Sulle orme dell’Orma

8 Ottobre 2012

Il 4 ottobre sono approdati in libreria i primi due titoli di una nuova casa editrice, L’orma, fondata a Roma da due (anagraficamente) giovani intellettuali che conosco da molto tempo, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi. Li ho incontrati più o meno a metà dello scorso decennio: dapprima leggendoli in Rete, su un sito di Letteratura comparata (entrambi sono transitati dalla scuola senese di Antonio Prete), Sguardomobile, che si distingueva per ricercatezza grafica e di scrittura; e poi incontrando un paio di volte Lorenzo, e la sua facondia appassionata, in qualche occasione direi convegnistica (entrambi da tempo emigrés e giramondo, in Italia venivano nell’unico modo in cui sia dato godersela: cioè in vacanza). Mi colpì una sua recensione iper-virtuosistica, apparsa sul sito, a Nel condominio di carne di Valerio Magrelli: mirabile operetta in prosa della quale il critico, critico-scrittore, con finezza evidenziava come fosse intessuta – più ancora delle poesie del medesimo autore – di dissimulati endecasillabi. L’intera recensione era a sua volta – a questo punto direi ovviamente – per intero costrutta di inesibiti endecasillabi. Quando Lorenzo (che per Mondadori ha appena tradotto, altresì, Joseph Anton di Salman Rushdie) mi disse che insieme agli altri “Sguardomobilisti” aveva in animo di trarre da quell’esperienza una collana di saggistica “cartacea”, pensai subito di presentargli Nicoletta Pescarolo Gentile de Le Lettere di Firenze, con la quale stavo allora lavorando a pieno regime alla collana fuoriformato. Così iniziò quest’altra avventura. Nella collana Sguardomobile – a differenza di fuoriformato tuttora felicemente in corso – Marco ha pubblicato un libro che mette in luce l’eredità dickensiana nell’opera di Kafka, e Lorenzo un saggio che sonda la figura del poeta-traduttore come “imitatore” nei campioni di Leopardi, Laforgue e Lowell (anche qui è dato sospettare, certo, qualche witz combinatorio). Quando ho sentito dire che un paio di giovani avventurosi avevano deciso di mettersi a fare gli editori di letteratura, proprio nel momento peggiore della storia dell’editoria italiana, ho pensato che non potevano essere che loro. Sono andato a trovarli il giorno prima dell’uscita dei primi due titoli: Notizie dal migliore dei mondi di Günter Wallraff e Prima di scomparire di Xabi Molia. Stanno uscendo tanti articoli sui giornali, alla radio Fahrenheit ha appena fatto gli auguri. C’è eccitazione, nella piccola sede dell’Orma: et pour cause.


 

AC: Partiamo dal nome, L’orma. Con sconcertante ritardo mi rendo conto che è l’acronimo dei vostri due nomi di battesimo. Questa circostanza aneddotica forse già dice qualcosa, ci riporta a un’idea di editoria molto “autoriale”, fatta da persone che si prendono responsabilità individuali. Naturalmente non senza la collaborazione di altri – e speriamo anzi che questa rete si allarghi il più possibile – però il nucleo non dirò che è “famigliare”, ma certo nasce da un’esperienza di vita, che poi è la vostra.

 

LF: Come sempre in questi casi, la scelta del nome è stata una piccola avventura dentro l’avventura. Ne L’orma trovano una sintesi quest’idea di “editori protagonisti”, per dirla con una definizione storica, e il concetto di tradizione – tradizione letteraria, in questo caso – che ci è molto caro. Quella da cui ci vogliamo smarcare è l’etichetta della casa editrice “giovane”, che rinvia a modi e a gusti agli antipodi dai nostri. Non a caso nella presentazione della casa editrice abbiamo scelto una frase di Eliot che dice “Dopo che l’opera nuova è comparsa, tutto deve essere modificato”.  Certe idee del suo famoso saggio Tradizione e talento individuale fotografano bene la nostra visione della letteratura, idee che si incarnano nei libri di Kreuzville, la nostra collana di punta…

 

AC:  … anche “Kreuzville” è un acronimo…

 

LF: Più precisamente una crasi: tra Kreuzberg e Belleville, i quartieri di Berlino e di Parigi in cui abbiamo vissuto. Nei libri di questa collana, che al momento è riservata appunto ad autori tedeschi e francesi, c’è un’ulteriore dichiarazione di intenti che parafrasa un altro saggio di Eliot: “Quando esprime se stesso uno scrittore esprime sempre il proprio tempo”. L’orma nel cui solco intendiamo inserirci, e che aspiriamo a lasciare a nostra volta, è appunto quella della tradizione letteraria: intesa come esperienza sempre in divenire, ancora una volta sguardo mobile.

 

AC: Torna in ogni caso l’elemento dell’esperienza individuale. Il che può per certi versi sorprendere, in persone che – per le abitudini culturali italiane – sono dei “giovani”. Ad accomunarvi è un’esperienza cosmopolita, la vostra esperienza di studio e di ricerca all’estero – alla larga dal piagnisteo dei “cervelli in fuga”. Pensando al nome Kreuzville viene in mente un passo di Moravia che – quando era ancora un cervello di prim’ordine – parlava della data in calce a Ulysses, “Trieste-Zürich-Paris, 1914-1921”, e commentava: “Un’Europa libera e percorsa in lungo e in largo dalla letteratura e dall’arte… Un’Europa senza confini né divisioni, in cui era lecito cambiare sede secondo gli umori e i capricci dell’ispirazione letteraria”. Parole datate 1940.

 

LF: Marco ed io abbiamo vissuto due anni a Berlino. Siamo due uomini di lettere, per cui il nostro è un sodalizio umano ma anche intellettuale: traduciamo assieme, lavoriamo assieme sui testi di Sguardomobile. E ci interroghiamo sull’esistenza nelle più varie declinazioni. Anche sul concetto di coppia, su quello di famiglia. Ci ha fatto piacere che su l’Unità Luca Sebastiani abbia scritto che al progetto de L’orma è sottesa anche questa diversa idea di famiglia.

 

AC: Magari nell’accezione wittgensteiniana dell’“aria di famiglia” – “ognuno riconosce i suoi”, per parafrasare un altro autore del classicismo moderno prima evocato. Nel mare di proposte, di linguaggi, di infinite sollecitazioni che oggi si possono ricevere nell’universo multimediale, la volontà di inseguire somiglianze, affratellamenti, piegature comuni…

 

MFS: Questa definizione di “aria di famiglia” mi piace perché è insieme vaga e precisa. A un certo punto Wittgenstein ci sfida a descrivere l’aroma del caffè: lo conosciamo tutti, lo riconosci sempre, ma vallo a descrivere! I libri di Kreuzville, anche se in apparenza assai eterogenei, hanno davvero un’aria di famiglia: questa specie di luce che viene dal futuro, questa nuova Europa che intravediamo a macchie di leopardo in alcune parti del mondo, il quartiere inesistente che è Kreuzville... Un possibile fraintendimento, riguardo a Kreuzville, riguarda la multiculturalità intesa come letteratura delle migrazioni… repertorio nobilissimo certo, ma che esula dal nostro progetto. L’elemento specificamente letterario per noi è molto più importante rispetto al contenuto, e la nostra idea di multiculturalità non c’entra col récit de vie del kebabbaro berlinese. Nemmeno la localizzazione geografica è poi così decisiva; è vero che Prima di scomparire di Xabi Molia si svolge in parte a Belleville, ma è un caso che fra le nostre prossime uscite ci sia L’investitore americano di Jan Peter Bremer, che racconta la speculazione edilizia appunto a Kreuzberg ma in una maniera tutta straniata… ha scritto un critico tedesco che è come se Robert Walser venisse a raccontarci la crisi economica del nostro tempo. Ecco, più della speculazione ci interessa questo sguardo: quelli de L’orma – riprodotti nel nostro logo – sono occhi con cui si guarda il mondo in modo particolare e, speriamo, inconfondibile.

 

 

AC: Mi colpisce quest’idea di cultura che è appartenenza – ognuno riconosce i suoi – ma anche, insieme, straniamento e spaesamento. Mi ricorda una delle “immagini dialettiche” che una decina di anni fa Giorgio Agamben ha inserito, senza commentarle, nell’edizione Quodlibet dell’Idea della prosa, in cui si mescolano le cartine geografiche di Berlino e Napoli. Cioè due episodi della biografia di Walter Benjamin e, insieme, quella che lui chiama “Idea della pace”: “Non il richiamarsi a segni e immagini garantiti, ma che non ci si possa riconoscere in alcun segno o in alcuna immagine: è questa la pace… nel non riconoscimento. Essa è il cielo perfettamente vuoto dell’umanità, l’esposizione dell’inapparenza come unica patria degli uomini”. Ecco: ci appartengono queste tradizioni, questi autori, queste genealogie culturali, e al contempo vanno costantemente riscritte, rinnovate, rimesse in movimento e in circolazione. È questo l’atteggiamento corretto nei confronti del passato, oltre che del presente. Tanto è vero che in futuro pubblicherete anche testi di autori non più viventi. Un’altra scelta legata a Berlino, che mi ha fatto innamorare del vostro progetto dalla prima volta che ne ho sentito parlare, è quella di rilevare da Feltrinelli l’impresa (da loro abbandonata alla seconda tappa, nel 2005) della traduzione integrale della tetralogia di Uwe Johnson, I giorni e gli anni.  Un progetto, questo, con cui cominciamo a toccare anche i nodi problematici di quest’avventura. Al di là dell’accoglienza festosa della stampa culturale italiana, come vi aspettate reagisca il mercato? Quale la possibilità che un numero sufficiente di persone, ancora, sappia riconoscere i suoi? Io ho la ferma credenza che un pubblico potenziale, per una letteratura con questi obiettivi, ci sia; ma mi pare che non sia messo in grado, oggi, di orientarsi e riconoscere le proposte che possono interessargli. In che modo L’orma pensa di far trovare le proprie orme?

 

LF: Dobbiamo partire da un’analisi della situazione attuale. A differenza che in passato, quando il consumo librario registrava una curva opposta rispetto alle altre (in quanto relativamente meno dispendioso di altri), alla crisi economica oggi corrisponde anche una crisi editoriale molto forte…

 

AC: … sullo speciale alfaLibro dello scorso numero di maggio di alfabeta2 Achille Mauri parla dell’“anticiclicità” del mercato editoriale…

 

LF: Appunto, così è di norma. Sicché pensiamo che questo momento del mercato editoriale non fotografi la realtà culturale del Paese. Oggi si assiste a un’infelice convergenza di tutti i parametri verso il basso, invece noi pensiamo che esista un pubblico che certi atteggiamenti editoriali rischiano di infantilizzare. Noi al contrario inseguiamo lettori adulti – non necessariamente “addetti ai lavori”, non una riserva indiana. Una comunità che, quando le vengono proposti prodotti editoriali (e cinematografici, e televisivi) di qualità è in grado di riconoscerli e apprezzarli. L’accoglienza festosa, al momento, è quella degli addetti ai lavori; da domani arriviamo in libreria e, all’istante, perdiamo la nostra innocenza. Vediamo quale sarà la reazione del pubblico: ma non sarà il primo impatto a determinare i contorni di un’avventura alla quale auguriamo una falcata un po’ più lunga. In aggiunta all’ultracontemporanea Kreuzville partirà presto una collana major, quella che accoglierà appunto I giorni e gli anni di Johnson e che per il momento ha per nome AlsaziaLorena. Che, per tornare all’idea della pace, prende le mosse da un punto di osservazione privilegiato, quello dei conflitti: Alsazia e Lorena sono storicamente le pietre del contendere territoriale tra Francia e Germania.

 

AC: Qualche anno fa uscì un numero di Riga dedicato a “Gulliver”… un progetto di rivista internazionale che negli anni Sessanta riunì proprio Johnson a Enzensberger Vittorini Blanchot e altri, intorno appunto all’idea del conflitto, della divisione dello spazio europeo emblematizzata dal Muro di Berlino…

 

LF: Un conflitto non solo territoriale. Oltre a Johnson abbiamo in programma due libri di Annie Ernaux, La Place e Les Années, dove emerge il conflitto di classe, proprio nel senso marxiano... Ernaux, figlia di genitori non ancora contadini, che poi finalmente diventano contadini, che poi finalmente diventano operai, che poi finalmente diventano proprietari di una piccola osteria della provincia francese. E lei è la prima ad avere accesso agli studi…

 

AC: … la place… come Il posto di Ermanno Olmi?

 

LF: Tra l’altro ha anche un’ambientazione un po’ simile… Ecco, proprio in presenza di temi così manifestamente politici, determinante per noi è – come criterio di selezione – la lingua. Primo segno d’interesse, per noi, è la lingua impiegata da un romanzo; anche rispetto all’articolazione della trama. Ci lasciano un po’ perplessi domande del genere “Come va a finire questo libro?”, “Di che cosa parla?”, “Ha un lieto fine?”. Poi magari tra quattro anni capiremo che avevano ragione gli altri e che, se si vuol sopravvivere, bisogna far finire bene anche Anna Karenina.

 

AC: Hanno un grande valore politico, per me, questi principi. Recentemente in un dibattito a Pordenonelegge l’editor di una casa editrice citava una frase di Vonnegut sulla “pietà” che bisognerebbe avere nei confronti del lettore. Ecco, a questo atteggiamento paternalistico nei confronti dei lettori mi viene da contrapporre un’altra frase, di Calvino, che dice quasi il contrario: e cioè che bisogna avere sempre “rispetto” per il lettore. Cioè trattarlo sempre, idealmente, come un proprio pari. Nel momento in cui si scrive, nel momento in cui si pubblica o recensisce un libro, ci si deve rivolgere a qualcuno che si pensa un proprio pari. Ovviamente questa è una presunzione ideale e se vogliamo anche idealistica, però l’universalismo della letteratura – che ereditiamo dal Romanticismo – è una grande conquista. Il non poterselo più permettere non è solo la maledizione di quattro poveri sfigati letterati, ma una sconfitta politica per l’intera umanità. L’idea di adultità che perseguite mi pare compendiata dall’immagine di copertina che figurava nell’edizione Einaudi di un saggio che è stato molto importante per la mia formazione, La democrazia magica di Franco Cordelli: in cui si vede appunto Uwe Johnson che attraversa Berlino, nel 1956, con passo meravigliosamente fiducioso e aperto all’avvenire. È un’immagine che mi viene spesso in mente, e che mi viene ora da collegare alla passeggiata invece mortifera del ragazzino, nelle macerie di Berlino, in Germania anno zero di Rossellini. L’Edmund di Rossellini ha dodici anni nel 1945, dunque è quasi esattamente coetaneo di Johnson, nato nel 1934. Ma le loro due passeggiate, che si svolgono nello stesso luogo, disegnano due Europe diverse e consecutive, due luoghi che coesistono nella stessa tragedia storica, quella della guerra. Una tragedia alla quale però la generazione degli scrittori degli anni Cinquanta e Sessanta seppe reagire con un coraggio, uno stoicismo, un’adultità da cui c’è solo da prendere esempio. Quella cui apparteniamo è stata descritta, al contrario, come una generazione di traumatizzati senza trauma… e molti interpretano tale condizione come un alibi per il ripiegamento, la rinuncia, la subalternità. Mentre io posso assumere questa descrizione, sì, ma solo come spinta – se volete esistenzialistica – per uno slancio, una ripresa, un passo avanti.

 

 

LF: Sono d’accordo. Ed è per questo che non ci piace l’etichetta generazionale, così come ci siamo trovati a disagio certe volte negli incontri di Generazione TQ, esperienza che pure per ovvi motivi ci ha interessato. Senza voler affatto banalizzare quel percorso, in certi momenti ti devo dire che ci è parso insidiato da questa sorta di vittimismo generazionale – tu lo hai definito alibi – che non vogliamo in alcun modo ci appartenga. Una delle spinte de L’orma è stata proprio la reazione nei confronti di una grande deresponsabilizzazione generazionale, non coatta, che molti nostri coetanei in un modo o nell’altro hanno accettato. Io ho trentotto anni, Marco trentacinque, a rigor di logica dovremmo essere considerati giovani giusto per ricevere il Premio Nobel o andare in pensione. E invece tu sai bene quanto per esempio nell’ambiente universitario possa risultare pelosa la definizione di “giovane ricercatore”. Dubito che a Contini a trentadue anni, da tempo già ordinario in cattedra, dessero del “giovane”. È un’etichetta paternalistica, depotenziante. Beninteso, qui nessuno si prende per Contini, ma non vogliamo che ciò che diciamo sia recepito come detto da “dei giovani”, vogliamo essere trattati come intellettuali in quanto tali, senza altri fronzoli paratestuali.

 

MFS: Il vero trauma fantasma è proprio questa eterna giovinezza alla quale si viene condannati. Uwe Johnson che attraversa quella strada di Berlino, uno dei luoghi più drammatici di tutti i tempi, sarà il grande autore del Paese diviso e della sua capitale divisa. Uno scrittore maturo sin dal suo primo libro, che sarà in grado di lasciare un’orma d’impressionante lucidità, per esempio, sul progetto “Gulliver” di cui parlavamo prima. Quel progetto conteneva anche le idee straordinarie di Blanchot sul frammento, che è un altro modo di pensare e raccontare il mondo che ci appassiona – proprio perché radicalmente indipendente da considerazioni relative al mercato e al pubblico. Non perché non vogliamo incontrare le persone, ma perché consideriamo un modello ricattatorio il considerare preventivamente un target di riferimento, per cui un determinato libro “è rivolto a …”. Da certi incontri con esperti di marketing si esce come da un film di fantascienza… quest’idea faustiana di poter programmare il futuro nei minimi dettagli, di identificare con assoluta precisione quali e soprattutto quanti saranno i lettori di un certo libro… quando invece i più grandi casi editoriali, come sempre si ripete, sono sempre nati per caso, sono un mistero… La nostra idea è che i libri da scegliere, desiderando che arrivino al maggior numero di persone possibile, siano quelli che piacciono a noi.

 

AC: È un’ingenuità arrogante quella di demandare a scienze esatte comportamenti per definizione imprevedibili. Ed è tipica della mentalità tecnocratica contemporanea l’idea per cui ci sia una sola scelta politico-economica razionale, e tutto il resto sia ideologia, nostalgia, mitologia. La mentalità che è stata definita con l’acronimo “TINA”, there is no alternative.

 

LF: Qualcosa come l’interminabile rincorsa al centro della sinistra italiana. Si va incontro al lettore come si va incontro all’elettore. Pensando sempre di avere di fronte le persone più becere immaginabili, che inseguono solo la sicurezza e l’arricchimento personale. Il momento in cui abbiamo deciso di rompere gli indugi e muoverci verso la fondazione de L’orma è stato in Piazza Duomo, a Milano, la sera della vittoria di Pisapia, il 30 maggio dell’anno scorso. Quando Milano, che è la città in cui sono cresciuto, si scopre improvvisamente abitata da persone reali, persone molto più vicine a me di quanto mi avessero fatto credere. Non eravamo quattro gatti, e in certe condizioni potevamo diventare maggioranza. Fu, in positivo, un vero choc. Si faceva vedere, alzava la testa una sinistra finalmente decomplessata. E di lì a poco, infatti, si registrerà anche la grande vittoria dei referendum. Quella è la nostra Italia. Non sappiamo neanche noi cosa sia l’Italia, non abbiamo la presunzione di saperlo. Però siamo certi che esista un’Italia che ha desiderio della bellezza, che è desiderosa di aprirsi, anche di leggere e concentrarsi. Invece tante analisi, anche a sinistra se non soprattutto a sinistra, preferiscono il cinismo di chi non vuole mai essere preso in contropiede: si prevede il peggio per paura del peggio. Nutriamo una sincera avversione per questo conformismo cinico e catastrofista.

 

AC: Tempo fa parlando con un grande padrone del vapore dell’editoria italiana venne fuori, come un aforisma, questa sua frase: “un editore non fa politica, per definizione”. Un’affermazione figlia di decenni di cinismo, a partire forse da quel famigerato pamphlet di Franco Tatò, A scopo di lucro, che descriveva (finalmente al di là delle ideologie!) l’editoria per quello che era o doveva essere: una forma di imprenditoria che per fine ha solo il profitto e rinuncia dunque a ogni forma di orientamento culturale e politico. Ovvero la mondadorizzazione dell’intera editoria italiana, un’egemonia culturale che ha trionfato nei due decenni successivi. Il modello secondo il quale si pubblicano indifferentemente autori di qualsiasi orientamento politico, da Toni Negri a Pietrangelo Buttafuoco, purché convengano dal punto di vista commerciale. Raramente mi è capitato di sentire una sciocchezza come quella secondo cui un editore non farebbe politica! Un editore in verità non fa altro, dalla scelta dell’autore sino alla grafica di copertina; e non ha mai fatto altro, da che libro è libro, da Aldo Manuzio a Giacomo Debenedetti.

Mi fa piacere che voi invece, nel richiamarvi a un’identità culturale forte, non temiate neppure di mostrare un’identità politica riconoscibile. Per usare un facile slogan: se la generazione di Uwe Johnson aveva il Muro di Berlino, come emblema e punto di riferimento fisico del trauma storico dalla quale proveniva, voi quale muro avete? Quale muro va valicato? Quale va abbattuto – magari nelle utopie, nei sogni?

 

LF: Appunto il pensiero unico, il TINA, l’idea che il mondo sia dato una volta per tutte. Intendendolo storicamente con la crisi delle ideologie, la fine del Novecento, la sconfitta del comunismo che avrebbe decretato “la fine della storia”… la più ingenua e insieme la più cinica delle formule che hanno descritto il nostro tempo. La storia, è ovvio, non finisce; nella storia siamo immersi, sempre e in ogni modo. Il che comunque non significa rifiutare il confronto col pubblico. L’orma non è un’attività filantropica, i libri noi li vogliamo vendere. Io personalmente non sono solo un lettore di libri di letteratura alta o un fruitore di forme elaborate e difficoltose del pensiero umano. Ci sono cose che mi piacciono e che hanno un enorme successo commerciale. Sono un individuo ludico, mi piace giocare, mi piacciono le serie televisive…

 

AC: … le segui sul computer?

 

LF: Certo, certo, di alcune sono un fan accanito.

 

AC: Questo è molto tipico della mentalità postmodernista nella quale sono cresciuto. Quella che non considera affatto le forme “basse” dell’intrattenimento popolare, il grande cinema commerciale, la grande industria hollywoodiana, come qualcosa di alieno. E le tratta però come un materiale: qualcosa che va rielaborato e “trasportato” su un altro piano, un altro regime discorsivo. Si può essere consapevoli delle risorse di creatività presenti nel palinsesto televisivo, ma anziché assoggettarsi all’intero dispositivo si seleziona solo quello che ci interessa. Tanto postmodernismo all’italiana invece – quello dell’alibi, del ripiegamento subalterno – si è rifiutato precisamente di fare questa operazione, che invece i postmodernisti più avveduti facevano tranquillamente, e con la massima consapevolezza.

 

MFS: Un esempio dell’incontro con le persone reali che intendiamo in ogni modo favorire è il progetto dei Pacchetti, che parte il prossimo 22 novembre. Avevamo pensato a libri di dimensioni minime, oracoli manuali (dal Manifesto del partito comunista all’Imitazione di Cristo) che pensavamo di chiamare “Giustacuori”, perché li immaginavamo taschinabili, libri in grado di salvarti dai proiettili diretti al cuore…

 

AC: … di questo tòpos Woody Allen una volta ha dato un’interpretazione memorabile… diceva che nel taschino portava sempre una pallottola, per difendersi dalle Bibbie che gli potevano lanciare contro…

 

MFS: … i Pacchetti contengono libri pronti per essere spediti, sono proprio impaginati dentro un plico che va solo affrancato e inviato al destinatario che si sceglie. Hanno dimensioni molto ridotte, e presentano autori di assoluta notorietà dei quali però abbiamo voluto restituire un’immagine in qualche modo iconoclasta. Per esempio Leopardi, cristallizzato dalla vulgata doloristica e pessimistica (“pessimismo” è un termine che in tutto il suo corpus compare solo una volta), lo presentiamo con le Lettere sulla felicità, che ci mostrano sì un uomo infelice ma perché molto ambizioso nei confronti della vita, e in effetti capace di grande felicità, di grande consolazione per gli amici… Oppure Nietzsche, l’uomo dinamite, che si rivela un tenerissimo amante. E ancora qualcosa del genere per Baudelaire e Gramsci.

 

AC: Viene da pensare che vi rivolgiate a lettori come parti di una comunità, nodi di una rete che produce altri lettori, che fa conoscere il marchio e lo spirito de L’orma a persone magari lontane, nello spazio, che un giorno acquisteranno i vostri libri per corrispondenza.

 

LF: E soprattutto c’è l’elemento simbolico del dono. Guardando ancora una volta alla realtà del mercato editoriale italiano, colpisce la percentuale di libri comprati per essere regalati (infatti il periodo delle Strenne è tradizionalmente decisivo). I Pacchetti conterranno libri piccoli ma, in quanto oggetti, molto belli… un po’ come le Moleskine, delle quali siamo tutti e due grandi fan.

 

AC: In fondo questa specie di book-crossing mirato a sua volta va oltre un muro che riguarda il concetto della lettura. Che in genere si pensa come qualcosa di gelosamente individuale, mentre voi la immaginate come stimolo alla condivisione di un bene intellettuale che è un bene comune.

 

MFS: Un’altra parte del nostro lavoro che va in questa direzione riguarda le traduzioni. Entrambi abbiamo un’esperienza professionale come traduttori, e una delle eredità della nostra formazione universitaria, che rivendichiamo e mettiamo a disposizione dei nostri lettori, è il rigore in questo campo. A febbraio Matteo Galli farà partire l’opera omnia di E.T.A. Hoffmann, che pubblicheremo nell’arco di cinque anni e alla fine comprenderà dieci volumi (tutta l’opera narrativa e musicale, una parte degli scritti giuridici). Ma la stessa cura vogliamo riservare a ogni singola traduzione, della quale abbiamo un’idea forte (intanto, per quanto riguarda la lingua d’arrivo; non è banale dire che i libri vanno tradotti in italiano, e non in “traduttorese”), nella selezione dei traduttori, nel lavoro di revisione eccetera. Sino a sposare l’apparente paradosso secondo cui spesso grandi traduttori sono quelli che non padroneggiano la lingua di partenza, da Pound a Giudici. Si tratta evidentemente di operazioni limite, che però proprio per questo sono utili ed eloquenti, come quella celebre di Hölderlin su Sofocle su cui ha speso pagine memorabili George Steiner.

 

AC: Ne parla anche Benjamin, nel Compito del traduttore, quando dice che la traduzione deve “potentemente scuotere e sommuovere” la lingua in cui si traduce…

 

LF: Poiché siamo amanti dei simboli, e in fondo un po’ dei sentimentali, i nostri computer, qui, hanno tutti un nome. Quello lì si chiama appunto Benjamin, quest’altro Baudelaire. Quello che sta di là si chiama invece Virginia, in onore della Stanza tutta per sé. E quello che conserva la memoria, il server con tutti i dati, non può che chiamarsi Funes, come el memorioso di Borges. Sono i nostri numi tutelari.

 

 

Si ringrazia per la collaborazione Matteo Anastasio

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