La geopoetica e la soglia della luce / Il nordland

13 Novembre 2016

Vedo il Nordland come il collo della clessidra chiamata Norge. Questa regione di acqua e di terre alte mi ha ispirato l'idea dell’Ultratempo, visione capace di sgretolare le misurazioni umane dello scorrere e liberare le energie più grandi che ci avvolgono dallo spazio – perché l'Ultratempo, generoso, sa estrarre la sabbia per farci scrivere sul territorio con la lingua delle rocce, dei corsi d'acqua, degli alberi, degli insediamenti, delle tracce che gli altri animali lasciano per chiarire che siamo un solo popolo, sul Pianeta e che nessuno, mai, è clandestino. Attraversando quella terra ho visto la magia della luce artica attrarmi – in un fiordo? in un passo tra due vette levigate dai millenni? –

 dove, precisamente, iniziava il prossimo cammino e l'ho anche scritto, per non dimenticarlo mai: «Prosegui sino a dove non conosci. Capirai allora perché sei vivo.» 

 

 

La prima volta che ho messo piede nel Nordland era un giorno di prima estate del 1997. Nelle settimane trascorse da solo tra Finnmark, Troms e Nordland, avevo potuto assorbire una tale enormità di connessioni territoriali da sentirmi a volte sopraffatto. Avevo i taccuini, per provare a raccogliere l'essenza, e in questo mi aiutava la recente apertura dei canali percettivi provocata dalla lettura di Barry Lopez: Sogni Artici. Che altro? Vie consolidate di quei giorni si trovano in I Diari di Rubha Hunish, da dove è partita la mia testimonianza geopoetica. Sarei tornato tra quei fiordi e ai piedi di montagne primordiali in un autunno di inizio millennio: nel chiaro bagliore mattutino d’autunno, cesellato dallo strofinio della trasparenza con la finezza dell’aria, scattò la scintilla di una limpidezza memorabile: in quel preciso istante compresi che l'Artico era un'idea, una percezione, un desiderio. Il luogo della (mia) Psiche. Compresi anche come solo la vastità della mia scienza preferita, la geografia, poteva competere con la profondità della creazione, la poiesis degli antichi fratelli greci. Fu l'impatto deflagrante, poi capace di raffreddare il magma caldo e farne connessioni e incontri che mi avevano condotto su una via per me inesplorata. Da dove partivo, credevo di saperlo. Avrei scoperto solo di recente, che anche la meta – il punto iniziale – si era spostata. Dove? Non credo di saperlo ancora. Non credo che lo scoprirò mai. Dunque, cerco. 

 

 

Durante quel viaggio appaiono i primi appunti che riusciranno a farmi estrarre dal sogno artico l'energia per tracciare una personale ricerca che condurrà alla stesura del libro che non c'era, il libro geopoetico I Diari di Rubha Hunish. Il libro esce nel 2004, dopo sette anni di scrittura e lo devo citare perché senza quello non ci sarebbe stato neanche il viaggio del quale ora proverò a restituirvi qualche bagliore, magari i "solar flares" che a caldo sono in grado di riconoscere. Perché è ancora fresco e oltre l'impressionismo non posso andare. Ma so che è nell'abbraccio di quella luce artica che devo proseguire, perché è da lassù che riesco a vedere meglio quaggiù.

Le connessioni sono alla base del lavoro geopoetico, una ricerca tesa all'esplorazione di ciò che è stato poco esplorato nella sua coniugazione scritta. Andare dove non ero mai andato in attesa della reazione chimico-spirituale che il territorio provoca nell'essere ricevente-trasmittente. Un cammino – interiore e fisico – grazie al quale (ri)fare i rilievi delle tracce esitanti, senza temere di mettere i piedi nelle torbiere sentendo la ventosa della Terra che può anche trascinarti giù, ma che più spesso ti consente di oltrepassare una soglia invisibile, ma perfettamente chiara ai sensi in ascolto. La regione del Nordland, l'Artico in generale, si configurano come le mie terre incognite per eccellenza. Il Nordland e l'Artico sono il fluire libero tra la luce e lo spazio, alla ricerca di connessioni che quest'anno si sono trasformate in una nuova spedizione, attualmente sotto analisi nel laboratorio dell'elaborazione di un lavoro richiestomi dalla regione Nordland.

 

 

Si parte a giugno, dal festival Det Vilde Ord di Bodø, dove sono stato invitato a rappresentare sia in conferenza che sul territorio, la letteratura geopoetica. La cittadina si adagia allo sbocco del Saltfjorden, quaranta chilometri di acque e gorghi (come il famoso Saltstraumen), protetta dalla grande isola Landegode (la Buona Terra), legata alle non lontane isole Lofoten, "dogana" tra il Nord e il Sud della Norvegia: di immaginario, di idee, dove l'unico dazio richiesto è la realizzazione di un nuovo sistema culturale che riconosca al territorio un ruolo ancora più importante nell'immaginario del popolo umano del Nordland. Siamo poco sopra il circolo polare artico, al capolinea settentrionale della spettacolare linea ferroviaria artica Trondheim-Bodø (720 km), dove il polo universitario e una biblioteca votata quest'anno da WIRED tra le 10 più belle al mondo, sono un porto per chi sa che senza cultura hai solo tante belle cartoline di paesaggi davanti alle quali dire "oh!". Bodø nel 2016 festeggia il bicentenario della fondazione e la sorprendente trasformazione degli ultimi anni ha reso queste celebrazioni, incentrate su arte e cultura, stimolanti laboratori di connessioni e sistemi che dovranno dettare il passo al futuro.

 

In qualche modo, Det Vilde Ord (La Parola Selvatica), si è posto, a inizio giugno, come volano di idee che ho potuto assorbire e restituire, anche con il cammino sul Keiservarden, la montagna simbolo della zona. Questo punto di vista esterno ha stimolato la regione a chiedermi di applicare il principio geopoetico a una serie di parchi nazionali che fanno capo al Nordland National Parksenter e così insieme ad Alpes, abbiamo iniziato uno studio che se ancora non sappiamo dove porterà, di certo è un'avventura mozzafiato, una sorgente di scritture. Fresco di Nordland, dove ho camminato in ottobre accolto dalla luce artica che la sera si trasformava in aurore boreali e messaggi interstellari, alla ricerca dei bagliori poetici che il territorio liberamente dona, ogni giorno, ogni attimo. Fate così. Pensate al sole, quando sorge ogni giorno: magari non siamo ancora svegli, magari non ci facciamo caso. Ma lui, sorge sempre.

 

 

Dove porterà questo percorso? Questa brezza artica, nelle giornate passate a camminare e riflettere, osservare, meditare, in un'area quasi disabitata, insieme a persone che questi luoghi li portano dentro, mi ha donato una nuova terra interiore, una cartografia che allarga l'Ognidove sino a orizzonti ancora da elaborare. Vagabondare significa sentire la forza della vastità e non temerla, come per me provare di nuovo la traversata della luce artica. Ci sono tanti pianeti espressivi che chiedono di essere visitati. Facciamolo, senza chiedere a chi ci legge di riflettersi con emozioni e pensieri consolidati. Facciamolo con coraggio. Facciamolo quando meno ce lo aspettiamo. Perché la luce artica non si vede, ma ci osserva. E a me ricorda molto la vita e il suo enigma. 

Il Nordland, la Terra a Nord.

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