Una conversazione / Arjun Appadurai. Diritto all’immaginazione

13 Gennaio 2018

Arjun Appadurai è esattamente come te lo immagini. Un elegante, affabile professore dall’eloquio calmo, misurato e conciliante, nonostante il caos che gli si muove tutto intorno. Lo sguardo intento e assorto sull’interlocutore che si fa d’un tratto brillante e acceso, aprendosi su un sorriso, quando finalmente inizia a rispondere, sgranando uno per uno i numerosi spunti raccolti.

Così, nonostante gli argomenti affrontati, che spaziano tra paure, nazionalismi e disuguaglianze fin troppo concrete, a margine della sua lectio magistralis tenuta a Milano per Meet The Media Guru, la conversazione è lieve, limpida, persino piacevole. Ed è forse anche grazie a questa attitudine alla leggerezza che questo celebre antropologo, nato in India e ormai da anni accolto negli Stati Uniti, riesce a parlare di concetti dal sapore utopico come il “diritto alla speranza” o il “potere dell’immaginazione” senza cadere nella banalità o nel puro velleitarismo, ma anzi rendendoli in qualche misura plausibili e possibili, se non addirittura necessari.

 

È Appadurai che ha coniato vent’anni fa la celebre teoria sociologica dei flussi culturali globali: etnorama, mediorama, ideorama, tecnorama, finanziorama diventarono presto le etichette perfette per indicare i flussi sempre più ampi e imprevedibili di persone, simboli, idee, tecnologie, risorse economiche che si muovono nel mondo moderno. Ed è sempre lui che oggi si spinge a parlare del futuro come “un fatto”, ancorché culturale: qualcosa dunque che può essere non solo pensato, ma effettivamente progettato e costruito.

Come farlo, è tutto lì il problema. La risposta di Appadurai è semplice, ma non per questo ingenua: costruire un ambiente in grado di accogliere e coltivare ogni possibile visione di futuro, garantendo a tutti un pieno esercizio del proprio diritto all’immaginazione, e alla speranza. Due forze estremamente potenti, che muovono i viaggi disperati dei migranti, ma anche la loro legittima aspirazione a cambiare, in meglio, la propria vita, e insieme quella del mondo.

 

Vent’anni fa formulava la sua teoria dei flussi culturali globali, partendo da una premessa: la predominanza o perlomeno una forte influenza della dimensione dell’immaginario nella definizione dei fatti sociali e culturali. Oggi alcuni filosofi sostengono che stiamo sperimentando una sorta di “nuovo realismo”. Stiamo tornando a una nuova modernità?

In realtà la mia idea è che non abbiamo mai davvero abbandonato la modernità. E l’idea del postmoderno come una sorta di cesura, come una nuova era, non mi ha mai davvero convinto: l’ho sempre visto come una sorta di “variazione” del moderno e continuo a pensarla così. E tuttavia, la questione di un “ritorno del realismo” è importante. Grazie ai social media e ai dispositivi tecnologici, la nostra “capacità documentaria” è cresciuta moltissimo. Non solo i media ufficiali, ma la gente normale è ormai capace di registrare e raccontare la propria vita quotidiana, gli avvenimenti personali, le proprie idee e il proprio mondo: pensiamo solo al citizen journalism e fenomeni simili.

Non credo tuttavia che questo porti necessariamente a un predominio del reale rispetto al gioco e all’immaginazione. Credo invece che questo ritorno del reale nella vita quotidiana sia già in qualche modo saturato dalla capacità di inquadrare, narrare, selezionare ed elaborare quello che vediamo e facciamo. Non credo insomma sia un reale con la “r” minuscola, piuttosto con la "R" maiuscola, una specie di “reale lacaniano”. Ma in ogni caso è un reale profondamente intriso della nostra capacità di mediation, che sta cambiando insieme alle tecnologie.

 

Viviamo sempre più immersi in una cultura visiva. È stato calcolato che il numero di immagini che ci circondano arriverà presto a toccare la soglia dei miliardi. Come interpretare e governare questo oceano di visualità è una delle sfide più grandi del prossimo futuro e richiede, appunto, nuove modalità di immaginazione. Pensiamo a un fenomeno recente come il gioco Pokemon Go: è il segno che le persone sono ancora alla ricerca di una relazione giocosa con il loro ambiente. Ma nel farlo ridisegnano l’ambiente stesso in modo attivo, come performers del quotidiano, inventando nuove forme di mediazione.

Più che un ritorno al reale, insomma, credo che stiamo assistendo all’emergere di una più complessa forma di economia nella relazione tra finzionale e reale, in cui ciascuna dimensione influenza l’altra in modi spesso non semplici da prevedere.

 

Parliamo di etnorami. Con la crescita dei nazionalismi siamo oggi in una situazione culturale e politica dove il legame tra spazio e identità sembra rafforzarsi. Siamo di fronte a una rinascita del concetto di territorio?

Non c’è dubbio che stiamo sperimentando, sia in Europa che negli Stati Uniti, una svolta culturale generale verso un pensiero nazionalista e xenofobico. E certamente il concetto di territorio è coinvolto in questo processo. Di fronte al radicalizzarsi dei flussi non solo di migranti e rifugiati, ma soprattutto del terrorismo, l’ansia sociale cresce e le persone tornano a cercare punti fermi in valori come il territorio, la famiglia, la nazione. Non credo però che questo comporti un ritorno all’idea di territorio così come la si intendeva una volta. Come ci hanno insegnato studiosi come Lévi-Strauss e Jakobson, nella realtà culturale, quando qualcosa è nuovo, tutto è nuovo. Il mondo dei significati è un mondo di relazioni: nessun significato esiste da solo e quando un elemento cambia, cambia tutto il resto.

Così anche per concetti come il territorio, il suolo o la nazione: quando il cambiamento avviene, è irreversibile. Sono entità che possono essere riviste e rivitalizzate, ma mai ristabilite così com’erano, perché nel frattempo il terreno si è letteralmente mosso sotto i nostri piedi. È come le temps perdu di Proust: il tempo perduto è, appunto, perduto. Possiamo ricrearlo e raccontarne ancora la storia, ma la rivisitazione non sarà mai la stessa. Ed è anche per questo che l’inquietudine culturale cresce, perché sappiamo che questi sforzi non saranno mai completi, che non c’è modo di tornare indietro, di invertire la direzione.

 

Tra i sintomi di questa ansia nazionalista va annoverata certamente anche la Brexit. Qual è la sua visione sull’Europa, oggi, in particolare rispetto alle politiche di coesione comunitaria? È ancora possibile pensare a una identità transeuropea o paneuropea?

Non c’è dubbio che l’esperienza della Brexit, insieme alle ansie nazionalistiche causate dalle nuove ondate di migranti, stiano facendo pressione sull’idea originaria di Europa così come fu formulata da Jean Monnet e gli altri padri dell’unione, fino a renderla quasi irreale o illusoria. Credo però che gli Stati nazione europei non abbiamo scelta: che si tratti dell’economia, del lavoro o della crisi dei migranti, ormai tutto è in circolazione e nessuno può più occuparsene in modo autonomo.

Credo però che il problema principale non sia tanto una politica della sicurezza comune o una strategia condivisa rispetto ai rifugiati, quanto piuttosto il futuro dell’euro e in generale dell’unione economica: chi la controllerà sul lungo periodo, chi ne beneficerà e chi invece ne subirà le conseguenze, come già avvenuto alla Grecia? I paesi più ricchi, come la Germania, insieme alla Banca Centrale Europea dovrebbero fare una seria riflessione a riguardo. Ad esempio, sarebbe bene avere un fondo europeo per i rifugiati, a cui le nazioni possano contribuire non solo tramite la tassazione, ma con investimenti diretti, e che venga impiegato dove davvero ve ne è necessità. Ma è solo uno spunto di un’evoluzione più ampia che in qualche modo, almeno a mio avviso, deve essere avviata e portata avanti.

 


Una delle sfide più grandi dell’Europa sarà la gestione dei forti flussi migratori dall’esterno. In che modo i processi immaginativi influenzano questo fenomeno?

È evidente che l’immaginazione è una forza potentissima, per chi arriva come per chi accoglie. E bisogna impegnarsi a trovare un modo per darle forma in modo costruttivo, affinché non si risolva, come già sta avvenendo, in sentimenti di odio, paura e rigetto.

Ad esempio, non ha senso opporre in modo netto i migranti per ragioni economiche e i rifugiati per motivi umanitari, perché è un falso contrasto. Tutti desiderano migliorare la propria vita. E migliorarla significa più sicurezza, più garanzie, ma anche un futuro migliore, per sé e per i propri figli.

L’Europa è stata per secoli una terra di libere migrazioni, sia interne che esterne. Mi pare un po’ ipocrita, ora, volere all’improvviso fermare la musica e mettere tutti a sedere, sperando che chi non ha una sedia semplicemente scompaia. Perché questo non accadrà. È ora di riconoscere che immaginazione e diritti sono di tutti, non solo di pochi, e che occorre mettere in atto una sorta di “politica della generosità”.

Qualunque cosa si dica dell’economia europea e delle sue contraddizioni, l’Europa è un luogo ricco e privilegiato, non certo l’ultimo gradino della scala economica mondiale. I mezzi ci sono e aiutarsi a vicenda è possibile, senza che questo porti necessariamente a una riduzione del benessere dei singoli paesi.

 

Nel suo ultimo libro si parla di futuro. Alcune nazioni, come la Svezia, stanno attivando ministeri e programmi per governare il cambiamento “dall’alto”, con mezzi istituzionali. Nel libro si suggerisce invece che il vero cambiamento viene dal basso, dalle persone. In che modo questi due modi di “progettare il futuro” possono incontrarsi?

Credo che questa rappresenti davvero una questione di vitale importanza per il futuro della democrazia. Se infatti i processi di cambiamento sono completamente spontanei e dal basso, mancheranno di alcune capacità: pensare il contrario è utopistico, porta a problemi troppo grandi. D’altro canto, un controllo istituzionale eccessivo rischia di bloccare sul nascere “idee di futuro” che potrebbero rivelarsi fruttuose, se non rivoluzionarie. Bisogna allora che progettare il futuro sia un esercizio congiunto, dove chi ha ricchezza, mezzi ed educazione deve assumersi la responsabilità affinché le idee nate dal basso trovino un ambiente adatto per potersi sviluppare. Ma per farlo bisogna superare una serie di ostacoli. In primo luogo, bisognerebbe riconoscere che le persone hanno aspirazioni complesse, tutte legittime. Che cioè la gente comune non vuole solo cose semplici – sicurezza, ricchezza – ma ha aspettative complesse su come sarà il proprio futuro, cosa desiderano per i propri figli, dove vorrebbero vivere. 

In secondo luogo, bisogna riconoscere che le “visioni di futuro” delle persone sono diverse. Pensare che debbano essere le stesse per tutti – l’idea del “sogno americano” o del “sogno europeo”, comunque sempre il sogno di qualcun altro a cui, al massimo, si è invitati ad aderire – sarebbe un incubo.

Al contrario, la diversità culturale dovrebbe essere riconosciuta come un vero asset. Abbiamo bisogno di idee diverse, così come abbiamo bisogno di linguaggi diversi. È come la biodiversità: non conviene ridurla. Perché nessuno può sapere di cosa avremo bisogno in futuro: se lo elimini oggi, domani non sarà più disponibile. Le immagini del futuro vanno coltivate il più possibile, perché non possiamo mai sapere da dove nascerà una grande idea.

 

Dobbiamo allora creare un ambiente in cui chiunque abbia capacità di sperare e sognare o immaginare un futuro ha diritto di accesso. E poi, certo, devono anche esserci dei forum in cui negoziare le diverse idee di futuro, in modo pacifico, perché per essere effettive hanno bisogno di essere configurate e non possono certo farlo da sole. È questo che dovrebbero fare le istituzioni: facilitare i processi e i dibattiti, senza per questo determinarli a priori. 

 

Nel suo libro si parla anche della necessità di un’etica della possibilità opposta a un’etica della probabilità: qual è la differenza e qual è il ruolo della speranza in questa nuova etica?

La speranza è esattamente l’essenza dell’etica della possibilità. L’etica della probabilità è un’etica numerica: ha natura statistica ed è legata a stretto filo con la conoscenza specialistica, con le proiezioni e le previsioni degli esperti, destinate a essere tradotte in realtà dall’azione politica.

La possibilità, invece, è un concetto più qualitativo, più elusivo. Più narrativo. Non si tratta di stabilire ciò che potrebbe accadere e con quale probabilità, ma di aprire la strada a quello che potrebbe essere. La speranza, quindi, per me non è solo un’emozione o un sentimento: è una capacità, come il desiderio. È qualcosa che si impara a esercitare quando si è incoraggiati a farlo. Non nasce da sola. E in quanto capacità, può anche esaurirsi, se non viene usata.

Serve allora un ambiente politico, sociale e culturale dove le persone sono abituate a sperare. Perché è dalla speranza che discendono poi le diverse immagini di futuro, così come la spinta e la possibilità di negoziarle. Ma tutto questo non ha a che fare con il mondo dei numeri e delle probabilità, bensì con la vita, le relazioni, le aspirazioni: in una vent’anni parola, il diritto all’immaginazione.

 

Intervista tratta dal numero #1/2017 di ICS magzine, edito da Pomilio Blumm.

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