Fuga da Barbieland

10 Agosto 2023

La data è infelice. Mentre la polemica imperversa tra gli intellettuali del web, in coda alla cassa gruppetti di ragazzine che si affacciano all’adolescenza sono pronti a vedere il film del momento, in qualche caso accompagnate da mamme che sperano di svoltare un sabato d’estate o per lo meno un paio di ore. Per quanto riguarda invece le giovani generazioni di critiche, queste si erano già arrese all’idea di pernottare in chissà quale comune civilizzato non soggiogato da logiche vacanziere della cosiddetta terraferma per vedere il nuovo film di quella stessa Greta Gerwig dell’adorato Frances Ha. E invece. Il fatto che il film lo diano in quell’avamposto culturale sperduto del comune di Anacapri (deep Meridione) è totalmente parte dell’inganno. Un film autoriale che ad appena qualche giorno dalla sua uscita ha scatenato infinite discussioni, viene scambiato per una specie di marvellata. 

A conferma di ciò, a venti minuti dall’inizio le prime distrazioni, a trenta minuti la sala si svuota per metà, a quaranta parte addirittura una videochiamata di una spettatrice-madre, particolarmente coinvolta nell’intreccio del film. Faccio presente che entrambi i due cinema dell’isola di Capri, chi per un motivo, chi per un altro, non assolvono il requisito principe che consente l’abbandono psicanalitico: il buio totale. Per cui ogni cosa è parzialmente illuminata, comprese libere conversazioni tra i pochi restanti e la scrivente con un quadernino a prendere appunti, a cui mancano giusto i tappi per le orecchie per mantenere la concentrazione.  

 

L’incipit conferma pienamente l’estetica del teaser trailer; anzi no, è il teaser trailer. La premessa è interessante, e fa subito riflettere: se le bambole creano i presupposti affinché la bambina si proietti nel ruolo di madre, la Barbie lavora sul processo di identificazione: quella donna, magra, agile, bionda, sono io. E io posso diventare tutto quello che voglio – tranne madre (Barbie Incinta è troppo strana e si smette di produrla).

Ok, ma il film quando inizia? Dopo un po’ si cede al sospetto che sarà tutto così. Poi, il colpo di scena. Riassumerne la trama è cosa ardua dal momento che a reggerla sono una serie di opposizioni protagoniste a loro volta di altrettanti ribaltamenti (i più colti e rodati potrebbero cimentarsi in un quadrato semiotico). Con un’aggravante. Da un lato c’è il mondo reale, dall’altro c’è Barbieland. All’interno di ciascuno poi c’è lo schieramento maschi contro femmine, alla Fausto Brizzi. A ciò si aggiunge il requisito incastonamento: un mondo, per quanto pienamente cosciente di sé ancorché nei termini sbagliati, dipende dall’altro a doppio filo. Da un lato la logica corporate/commerciale di una Mattel messa in scena in tutta la sua parossistica, cliscettara ottusità, dall’altro la logica individuale/emotiva di una designer, madre, a suo tempo bimba. Le Barbie sono dunque un prodotto Mattel, ma anche assorbono gli umori di chi le disegna, ci gioca, o come in questo caso non ci gioca più, con tanto di ricordi e rammarico dell’infanzia. Da questo legame diremo “materno” nasce il problema di Barbie Stereotipo con cui, dopo venti minuti di incipit dallo statuto ambiguo a metà tra spot pubblicitario, videoclip (deve essere stato divertente girarlo) e spiegone didascalico-infografico di impianto sociologico sul mondo delle Barbie, finalmente si avvia il film vero e proprio. 

L’incidente scatenante è rappresentato dalla parolina magica morte. Pensate mai alla morte? si chiede Barbie Stereotipo, nel bel mezzo della sua vita plasticamente perfetta. Ed è solo la punta dell’iceberg, come si dice. Il suo piede sulle punte diventa piatto: la trasformazione è in atto. Bisogna andare sulla Terra (Mondo Reale) a sistemare le cose, a parlare con quella bambina infelice responsabile del suo incipiente processo di umanizzazione. Barbie parte a bordo della sua macchina, e la donna al volante capelli al vento, con l’autostrada ampia e deserta alle spalle sui colori della California mi ricorda curiosamente Uma Thurman in Kill Bill, che ha appena fatto fuori i primi nominativi previsti dalla lista (peccato solo per l’assenza di quel pezzone di Goodnight Moon).

C’è però un equivoco: non si tratta di una bambina ma di una madre che fa i conti con il suo passato (eccola!). È infatti del tutto inverosimile che una adolescente di oggi, cresciuta a botte di consapevolezza gender, abbia il mito di Barbie; no, questa ti fa a pezzi, è preparatissima. Una ragazzina di una società contemporanea non potrebbe mai giocare con le Barbie, ci giocava quella sfigata della mamma quarant’anni prima, a sua insaputa e per sua sfortuna calata in un mondo al riparo dalla woke culture. La bambola è malvista, è una totale deficiente. Ma a complicare le cose quanto a QI, in giro per Los Angeles oltre a Barbie c’è il suo compare Ken che, saltato surrettiziamente sulla sua macchina e gentilmente invitato da questa a farsi un giro in autonomia, come un cane o un bambino un po’ tonto (pienamente nel ruolo), sta traendo una sintesi allucinata del (non) potere maschile nel mondo reale da riportare a Barbieland.

Lei ci va per ripristinare lo status quo: no cellulite, no morte, no piedi piatti; lui per trarre ispirazione per una rivoluzione, per cambiarlo finalmente questo mondo in cui le Barbie hanno il predominio assoluto, e gli uomini sono dei poveri manichini senza carisma né autorevolezza. Dopo aver raccolto il cosiddetto know-how, Ken torna nell’aldilà. E, mentre Barbie è impegnata nel suo processo di – più che umanizzazione – normalizzazione e acquisizione di progressiva consapevolezza identitaria per mezzo dell’esperienza della vecchiaia e del pianto, gli uomini liberati da decenni di oppressione instaurano il patriarcato nel nome di una sorta di dio cavallo. Ma dura poco: le donne, per farli capitolare, decidono strategicamente di esercitare il loro potere seduttivo in favore dell’idolatria del maschio e questi, in men che non si dica, cadono di nuovo zerbini ai loro piedi. Hanno raccolto pienamente la lezione. Che dire? Donne all’ennesima potenza per uomini all’ennesima potenza. 

Detta così sembrerebbe un filo schematico. E invece è schematismo intriso di intellettualismo. Il film è a tesi, un saggio illustrato e il sottotesto è praticamente tutto. Corretto? O non sarò piuttosto io a essere prevenuta, nel mezzo di una cospirazione, piena di sovrastrutture? Il film si inserisce (rimane da capire come; segnalo a questo proposito “Come interpretare Barbie, critica in forma di video che Roy Menarini, con fare lungimirante, ha caricato sul suo canale) nel dibattito sul patriarcato, ma lo riduce a una contrapposizione schematica tra due diversi livelli di stupidità.

Ma Barbie vuole essere anche altro. È una sapiente e sarcastica ricostruzione dell’emisfero Barbie per mezzo dell’esagerazione di tutte le sue assurde peculiarità: nella dogville delle Barbie tutte le Barbie si chiamano Barbie e tutti i Ken si chiamano Ken. Barbie si fa la doccia ma l’acqua non esce, beve il caffè ma il liquido non c’è, le onde per surfare sono sia vere che finte, poiché Ken vi si lancia ma ci sbatte contro, le macchine vanno ma senza motore (in buona sostanza, è un’unica grande variazione sul tema della plasticità). La Barbie punkabbestia è la Barbie abbandonata, usata fino allo sfinimento, e tutti noi sappiamo bene di che stiamo parlando. È l’esasperazione del femmineo (o di un certo femmineo) in tutta la sua potenza. È una critica del maschile e del femminile, e dei loro rapporti. È un film sulla maternità da intendere anche nel senso di maternità di idee (e non di paternità), sullo scollamento tra maternità e prodotto. È un film sui rapporti tra madre e figlia. Un musical (la danza ritorna, dai tempi di Frances Ha), una critica all’industria dell’immaginario. E, spiace dirlo, la luce filtra nella sala cinematografica per illuminare ancor meglio tutta questa desolazione, rendendola ancora più insopportabile. 

A risollevare le sorti del film è però Ryan Gosling, finalmente a suo agio nei panni del bello (ammesso che sia tale) e stupido, tipo da spiaggia che fa la spiaggia. Alcune battute ben recitate nei tempi comici giusti strappano un sorriso allo spettatore. Per il resto, le altre cadono come palline da biliardo lisce nella buca. La chiusa finale è sulla nuova moda: la normalità. 

Dal momento però che, mamme degeneri a parte con creature al seguito, chi non sopporta sole e mare (dunque, i depressi), chi non ha l’aria condizionata a casa puntando su quella del cinema, o semplicemente coloro che hanno abboccato al  battage del film, la stragrande maggioranza dei responsabili del boom di incassi è tutto il resto della popolazione ormai cresciuta che ha normalmente giocato con le Barbie nella sua vita non importa quanto sensibile alla cinematografia, deposte le vesti della critica cinematografica ne porgo una mia, di nota personale in forma di chiusa. Essendo questo film patrimonio della collettività, è giusto che ognuno ne abbia una da aggiungere.

Non ho mai giocato con le Barbie in modo tradizionale; le Barbie erano talismani, oggetti sciamanici e mediatori che mi permettevano di costruire storie immaginarie (prevalentemente di famiglie molto numerose fatte dalle cinque sorelle che non avevo) slegate dalla concretezza dell’oggetto, della fisicità della stanza, in cui potevo osservare profili con frangette parlare del loro sport preferito. Le mie Barbie erano sempre nude e spettinate. Senza accessori, né case. Non sono loro che hanno modellato me, ma io che ho modellato ideologicamente loro anticipando la donna che sarei diventata (nuda e spettinata). Mi interessavano solo i capelli, il loro movimento ondeggiante nell’aria, operatore di trasformazione. E finora l’unica cosa che ho represso è stata un’autentica vocazione per lo hairdressing, che confermo ogni giorno. 

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