appena intuita la spiritualità del fratello, e troppo tardi. Queste parole si offrono quindi come una sterile espiazione». 

 

Ma è l’ultimo ostacolo, l’ultimo passo prima di quei sette mesi di lavoro puntuale e preciso che hanno condotto alla stesura delle Cronache. Al termine del conflitto, Pratolini si trova a Napoli e collabora con Roberto Rossellini alla sceneggiatura di Paisà. La città portuale lo ispira: è «un modo indiretto e violento insieme di tornare con la memoria fra le strade della mia città, a riassaporare l’aria, il colore delle pietre, in calore della gente» e, una notte dei primi di febbraio del 1946, lo folgora: «Risalii i vicoli della Speranzella, deserti, oscuri, pieni di rifiuti, tutti soli con la loro miseria secolare, brusii di tanto in tanto, pianti di neonati, voci inquiete dentro i “bassi” sprangati [...]. Era Napoli, ed era la mia città, Firenze, le viuzze stesse della mia adolescenza. [...] Tornai a casa e scrissi le prime pagine del romanzo che da tanti anni mi accompagnava. Lo finii relativamente presto, il tempo di scriverlo, potrei dire». E lo fa incenerendo tutto quanto scritto precedentemente: Firenze gli offre il ricordo, Napoli gli dà una voce.

 

Cronache di poveri amanti è un titolo che Pratolini si porta addosso da troppi anni per potervi rinunciare, solo perché Giorgio Bassani aveva pubblicato un paio di anni prima Storie dei poveri amanti; Vallecchi è d’accordo e si procede alla stampa. È un successo immediato: nel 1953 Carlo Lizzani lo adatta per il cinema offrendo a Marcello Mastroianni uno dei suoi primi ruoli drammatici. Il romanzo viene continuamente ristampato e, dal 1960, quando Pratolini passa a Mondadori, le Cronache percorrono largamente il catalogo dell’editore milanese, uscendo nella “Biblioteca moderna Mondadori”, poi nella collana “Narratori italiani” e approdando negli “Oscar” nel 1971. L’edizione più comunemente in commercio oggi è quella della BUR, accompagnata in copertina da Subway Lovers, un’immagine scattata nel 1949 dal fotografo newyorkese Arthur Leipzig. Quella foto è un inganno e un ponte allo stesso tempo: i due ragazzi possono essere davvero quelli pratoliniani o quelli scelti da Lizzani per il film, e invece sono due giovani immortalati nella metropolitana newyorkese nel 1949. Una cima, quasi, lanciata verso la modernità.

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