Andrea Cortellessa / Manganelli ai Raggi X
Il 28 maggio 1990 moriva Giorgio Manganelli. Sono passati 30 anni tondi tondi: una cifra da candeline, visto che “del Manga curiosamente si commemora sempre la morte, mai la nascita”. Muove da questa constatazione il volume che Andrea Cortellessa ha allestito per festeggiare degnamente l’anniversario: Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli (Luca Sossella Editore, maggio 2020). Un cadeau prelibato, a tanti strati quanti sono – omaggio del caso all’arbitrarietà rigorosa cara a Manganelli – i contributi extravaganti che Cortellessa ha dedicato al suo autore-guida nel corso del tempo e che qui riunisce: 25 pezzi ‘minori’ (recensioni, interviste, editoriali, minori in effetti solo per lunghezza) apparecchiati in 25 anni di scrittura critica + 1 composto per l’occasione.
26 saggi dunque (cinti da una premessa e da una fittissima rete di note) che si dispongono – altro regalo al Manga – in ordine alfabetico: A come America, B come Biografia, C come Cina, …
Un vocabolario essenziale – nel senso che punta in breve all’essenza – per accedere al multiverso Giorgio Manganelli.
Come forse farebbe il Manga, cercando prima l’eccezione che conferma la regola, andiamo subito a quel + 1. Sfogliamo la voce X come (Raggi) X. La “piccola monografia” delinea un ritratto del Manganelli scrittore d’arte, il Manganelli che svela la “splendida e torva passione pittorica” per i pitocchi di Giacomo Ceruti detto appunto il Pitocchetto, o esalta l’invenzione del “soffitto come palcoscenico” di Giambattista Tiepolo, oppure disquisisce dei “sogni di titoli” dipinti da un surrealista come Paul Delvaux…
La lettura critica è di seducente novità: non tanto perché – come ho detto – il contributo è inedito, piuttosto perché si avventura in un territorio tra i meno battuti della ormai ricca bibliografia su Manganelli. Come nei suoi lavori più estesi (e si consiglia al lettore curioso di recuperarli senza indugio), in questo saggio Cortellessa offre delle intuizioni che illuminano un lato ancora pressoché nascosto dell’autore e insieme aprono una strada. Si percepisce – con l’eccitazione che accompagna ogni scoperta – che qui si sta inaugurando di fatto un nuovo filone di ricerca. Non più una cerimonia che fa il punto della situazione, allora, ma una zampata in avanti, che ci getta dritti nel nuovo decennio di vita postuma del Manga.
Certo, la produzione sull’arte di Manganelli è nel complesso poco nota (anche se, ovviamente, esistono alcuni studi che la prendono in esame). La ragione prima è data da una contingenza editoriale: questi pezzi sono in gran parte ancora dispersi. Sul tema è più facile conoscere Salons, la rubrica tenuta dallo scrittore nel 1986 sulla rivista “FMR” e raccolta in volume dallo stesso Franco Maria Ricci l’anno successivo – un “libro del tutto sui generis” dato che quelle opere in mostra il commentatore illustre le aveva ammirate solo sulle pagine dei cataloghi (è, in ogni caso, un’opera di stupenda immaginazione, da leggere ora nella riedizione illustrata Adelphi).
Meno fruito il testo che accompagna gli Ex-voto. Storie di miracoli e di miracolati (Franco Maria Ricci, 1975). E ancor meno, in questa parabola all’ingiù verso l’oscurità del dimenticatoio, la serie di articoli sparsi, pubblicati sulle varie testate alle quali collaborava il nostro e in cui emergono più personali scelte d’autore.
Ripescare queste schegge e mettere il tutto in relazione è la scommessa di Andrea Cortellessa, che trova conferma nella pratica d’autore. Lo stesso Manganelli infatti – allestendo l’Antologia privata, ‘best of’ dei propri scritti – sceglieva ben tre suoi testi d’arte (su Fausto Melotti, il Pitocchetto e la Santa Teresa di Bernini).
Ne risulta una prima analisi del paradigma della “pittura come menzogna”, in parte parallelo alla formula manganelliana per la letteratura: in sintesi, l’illusorietà teatrale dell’opera artistica – di una tela come di una statua – che esiste solo in sé e dietro cui, esattamente come per la pagina scritta, si estende solo un altro “velo” di finzione oppure il grande nulla. E non può mancare un sornione sorriso d’ironia, che si fa “ironia teologica” (l’espressione è d’autore, in un articolo su Lucio Fontana) quando le forme hanno a che fare con la porta o la facciata di una chiesa.
Viene in mente lo scudo di Agilulfo sul quale appariva “disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato più piccolo ancora” – l’emblema, non a caso, di un Cavaliere inesistente com’è quello di Italo Calvino.
Eppure, proprio l’assunto menzognero – concettuale sì, ma prima ancora psicologico-religioso – confligge necessariamente con il famigerato “qualcosa da dire” che, ci ricorda il critico, “formicola appena sotto” la “superficie linguistica inscalfibile” e “lo «stemma» dipinto”. Anche per Manganelli. Così, il discorso che parte dal ben preciso sotto-corpus degli scritti d’arte si ricongiunge alla dicotomia di base ‘fredda menzogna vs bruciante realtà/verità/significato’ – un conflitto esplorato non a caso da Cortellessa in tante altre sue voci – a cui il Manga non può sfuggire.
Lascio al lettore la gioia di gustare direttamente l’affascinante argomentazione in Il libro è altrove (e mi perdonerà, spero, l’autore se uso per lui uno dei termini tabù del “recensorese”). È chiaro a questo punto anche perché nel volume si trovino riuniti da un lato i tre scritti dedicati da Manganelli a Gastone Novelli e dall’altro – grafico contraltare – le tavole che l’amico pittore aveva realizzato a partire da Hilarotragoedia. La scelta di composizione rimarca in concreto questa direzione di indagine e le dà impulso.
Del resto, ancora il 28 maggio scorso, il giorno fatidico della ricorrenza, Cortellessa ha pubblicato un articolo su “Antinomie” in cui recupera altri manganelliani reperti d’arte – questa volta sugli etruschi e gli egizi, due civiltà che hanno eletto la loro arte a “colloquio incessante con la morte” – e prosegue già il discorso. Siamo solo all’inizio.
Ho parlato di ‘analisi’ critiche, ma forse sarebbe meglio dire ‘radiografie’. Lo “sguardo spettrosensibile” con cui Giorgio Manganelli affrontava le opere d’arte “passandole come ai raggi X” – formula felice di Federico Francucci, altro attento lettore del Manga di questi anni – è infatti lo stesso che Cortellessa ha scelto di assumere. Dell’alfabeto manganelliano si intercettano così i “fantasmi”, quintessenza della sua letteratura (alla voce O come Otto (parole): “FANTASIMA. Individuo ente o sostanza che partecipi della «grazia dell’inesistenza»”) e allo stesso tempo catalizzatori di inquietudine (come gli ex-voto, ancora in X come (Raggi) X). Si rendono visibili quelle invisibili creazioni e insieme si penetra sotto la loro pelle linguistica, scendendo nell’Interno/Inferno alla voce I o affondando nella Z come Zucchero di un Manganelli innamorato.
I raggi arrivano fino a colpire e a circoscrivere una zavorra antropomorfa: è il corpo dell’autore, quello in cui lui abitava tra timori e tremori. La voce F mette sotto i riflettori la copertina del libro d’esordio – Hilarotragoedia, Feltrinelli, 1964 – sulla quale campeggia proprio una foto del Manga come (Losco) Figuro. Scrive Cortellessa: “Manganelli sceglie […] di proporre […] il proprio corpo osceno e dolorante – etimo segreto, del resto, di quell’immondo e fastoso secreto verbale”.
Altrove Silvano Nigro (indagando la crisi psico-fisica fondativa del Manga, la sua “ruggine dell’anima”) ricordava che il brutto ceffo in questione scriveva un po’ stupito all’amico Luciano Anceschi: “È singolare, ma l’Hilarotragoedia, ornata poi di quella ominous fotografia non mi ha guadagnato, che mi sappia, la fama di iettatore”.
Ma quell’immagine era già un gioco di prestigio: il vero tramutato in menzogna. Lo spiega bene Cortellessa, il trucco – praticato da tanti, tra cui Landolfi e Gadda – era stato di trasformare anche il corpo pur così reale in invenzione: “una controfigura fantasmatica alla quale, sulla pagina, siano consentiti pensieri, umori, azioni di cui il soggetto non potrebbe mai direttamente farsi carico”. Un incantesimo per la salvezza.
In questa calda estate di vacanze – per molti – casalinghe, immergiamoci allora in Il libro è altrove. Sulla sua scorta, torniamo a frequentare emeroteche e archivi digitali: lì – sepolti dalla polvere delle carte o dall’accumulo dei byte – giacciono sonnacchiosi gli articoli d’arte di Manganelli. Si potrà rimanere folgorati, irritati, stupiti. Chi pensa di primo acchito a Van Gogh come al “pittore delle patate”? Manganelli ce lo propone così sulle colonne del “Messaggero”. È l’articolo sparso Profondo nero, del 14 febbraio 1988. Mi ci sono imbattuta in una di queste incursioni.
Nelle sale traboccanti di Van Gogh di una mostra dove evidentemente aveva messo piede (Van Gogh, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dal 28 gennaio al 4 aprile 1988, qui una rassegna dell’evento), il “losco figuro” guardava non i celebri girasoli, ma le oscure patate – e pour cause: “Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità; e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo”; la domestica scena dei Mangiatori di patate diventa la demoniaca visione di un “sacramento negativo”. Dipingendo queste immagini – chiosa il Manga – “in lui [Van Gogh] si destò un meraviglioso orrore”; eppure poche righe dopo gli riconosce: “il suo occhio vede l’orrore sotto le guise della forma. Ma l’occhio è fermo, è calmo […]; ha la serenità di chi abita per naturale dannazione, cui non si può pensare alternativa, il centro del furore. Ciò che lo tutela, ma non protegge, è l’esorcismo della forma”.
In fondo, un altro pittore a cui poter dire – forse inaspettatamente – mon semblable, mon frère.