(Letture in tasca)

20 Agosto 2014

I miei libri delle vacanze si riassumono anche quest'anno in quello che da sempre devo e voglio leggere e che non leggerò mai: Guerra e pace. Tutti gli anni leggo altri libri che hanno la sola funzione di sostituti, miseri surrogati neanche dell'oggetto aminuscolo, di cui tutto è più o meno un surrogato, ma di un ancora più fantomatico A maiuscolo (o altra lettera similare), quello mastodontico, gigantesco e rivoltante, qualsiasi cosa sia quell'orrida bestia, barrata, il cui baluginio ogni tanto ci ferisce come una stilettata e è già esso stesso solo un riflesso, un effetto di qualche suo altro effetto innominato e senza nome, disperso nella catena dei significanti, dei libri, dei desideri senza misura che ti scavano un buco vibrante nella pancia, una voragine brulicante di gas e esserini appena vivi e già moribondi, in via sempre di morire senza mai sparire, che si dirama in una serie di gallerie con tanto di crolli e esplosioni sotterranee dove qualcosa resta imprigionato, incriptato per sempre e tu manco lo sai, manco sai che cazzo è.

 

Quando mi avvicino alla mia preda con tanto di ghigno sanguinario a deformarmi il muso, sicuro di tenerla e pronto a ghermirla, subito mi ritraggo: una volta è un'edizione troppo voluminosa, un'altra i caratteri sono troppo piccoli, un'altra ancora nutro seri dubbi sulla traduzione, senza contare che poi mi arrivano libri urgentissimi, la cui lettura immediata è indispensabile, addirittura vitale, specie per chi me li ha mandati, e così tutti gli anni lo lascio lì. E mi ritrovo a leggere sempre altro, con un senso di colpa ormai tanto remoto che me ne giunge solo, nei momenti più bui, solo qualche vaga zaffata (e meno male...).

 

 

Allora mi lascio trasportare dalle occasioni. Quest'anno un amico, che qui ringrazio, mi ha chiesto se mi andava di fare una recensione all'ultimo libro di Peter Handke, Saggio sul luogo tranquillo (Guanda), magari accennando anche a qualche recente ristampa, come Storie del dormiveglia e Il peso del mondo (entrambi pure da Guanda), e a Un anno parlato dalla notte (Moretti e Vitali), un libro che attinge il suo materiale dai sogni e che quindi non dovrebbe piacermi, perché poco mi respinge come i sogni in letteratura, ma che mi è stato caldamente raccomandato anche da un'amica di cui mi fido che lo ha molto amato.

 

Il peso del mondo è stato il terzo libro che ho recensito in vita mia, in coppia con L'ora del vero sentire (Garzanti), nel luglio del 1981. Negli anni immediatamente precedenti e successivi ho letto molti libri dello scrittore austriaco, ma poi le mie letture si sono diradate e quasi spente, e allora ho approfittato dell'invito per ricucire un filo un po' più continuo, se non completo (con Handke è impossibile, tanto ha pubblicato). E così, oltre a quelli che già possedevo, siccome nelle librerie che ho girato c'era pochissimo (e a volte nulla), mi sono comprato tre dei più recenti e me ne sono procurata un'altra dozzina con l'interprestito.

 

Sono felice della scelta perché sono quasi tutti libretti brevi che stanno anche nelle tasche dei jeans o dei bermuda, come piace a me, e che posso agevolmente tenere in mano per leggerli mentre cammino: abbastanza grandi, però, perché i foglietti che di solito uso come segnalibro non fuoriescano da bordi arricciandosi o strappandosi, e con una carta che prende bene le sottolineature a matita (i miei), ma sufficientemente solidi per appoggiarvi i foglietti per prendere appunti sia in piedi mentre cammino che, a maggior ragione, quando mi siedo da qualche parte perché la cosa viene lunga.

 

 

Cosa che faccio ogni giorno peraltro, non solo in vacanza (ma io lo sono sempre, essendo in pensione), nei dintorni del mio paese ad agosto spopolato (anche se negli ultimi anni molto meno: e si capisce perché), sulle stradine e le piste ciclopedonali lungo il fiume o i canali, o nella campagna, che conosco palmo a palmo e dove quindi posso trascurare di occuparmi del terreno e seguire le parole nella mia testa o sulle pagine e a volte fischiettare senza timore di disturbare nessuno, perché nessuno o quasi passa di lì quando ci passo io. E queste saranno le letture principali da fine luglio a ferragosto.

 

Però, poi, per non fare un torto completo al buon Lev Nikolaevič (un disgraziato che è andato a morire in mezzo al nulla dopo aver capito che la sua opera avrebbe generato una trafila vertiginosa di melensi film e serie televisive: una rivelazione che nessun uomo dabbene riuscirebbe a tollerare oggi, figuriamoci un'anima santa come la sua, di quei tempi poi...), mi riservo ogni anno una sua operina minore (minore...), qualche romanzo breve, un'edizioncina di questo o quel racconto o di due o tre raffazzonati pretestuosamente per qualche vago tema comune, o a seconda dell'aria che tira quell'anno, e così, pian piano, disegno attorno all'opus magno il suo perimetro, ne traccio i confini, scavo in negativo il suo calco con il resto della sua opera e mi ci metto dentro, mi ci sdraio, assecondandone come posso le forme, e vi riposo, senza troppi pensieri. Esattamente quello che si chiede alle vacanze.

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