Viaggio in due scene d’estate / Tenebre luminose. Il Lemming e le Albe
Tradurre la luce in musica sembra essere l’ardua sinestesia che accomuna due lavori teatrali molto differenti che hanno calcato le scene d’estate. Il primo è Ante lucem del Teatro del Lemming, ispirato all’opera da camera Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok di Dmitrij Šostakovič, replicato alla 17esima edizione del festival Opera Prima di Rovigo (5-6 settembre). Il secondo lavoro è Siamo tutti cannibali di Roberto Magnani, una riscrittura del romanzo Moby Dick di Melville. Prodotto da Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, lo spettacolo ha debuttato al festival Crisalide di Forlì (26 agosto) e replicato a Operaestate di Bassano del Grappa (28 agosto), i quali hanno anche collaborato alla genesi dello spettacolo. Per una felice coincidenza, la musica è protagonista incontrastata di entrambi i lavori per due ragioni. La prima è la più concreta. Sia Ante lucem che Siamo tutti cannibali prevedono un dialogo serrato tra artisti e musicisti. L’andamento procede, dunque, per rifrazioni reciproche tra testo e melodia, senso e suggestione fonica. In Ante lucem, il dialogo avviene tra un gruppo di attori, che recitano le poesie di Blok o con le parole o con azioni fisiche, e un ensemble di musicisti che eseguono la resa sonora di Šostakovič. Con Siamo tutti cannibali, vediamo dialogare la voce di Magnani che recita il racconto di Melville e il contrabbassista Giacomo Piermatti, il quale riproduce con il suo strumento il movimento della nave Pequod sul mare, il battito di pinne e l’azzannare dei pescecani, così come molti altri suoni che si producono sia in superficie che nelle profondità marine.
Ma si era partiti dalla formula che questa musica non assolve una semplice funzione “fisica” o scenica. Ante lucem e Siamo tutti cannibali vogliono tentare di tradurre in suono ciò che suono forse non può mai né divenire, né essere. Tale è appunto la luce, di per sé muta, o quanto meno prossima al mutismo assoluto (non è da escludere, infatti, che un’entità luminosa produca una melodia inudibile a orecchie umane). Va comunque detto che, malgrado questa differenza essenziale, sussistono profonde somiglianze di natura. Luce e suono condividono, ad esempio, il fatto di irradiarsi tramite onde – ed è grazie a tale medium che la traduzione dall’uno all’altro piano risulta certo enormemente difficile, ma non impossibile. In assenza di tale somiglianza, forse la resa musicale di un’irradiazione luminosa sarebbe realizzabile soltanto a un dio. La luce che tanto Ante lucem quanto Siamo tutti cannibali cercano di tradurre in suono ha un’altra caratteristica saliente. I due lavori parlano di una luminosità che ancora non c’è, o che si fa fatica a percepire e ammirare. Il dilemma per Ante lucem sta proprio nel titolo: le poesie di Blok parlano di una luce o un’alba che deve ancora venire a riscattare il mondo dai suoi orrori, mentre la musica di Šostakovič evidenzia il dolore, il freddo e la morte che gli esseri umani stanno tutt’oggi patendo. Occorre così vivere con la consapevolezza che attualmente brancoliamo nel buio e cerchiamo un calore o una felicità assente. Siamo tutti cannibali va in questa stessa direzione operando, tuttavia, una selezione o patchwork originale degli episodi di Melville, che hanno tutti come filo conduttore la presenza dei pescecani. Agli occhi dei marinai del Pequod e del loro capitano Achab, gli esseri sia umani che marini sono condannati a sopraffarsi a vicenda. La loro relazione consiste, infatti, in un continuo divorarsi reciproco. D’altro canto, gli esseri umani incontrano/lottano con Moby Dick, i pescecani e altra fauna marina per una motivazione in più: salpano in mare perché credono di trovar qui un senso che illumini la loro vita oscura e tetra. Ma come il Narciso del mito che affoga nel tentativo di afferrare la sua immagine, così l’equipaggio del Pequod finisce per essere distrutto dalla stessa luce che il mare sembra incarnare. E nell’inseguire questa lampada fallace, Achab e gli altri marinai dimenticano la bellezza del sole che splende dal cielo alla terra.
Se è comunque già arduo tradurre la luce in suono, lo è ancora di più cercare la traduzione di una luce che ancora non si conosce, o che è perennemente differita. E allora, come si fa a uscire dall’impasse? In termini conoscitivi, in che modo si può tradurre l’ignoto mediante il noto? Dal punto di vista etico, come si può diventare capaci di aprire a un futuro luminoso e felice, quando il presente sembra solo preannunciare catastrofi? La soluzione estetica che pare essere proposta da Ante lucem e Siamo tutti cannibali prevede un curioso rovesciamento della questione. La tenebra è la sola realtà che ci appartiene e che possiamo sondare con le nostre azioni nel tempo, compreso l’atto di sperare o immaginare la luce futura. Ne segue che, forse, il modo più sensato di tentare di tradurre la luce in sonorità è esprimere con la musica quali sono le aree in penombra della vita, in altri termini quelle in cui sembrano esservi avvisaglie di un albeggiare. Con tale operazione, certo non si parla direttamente della luce, semmai del preludio della luce. Nondimeno, come appunto in un preludio musicale, queste note sono elementi di una composizione più ampia e articolata che si svilupperà maggiormente in seguito. Per usare un paradosso, il modo più razionale di tradurre la luce in suono è cantare una tenebra luminosa.
Per Ante lucem, gli accenni dell’alba sono nei versi stessi del poeta Blok, che racconta l’orrore umano da altra prospettiva. Tutti i disastri che si danno tra cielo e terra non sono da esagerare, se non distruggono la bellezza dei fenomeni naturali, né accadono invano, se da questa cacofonia distruttiva si ricava la bellezza della musica e della poesia. Il duplice punto è sancito da Blok in versi citati quasi a fine dello spettacolo: “Oh musica! Che cosa sono le tempeste della vita, / se le tue rose fioriscono e risplendono! / Cosa sono le sofferenze dell’uomo, / davanti al tuo spettacolo di un tramonto rosso cremisi!”. È riconoscendo che la luce può nascere dove tutto sta andando in declino, o tramontando, che si ottiene la fondata speranza di immaginare che il sole risorgerà più splendente e bello in avvenire. La medesima logica si applica in maniera diversa in Siamo tutti cannibali. Torniamo al contrasto tra la luce che affoga il “narcisistico” equipaggio del Pequod attirandolo nell’avventura sul mare e la luce solare che risplende su tutto. Anche se sembra assurdo, è la seconda che vede meglio il bello che sta nella tenebra. Infatti, la luce che attrae i marinai tra gli abissi marini li rende complici dell’orrore, avviluppandoli in spirali di violenza e sangue che non riescono mai a guardare dall’esterno. Di contro, come dice Ismaele che commenta da unico sopravvissuto il disastro del Pequod, il sole naturale risplende impietoso e indifferente su cose, persone, eventi terribili, inclusi i pescecani e gli esseri umani che si divorano tra loro senza sosta. La sua luce è pertanto verace. Essa illumina sia le (poche) zone felici della terra, sia quelle oscure che abbondano sulla crosta terrestre e sugli oceani. Il sole diffonde però la sua luce tenendosi distante dai mali, dunque li scopre o rivela allo sguardo senza tuttavia farsi intaccare da loro. La musica creata sulla scena di Siamo tutti cannibali coincide, pertanto, con una sinfonia solare. Se si ascoltano con un po’ di distacco gli orrori che hanno luogo sulla terra e sul mare, potremmo riconoscere al loro interno una struttura melodica e bella, che i Narcisi del Pequod non riescono ad ascoltare. Le loro orecchie sono assordate dai rumori dell’azzannare e del digrignare di denti, mentre i loro corpi sono talmente immersi nella tenebra da non riuscire a vedere l’armonia che mescola bene e male in un ritmo complesso.
C’è certo un forte rischio di estetismo dell’orrore sia nelle poesie di Blok, che nel romanzo di Melville. Nelle forme più gravi, questa estetica può persino sforare nel nichilismo, o più precisamente nel seguente principio: il male non esiste, perché tutto è benefico e melodioso, compresi i disastri che hanno luogo tra mare, terra e cielo. Sia il Teatro del Lemming che Roberto Magnani si tengono fortunatamente distanti da questo pericolo grazie alla dinamica del distanziamento che contraddistingue il teatro. L’estetismo che Blok e Melville difendono con tono assertivo, se non dogmatico, è posto da tali artisti come un problema da cui partire. L’orrore che viene raccontato o rappresentato non viene ideologizzato come un bene, bensì usato da materia musicale per comporre il preludio dell’alba futura che già offre qualche timido cenno nel nostro tormentato presente.
Nell’ultima immagine, di Marco Parolo, un frammento della scenografia di Siamo tutti cannibali.