Dal trailer al film / Cara, vecchia New York

12 Dicembre 2019

È uscito l'ultimo film di Woody Allen. Leggenda vuole che ormai il nostro ne sforni uno bello e uno no. Va da sé che sia importante mantenere attentamente il conto di quale sia l'ultimo e di quale sia stato il precedente. Ma la prolificità è elevata, e il compito è arduo. Basta distrarsi un attimo e l'alternanza non torna più: il precedente La ruota delle meraviglie è stato un buon film, più drammatico che divertente, che ha alimentato la nostalgia del Woody Allen âge d'or

 

Timothée Chalamet, Elle Fanning e Woody Allen sul set del film.


Ebbene, Un giorno di pioggia a New York. Film bloccato all'uscita per un po' a causa di polemiche collegate al #metoo. Qualcuno ne approfitta per rifare i calcoli, e per capire se il ritardo involontario, rallentando il ritmo, possa aver influito in un modo o nell'altro positivamente sulla qualità. Ciò nonostante, se il principio dell'intermittenza vale, a occhio questo dovrebbe essere il turno del meno riuscito. E il trailer sembra darne triste conferma, troppo lungo, e troppo chiaro: non preannuncia niente di buono. L'unica nota positiva, colta per lo più dagli appassionati di dettagli biografici, è – se escludiamo Basta che funzioni – il ritorno all'adorata New York, dopo aver fatto il giro del mondo, come le vacanze di Natale di Neri Parenti: Barcellona, Parigi, San Francisco, Coney Island, Roma, Londra, Los Angeles. 

Una comunità di adepti, tenuta insieme dalla stessa appartenenza generazionale, è concorde nell'individuare come spartiacque nella produzione alleniana Match Point, diventando responsabile della vulgata secondo la quale fosse quello l'ultimo film veramente valido di Woody Allen.

 

Quello che ne ha segnato anche la svolta irreversibilmente drammatica, come è successo con La stanza del figlio nella produzione morettiana. Tutti sappiamo, prima di questi due film, cosa hanno rappresentato Allen e Moretti. E in fondo ai nostalgici di Woody interessa ancora ciò che l'ha reso famoso: battute fulminanti, divertentissime, intrise di patologie sociali, ossessioni, manie. Le stesse che gli hanno aperto le porte degli esordi, quando si esibiva giovanissimo nei cabaret di New York, a fare i suoi monologhi in stand-up, raccolti in brillanti volumetti come Effetti collaterali. È ancora questo il Woody che cerchiamo. Nanni Moretti, invece, non è mai più tornato indietro: stiamo ancora aspettando al varco qualche battuta da trasformare in instant cult, in mantra, stile Ecce Bombo, ma siamo sul punto di abbandonare le speranze. Per Allen, grosso modo da Vicky Cristina Barcelona, è stata sempre la stessa storia. Al punto tale che personaggi e attori si confondono e le trame si dimenticano. Blue Jasmine, Magic in the Moonlight, To Rome with Love... titoli sempre graziosi, frivoli, facili da ricordare, carini, per film con la stessa struttura. Sembra essere diventato questo il nuovo marchio di fabbrica del regista.

 

 

E l'ultimo film di Woody Allen, invece?

Il trailer, si diceva, ha un andamento logico consequenziale, che sembra ripercorrere le fasi del film: inizio, sviluppo, conclusione. Apre con un'inquadratura di ambientazione: siamo in un college. Ci viene subito in mente il buco nell'acqua di Irrational Man, che sceglieva lo stesso tipo di location, oppure quel fotoromanzo didascalico che fu Vicky Cristina Barcelona. L'inesorabile declino, l'inizio della fine. Nessuna suspense, una commediola come le precedenti. Una ragazza comunica al fidanzato che ha ottenuto un'intervista a Manhattan, è eccitata. Basterebbe questo per capire quasi tutto. Se a quell'età non sei ancora stato a Manhattan, e la sola idea riesce a mandarti su di giri in questo modo, vuol dire che hai avuto un'educazione di un certo tipo. Il tuo habitat naturale è la provincia, e non c'è via di scampo. Nella scena successiva i due partono con un bus, alla volta della grande città. Si sistemano in un albergo vista Central Park, il taxi giallo, il giro in carrozza. La New York da cartolina. Ma qui le cose si ingarbugliano, la città fa il suo gioco, risucchiandoli separatamente in due percorsi paralleli ricchi di tentazioni, trappole, sorprese, al termine dei quali niente sarà più come prima.   

 

Il cosiddetto viaggio dell'eroe è chiaro: due provinciali, grazie all'intervista ottenuta dalla ragazza, danno avvio a un'avventura più spirituale che fisica che si dipana attraverso un percorso di formazione a tappe, dove New York rappresenterà una chiara metafora di emancipazione. I due fuoriescono dal guscio, abbandonano il protettivo ovile e si espongono al turbine tentacolare della metropoli. La trasformazione infine (strettamente parlando alla conclusione del trailer) è avvenuta, ed è esemplarmente suggellata da uno scambio di battute. Lui: “Togliti l'impermeabile”; lei: “Il fatto è che sotto non ho niente”. Il processo di svezzamento è compiuto a scapito di lui che, sebbene abbia avuto le sue stesse occasioni in forma di scappatella a delineare un quadro perfetto e compiuto di scambi di coppie, continua a cercarla per tutto il tempo. La vittima è chiaramente lui.

 

 

Come qualche volta accade, la prima scena del film è la prima scena del trailer. A rappresentare un'inversione di tendenza è invece la voce fuori campo, questa volta assente nel trailer e presente nel film (che autorizza però il fantasma Vicky Cristina Barcelona ad entrare in scena). Ma la vera scoperta è che il ragazzo è in realtà un newyorkese con una colta e consistente famiglia alle spalle, la cui madre anima salotti letterari, e i cui zii vanno alle esposizioni al Met. Ciò che non potevamo conoscere erano le condizioni sociali di partenza dei due ragazzi, su cui il trailer sorvola sapientemente (la scena del ricevimento materno, pure presente nel trailer, si perde nella sua economia complessiva, lasciando intendere che i ragazzi fossero entrambi della provincia, anche perché è difficile trovare un newyorkese che frequenti un marginale college degli stati limitrofi, destinato a figli di papà che possano avere la certezza di una laurea): lei provinciale e campagnola, lui irrimediabilmente cittadino di New York. Qui Allen opera una scelta di campo, decidendo di propendere schiettamente per lui. 

 

È qui che il titolo, Un giorno di pioggia a New York, emana tutta la sua centralità: è per questo che il film parla di New York, finalmente in un senso pregnante, pieno, a differenza delle precedenti Roma, Parigi, Londra, Barcellona, Los Angeles che sembravano più un pretesto che altro. La supremazia dell'adorata patria. Allen ritorna a casa e la sorpresa è doppia. Perché, a giudicare dalla costruzione narrativa, lo spettatore alla fine si aspetterebbe una restaurazione dello status quo: sai cosa? Non lasciamoci intaccare da questa finta metropoli fatta di tradimenti, sesso, potere, bugie, e torniamo a casa, nella provincia campagnola, ché siamo felici e incontaminati. E invece, colpo di scena. Colpo di scena perché il ragazzo è rapito e attraversato dall'arte e, complice il riappacificarsi con la madre, non sa che farsene della dormiente atmosfera delle cittadine per bene, aride, ignoranti, ottusamente beate. A questo punto, non si può che optare per un finale snob, un finale scorretto, un finale onesto. Alla condizione di partenza non si mente. Per la prima volta, dopo tanti anni, il finale amaro lo troviamo di nuovo divertente.

 

 

Non facciamo fatica a vedere nel protagonista (chi nella coppia di Chiamami col tuo nome aveva preferito, soprattutto esteticamente, il giovane Timothée Chalamet, ci aveva visto lungo) un'incarnazione del regista: magrolino, ricurvo, poco prestante, spigoloso nei tratti, intransigente e sognante allo stesso tempo, scarsamente integrato in società. Il tipico artista insomma, che parla attraverso folgoranti freddure, che richiamano alla mente quelle di Annie Hall. Non gli interessava l'assoluzione moralistica e politicamente corretta dell'innocente campagnola, in fondo senza colpe, che rimane tale, nonostante l'avventura metropolitana abbia tentato di cambiarla, figlia di un imprenditore ricchissimo. Eppure ce l'aveva messa tutta, ci credeva davvero in quest'intervista giornalistica (non se ne esce dalla critica al giornalismo, secondo vero tema del film). Al contrario, il trailer aveva impoverito il personaggio di lui, che risorge nel film rafforzato dall'influsso evidentemente positivo della cara, vecchia New York.

Vale la pena di citare Chandler in conclusione: “Sceglietelo voi questo genere di vita, amici. Io preferisco la grande, sordida, sporca, corrotta metropoli”.  

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