Romaeuropa Festival / Anni luce per la nuova scena italiana

30 Ottobre 2020

L'attrice posa col gomito sul tavolo ingombro di pagine di copioni, caffè, qualche matita, mentre il regista, più avanti sul palco, parla al pubblico. Improvvisamente il gomito le cede di schianto e lei sbatte violentemente il viso sulla superficie di legno, facendo sobbalzare tutta la sala. Le mani corrono al volto, il dolore è squassante. Ora le scosta: ride! Non è niente, era uno scherzo, ha lasciato andare la testa per simulare il colpo e ha percosso il tavolo da sotto il piano. La gag è gretta ma funziona.

Il regista, Francesco Alberici, vuole provarla. Si siede al posto dell'attrice e tenta la mossa, ma il risultato non convince, il colpo non è ben simulato. Ci riprova. Niente, non va. Più credibile è la reazione successiva, il grido straziante, teatrale: Alberici in terra, si rotola sul palco, il corpo è percorso da spasmi.

 

Si tratta di una delle scene centrali di Diario di un dolore, debutto dell’attore/autore milanese (spesso sul palco diretto dal duo Deflorian/Tagliarini oppure con la propria compagnia Frigoproduzioni) al Romaeuropa festival della capitale. Nella settimana dal 6 all’11 ottobre – poco prima, dunque, che le attività teatrali e gli eventi culturali in generale subissero una seconda battuta d’arresto per via della recrudescenza di Covid-19 – gli spazi dell’ex-Mattatoio nel rione Testaccio si sono animati con la rassegna “Anni luce”a cura di Maura Teofili, fondatrice e direttrice assieme a Francesco Montagna del centro indipendente romano Carrozzerie n.o.t. Tre prime assolute (No land ladyDiario di un doloreRumori), tre studi realizzati dentro un percorso di tutoraggio e residenza (CalcinacciÇa ne résonne pas / Ça résonne tropPartschótt) e una serie di “letture recitate” (la sezione “Situazione Drammatica”) per sondare alcuni fra i nomi più interessanti della “giovane scena” italiana: “Anni luce” si propone infatti di valorizzare voci e visioni contemporanee di autori e autrici che stanno muovendo i loro primi passi nell’ambito della ricerca teatrale. Fra proposte più compiute e semplici stralci drammaturgici, si tratta dunque di una sorta di spaccato generazionale, teso a far emergere anche tensioni comuni, affinità di linguaggio, influenze simili.

 

Ad esempio, per tornare allo spettacolo descritto in apertura, Diario di un dolore prende in prestito il titolo che la casa editrice Adelphi ha dato alla traduzione italiana di A Grief Observeddi C.S.Lewis. Si legge nel libro: «Tutto è velato da una vaga sensazione di errore, di difetto. Come in quei sogni dove non accade nulla di spaventoso – nulla che valga la pena di raccontare il mattino dopo a colazione – ma dove l'atmosfera e le cose sanno di morte. Così ora. Vedo le bacche del sorbo che stanno volgendo al rosso e per un attimo non so perché proprio queste bacche debbano mettermi addosso tanta tristezza». 

 

Il palco: verso il fondo, sulla destra, un tavolo squintato con oggetti sopra; due sedie, una occupata dallo stesso regista accanto al tavolo; sulla sinistra, verso il proscenio, una terza sedia, su cui siede l'attrice, Astrid Casali, che come Alberici mantiene il suo nome e il suo ruolo in scena. Si inizia senza introduzioni, è lei che racconta come fu che, bambina, scoprì il cadavere della sorella, suicida in camera da letto. Ben presto è evidente, e lo sottolinea l'intervento del regista in scena, che si tratta di un monologo teatrale, e che i due stanno lavorando alla costruzione di uno spettacolo. Ma il sospetto di una struttura a scatole cinesi è presto dissolto. Per tutto lo spettacolo Astrid sarà invitata a frugare nei suoi ricordi fino a concentrarsi sull'evento centrale della sua vita: la morte per cancro del padre. 

 

Con una costruzione difficile da schematizzare, il testo procede attraverso momenti di recupero del ricordo, analisi autobiografica, tentativi di reenactment a freddo. Tale costruzione, che appare in alcuni passaggi indugiante, con una certa uniformità di tono e aleatorietà di disposizione, trova il suo corrispondente scenico in un linguaggio in generale poco segnato, senza spinte, ingrigito. Al realismo della ricostruzione della forma 'prova teatrale' si oppone una recitazione che evita convintamente il pathos se non quando dichiaratamente riprodotto (nei monologhi dell'attrice), lasciando lo spettatore sempre sul crinale tra il crederci e il non crederci. Cominciamo a domandarci se questo non sia un testo costruito sotto la spinta di una forza esogena, la necessità di riempire un qualche spazio. E, d'altra parte, se il suo movimento non sia quello di chi si rifugia: ora in una certa cordiale concordia col pubblico, ora nell'esibizione di qualche piccola prova d'attrice, nel sospetto della metatestualità, sul concetto del teatro come 'répétition' – 'prove' – che evoca ma depotenzia.

Ma poi (non si saprebbe nemmeno dire quando) Astrid fa: «Perché hai scelto me per questo lavoro?». «Perché ti invidio – risponde lui, più o meno – invidio che tu abbia una ragione per il tuo dolore». E poi: «La mia storia non è all'altezza del mio dolore». 

 

Eccola, infilata a tradimento nel sotto-finale, la chiave, che espande per tutta la lunghezza (e, a questo punto, la profondità) del testo una cupa luce, l'evocazione di un dolore che, privo del lutto che lo certificherebbe, patisce la minaccia dell'afonia. Ma, ciò nondimeno, esiste, serpeggia essenziale. 

«Raccontando la mia storia io posso esserci», dice lei, mentre lui no, non può esserci. Prova a infilarsi nelle parole di lei, a strapparne qualche brano per farlo aderire alla propria esperienza – tentativo fallito. E la gag del colpo sul tavolo torna alla mente come la perfetta metafora della ricerca di un credibile innesco alla sofferenza.

Così Diario di un dolore è disordinato, velato e appunto ingrigito, come si rilevava prima, non per mancanza di un'idea di forma, ma perché quel dolore che non sa spiegarsi è un veleno che dissecca e rattrappisce il corpo del testo sul palco, che lascia, come in Lewis, affogati in una «vaga sensazione di errore, di difetto». 

«Che cos'ha il mondo? Perché è diventato così piatto, così meschino e consunto? – continuava l'autore – Poi mi ricordo». Il ricordo accorso a salvarlo dall'insensatezza era quello della recente morte della moglie, abbrivio alla stesura del libretto. È l'assenza di questo abbrivio che darebbe senso al sentimento e pienezza di voce al grido, che rende il dolore di Alberici così spaventoso e così familiare.

 

Diario di un dolore, di Francesco Alberici, ph. Piero Tauro.


No Land Lady di Greta Cappelletti, regia di Camilla Brison, è come un neon che ti acceca in scena, ma che sa scomparire, diventare trasparente quando si spegne. In scena ci sono tre attrici (Ippolita Baldini, Astrid Casali, Anahì Laura Traversi) e un attore (Daniele Natali). Di scenografia non c'è nulla, tranne una poltrona sulla sinistra. I costumi sono di un kitsch forse anglo-milanese, lunghe calze infilate dentro i sandali, magliette fiorate sopra pantaloni della tuta, dell'oro. Due ragazze, forse due sorelle, occupate in una routine senza sfoghi, sono alla pigra ricerca di un nuovo appartamento. 

 

Poi una di loro incontra lui, Luther – così si chiama – che ha un ridicolo accento tedesco e viene da fuori: shorts marroncini, scarpe-pantofole sanitarie con velcro da terza età, parrucca a caschetto e in mano un indifendibile bastone da passeggio dal pomo d'argento. Lui è, o dice di essere, impegnato, ma la ragazza insiste, e attraverso una mirata conversazione whatsapp lo conquista. Se ne innamora, gli dà le chiavi di casa; l'altra sorella non è del tutto d'accordo, in parte forse invidia questo assurdo amore ritrovato, che arriva a mettere in stand-by la ricerca del nuovo appartamento, e tutta la sua vita, insomma, come succedeva quando ci si innamorava. E adesso? Ormai è sola. Per un attimo la soluzione di fare sesso con Luther la sfiora, nella classica dinamica dell'appropriazione e dell'entropia, ma resiste fermandosi quando è già al reggiseno. Va invece in analisi; anche Luther ci va. La psicologa, la stessa per entrambi, è penosa, non dà soluzioni, è essa stessa preda di una trappola, ha anche lei bisogno di scappare.

Così il testo, frantumato esattamente come sono frantumati i suoi personaggi paradossali ma veri (più si allontanano nel tempo, più sembrano alla memoria commoventi), è scomposto in un mucchio di scene affastellate, contraddittorie. E persino più assurdo è che, da questo fascio di azioni (ci sono anche i balletti!), si possa desumere nient'altro che una storia così semplice. 

 

Cos'è che tiene insieme questo pulviscolo, questo testo che non insiste, che non si dirige né scava, ma che sembra aggirarsi sul palco come quei cani di strada che a un certo punto si siedono arrotolati a mordicchiarsi furiosi l'attaccatura della coda? 

È una specie di propensione corale alla caduta, una caduta che ci calamita, ci riguarda, ci coinvolge; un precipitare attorno a un punto nella disperata ricerca di un senso – e quel punto è l'uomo Luther, cesellato con una cattiveria livida, degradante e vendicativa, che sotto un armamentario di grottesco sembra proteggere un inconfessato amore.

 

Un uomo veramente impresentabile («una specie di senzatetto») per il quale, un po' per volta, sembrano perdersi tutte le donne in scena. Perché? Di certo non le capisce, e fa battute impossibili, complimenti scombinati; si vergogna se una donna gli offre da bere e non sa nemmeno rifiutare. 

Ecco, non sa rifiutare – viene in mente Zeno Cosini, aperto alle più varie profferte della vita, ma a uno Zeno privo della malizia di mentire a sé stesso. Luther è segnato da un'umanità a cui non sa abdicare, ingenua e persino stupida, semplice come un idiota a cui è stata preparata una crocefissione sul corpo di queste tre donne, per una redenzione dal mandato poco chiaro. Ecco forse perché, nel finale, Luther torna in patria (come l'Ulisse monteverdiano, anche se è l'introduzione dell'Orfeo ad accompagnarlo). Si sottrae al suo ruolo palingenetico di assumere su di sé gli orrori di queste tre anime perdute, limitandosi a mostrarcele come specchio, e testimoniando una volta di più (e qui il pensiero non può che tornare a Dostoevskij) l'impossibilità dei nostri tempi di salvarsi.

 

No Land Lady, di Camilla Brison, ph. Cosimo Trimboli.


Similmente, anche Rumori di Martina Badiluzzi testimonia di una impossibile ricomposizione, di una frammentarietà delle storie portate sul palco che è – di riflesso – la frammentarietà delle nostre vite nella situazione attuale. Lo spettacolo, che vede in scena l’importante presenza del musicista Samovar (Samuele Cestola), trae infatti ispirazione dal periodo di isolamento fisico sperimentato durante la “prima ondata” pandemica: l’autrice e regista friulana ha iniziato a scrivere piccoli racconti a partire da suggestioni, voci, suoni percepiti fra androni e appartamenti del palazzo della periferia romana in cui vive. Racconti pensati inizialmente per la carta, ma destinati invece ad assumere “sembianze teatrali” e a essere dunque recitati da Badiluzzi stessa mentre Samovar li avvolge in un involucro musicale caratterizzato da ritmi destrutturati e squarci elettronici. I due performer sono l’uno di fronte all’altro, attorniati da una giungla composita di fari, faretti, treppiedi, stativi. Il nostro sguardo coglie le loro figure quasi solo di striscio, spezzettate come sono dalle ombre e dai profili degli oggetti che, appunto, paiono infine andare a spezzettare anche una narrazione sempre sospesa fra introspezione e naturalismo, fra tinte surreali e piglio cronachistico. La voce si “rimpalla” con la musica, a volte appoggiandosi al tappeto sonoro sottostante, altre volte rimbalzandovi sopra per prendere slancio declamatorio, altre ancora lasciando spazio ad assoli incalzanti e muscolari. I “rumori” portati in scena da Martina Badiluzzi sono allora delle vere e proprie particelle di visione, che possono assumere la forma del fraseggio sonoro, oppure di gesto performativo, oppure ancora di ipotesi drammaturgiche. Sono refoli di un discorso corale ed eterogeneo, per forza di cose parziale e appena abbozzato ma che prova ad abbracciare, nel suo dispiegarsi, un’interna collettività disconnessa.

 

Rumori, di Martina Badiluzzi, ph. Giada Spera.


In mezzo – a unire sottilmente i tre spettacoli, che costituiscono gli esiti in qualche modo più compiuti della rassegna Anni Luce di Romaeuropa Festival dedicata alla “nuova scena italiana” – c’è forse l’esigenza da parte di autori e registi di arrestarsi alle soglie del pathos, o per meglio dire di approntarne una rappresentazione circoscritta, non frontale. Emozioni e sentimenti, assoluti e universali quali sono appunto il dolore (Alberici), l’amore (Cappelletti), lo spaesamento esistenziale (Badiluzzi), vengono nominati ed evocati in maniera anche molto diretta, ma mai realmente “incarnati” nei gesti e nelle parole di attori e performer. Piuttosto, come si diceva in precedenza a proposito della gag di Diario di un dolore, se ne ricerca un “credibile innesco”, si va a indagare le cause più recondite e oblique del loro scatenarsi. Senza, però, riuscirci mai del tutto. 

Si procede dunque per allusioni e analogie, esplorando i territori della meta-testualità così come quelli della proliferazione narrativa, della decostruzione del personaggio così come quelli della teatralità più piena ed elaborata. Storie, biografie e linee drammaturgiche – anche quelle più legate a vicende e ricordi personali degli attori – sembrano essere concepite già come una messa in scena, un mascheramento. La messa in scena, di converso, diventa allora spazio per il racconto, per il ricordo, e luogo in cui le biografie possono accadere.         

 

L’ultima immagine, di Cosimo Trimboli, raffigura un momento di No Land Lady di Camilla Brison

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