Concupiscenza libraria / Le “manie libresche” di Manganelli
“Quale che sia l’intensità dell’orrore, esso non supera mai il divertimento, la furibonda gioia del cantastorie, la felicità del possedere tutte le parole per raccontare, incantare, affabulare”.
Una definizione trascinante. Si sarebbe tentati di riferirla proprio a lui, e invece Giorgio Manganelli la regalava a Gogol’ sulle colonne dell’“Europeo” nel 1981. È una delle oltre 130 recensioni che Salvatore Silvano Nigro ha raccolto in un libro gustoso e poderoso: Concupiscenza libraria, uscito da poco per Adelphi. Se si pensa che un secondo volume è in programma per l’anno prossimo, si avrà la misura della “mania libresca” da cui Manganelli era attanagliato.
Silvano Nigro riunisce le recensioni che Manganelli non ha ripubblicato in vita, continuando così la sua fedele opera critica al servizio del suo maestro, sodale e amico, iniziata prima con le opere maggiori sia edite che inedite, poi con la parte sommersa dell’attività manganelliana (come i pareri di lettura e tutta la nube di materiali che danno forma alle Estrosità rigorose di un consulente editoriale), e ora appunto con le recensioni. E Manganelli – annota Nigro – non era un recensore, ma “uno scrittore di recensioni”. Una differenza rilevante per chi, come lui, era capace di fare “letteratura sulla letteratura”.
Ciò che il lettore si trova in mano è un corpus vario per epoca, argomento, tono: sono oltre 30 anni di recensioni a coprire millenni di scrittura. Chi è un affezionato cultore del Manga troverà qui l’aria di casa che pure resta sorprendente, sia per i tomi presentati (come quei vocabolari insieme meticolosi e fantastici che sono una nota passione del nostro), sia per le temerarie scelte lessicali (come la “saggezza tetra e sottecchiosa” dei sudditi di Acchiappacitrulli). C’è qualche modello (su tutti Edmund Wilson) e qualche antagonista (Carlo Cassola, ad esempio); rotte già battute e sortite inaspettate (come La camera chiara di Roland Barthes, letta – ci dice Manganelli – “a precipizio”: un’assorta meditazione sulla morte).
Un libro quindi ilare e tragico, ironico e pensoso, consapevole e inventivo, che per la gioia e l’intensità della lavorazione può ricordare gli articoli raccolti da Primo Levi nel 1985 in L’altrui mestiere (e Nigro del resto riprende il dibattito sullo “scrivere oscuro” che aveva contrapposto i due, Manganelli e Levi, sui quotidiani negli anni ’70: una reciproca polarità che celava una segreta vicinanza.
Curioso che anche Levi citasse Gogol’, e in un modo che certo non sarà dispiaciuto al Manga: “mi piacerebbe inventare e descrivere un personaggio-coccinella, riconoscibile forse in certe pagine di Gogol’: ipocondriaco, malcontento di sé, del suo prossimo e del mondo, increscioso e lamentoso, che inalbera una livrea riconoscibile da lontano (o un intercalare, o un difetto di pronuncia) affinché il suo prossimo, che egli detesta, si accorga in tempo della sua presenza e non gli venga fra i piedi” (Primo Levi, Romanzi dettati dai grilli in L’altrui mestiere).
Dato che è il Manga stesso altrove a coprirmi le spalle (“Il buon recensore – quello lievemente losco – ha licenza di chiacchierare di quel che ha letto con una certa irresponsabilità”, Con licenza d’errore, in Il rumore sottile della prosa, a c. di Paola Italia, Milano, Adelphi, 1994), prenderò il rischio di sbilanciarmi. Dalle tante pagine in cui scrive d’altri e d’altro, in cui l’ordigno del testo può permettersi di essere un poco sgangherato e di aprire una fessura su chi ci sta dietro, sembra far capolino proprio lui: Giorgio Manganelli. Nei “presentimenti di racconto” che costellano queste recensioni, vediamo affacciarsi di quando in quando la sua pingue figura, compunto ospite di scelte osterie: “Frequenta costui quella tal gargotta di Amelia dove si gustano palombacci e tordi? Temo di no: non ho mai visto entrare nessuno a cavallo”. Soprattutto, vediamo balenare la sua storia personale, addirittura forse il suo unico credo.
Nell’articolo Sapore di stampa antica pubblicato nel maggio del 1989, quasi un anno esatto prima di morire, Manganelli racconta del suo assiduo rapporto con i cinerei volumetti Bur, quelli della prima serie della collana iniziata nel 1949: “Speravo che la Bur avrebbe raggiunto il numero mille, e lì si sarebbe attestata, monumento più perenne del bronzo, testimonianza alle future generazioni di quel che si era fatto in Italia in anni non facili nell’infanzia che seguì all’amara senilità della catastrofe”.
Già Federico Francucci ha sottolineato, con i manganelliani Appunti critici 1948-1956 alla mano (di cui si attende ancora l’uscita a sua cura), come queste edizioni Bur fossero state allora cruciali: “si contano più di quaranta titoli letti probabilmente in edizione Bur tra 1949 e 1955, e in alcuni di questi a Manganelli sembrerà di aver trovato soluzioni decisive sia riguardo alla letteratura che riguardo alla vita” (Federico Francucci, Tutta la gioia possibile. Saggi su Giorgio Manganelli, Milano-Udine, Mimesis, 2018). L’omaggio retrospettivo è rivolto quindi ai libri della sua formazione. Ma c’è di più. Quella “amara senilità della catastrofe” che furono il nazifascismo e il secondo conflitto mondiale avevano visto Manganelli partecipare – nel pensiero e nella pratica – alla Resistenza, al pari di tanti ragazzi e ragazze della sua generazione. Alla fine della guerra, con 23 anni da compiere, anche per lui era iniziata una nuova “infanzia”, in cui crescere di nuovo e trovare la propria strada. Scrive ancora il Manga: “la Bur fratesca (…) era destinata ad una Italia umile, giovane, avida di cultura ma incolta; era un piacere vero, e insieme un piacere da poveri; oggi, mi sembra che avesse un tocco di bohème”.
Giustamente Nigro ha disposto questo testo accanto a un articolo del 1956 dedicato all’Anniversario dei «Penguin Books», altra collana insieme economica e colta, esempio di “democrazia”. Le due recensioni, che pure risentono dei momenti diversi in cui furono scritte, fanno cortocircuito. Delineano un orizzonte culturale che per un Giorgio Manganelli disimpegnato per programma (o almeno in apparenza) non ci aspetteremmo. “E certo senza i «Penguin» la democrazia inglese, la vita intellettuale delle masse, sarebbero più povere, e di gran lunga. (…) È lecito comunque dubitare che sia possibile creare una democrazia di massa senza una qualche forma di autentica cultura, che nei suoi dati essenziali accomuni le élites e i poveri diavoli”.
Ecco, Manganelli – pur nel proprio stile – è sempre stato dalla parte dei “poveri diavoli”. Contro quelli che oggi chiameremmo i ‘poteri forti’ della grande Storia, della Società, della Religione. Era – certo a modo suo, senza ideologie e senza missioni – uno scrittore schierato. A vederla in modo radicale lui, che prediligeva i discorsi metafisici, scriveva le sue cosmogonie fantastiche per quei “poveri diavoli” che sono gli esseri umani, in balia di un mondo di soprusi, dolori e malattie.
Leggendo ora nella raccolta di Nigro il partecipato pezzo I pascoli del Sant’Offizio, dedicato ai Benandanti di Carlo Ginzburg, cogliamo davvero la radice di tanta sua letteratura in proprio. I casi dei contadini friulani finiti davanti agli inquisitori tra Cinque e Seicento, che Ginzburg analizzava nel 1966 in modo rivoluzionario dando voce ai sommersi della Storia, affascinavano Manganelli per più motivi. Innanzitutto, credo, per il loro modo di parlare: la recensione è piena di quel linguaggio, con citazioni inutili ai fini di un compendio – un solo esempio: “in guisa di animale, gatta o «sorzetto»” – ma riportate proprio per il loro sapore verbale. E poi, perché quei contadini incarnano l’essenza stessa del “povero diavolo” davanti al potere, fragile e insieme fiero depositario di visioni. Tre anni dopo la recensione, nel 1969, usciva Nuovo commento. Nel cuore di quell’anomalo volume, Manganelli incastonava una figura complice e vicina: “Rammento – e fu, non scoperta, ma agnizione di un volto eternamente fraterno – rammento l’ampia biografia di un lanaiolo deficiente, morto di dissenteria, sullo scorcio del seicento” (Giorgio Manganelli, Nuovo commento, Milano, Adelphi, 1999). Friulano o meno, quel lanaiolo siamo, in fondo, tutti noi.
Che Manganelli fosse lui stesso un benandante? Uno di quegli stregoni buoni che, con fantasticherie (auto)ironiche al posto dei mazzi di finocchio, nelle notti deputate ci riscattava combattendo a suon di letteratura per la “grascia” anziché la carestia?
Certo è che nelle pagine di Concupiscenza libraria, lo vediamo farcisi incontro, avvolto nel suo mantello di parole, innamorato lettore e latore di “fole notturne”. Alla Gogol’. Diceva: “la materia di Gogol’ è in continua metamorfosi tra acqua, aria e fuoco che sfiorano, illuminano, incendiano il duro, acre, e vivo elemento terra, il luogo delle cose e delle ombre”.
Di “fole” così – più che mai nel nostro mondo presente – abbiamo davvero bisogno.