La fine della natura a buon mercato

12 Giugno 2023

«È anche del razzismo sistematico del mio Paese che ho voluto parlare». Così al festival di Cannes che s’è appena concluso Martin Scorsese ha spiegato, in conferenza stampa, i motivi che lo hanno spinto a girare il suo Killers of the Flower Moon. Tratto da un saggio del 2012 scritto dal giornalista americano David Grann, il nuovo film del regista di Taxi Driver racconta un episodio ignobile quanto poco noto (e non a caso) della storia recente degli Stati Uniti: l’espropriazione violenta, nell’Oklahoma degli anni Venti del Novecento, dei terreni, ricchissimi di petrolio, di proprietà di una comunità di nativi, gli Osage.

Al contrario di tutte le altre tribù indigene nordamericane, languenti in uno stato di semipovertà nelle riserve, grazie all’oro nero gli Osage avevano un reddito altissimo. Poi però i nativi titolari dei terreni che custodivano nel sottosuolo il greggio cominciarono a morire in circostanze misteriose: uccisi in imboscate, avvelenati, vittime di incidenti automobilistici. Una fine non molto diversa faceva chiunque provasse a indagare. E mentre le morti restavano, tutte, senza spiegazione e senza colpevoli, le terre degli Osage finivano nelle mani dei grandi gruppi petroliferi nord americani. Il soggetto del film di Scorsese, insomma, è una storia di violenza omicida premeditata finalizzata a depredare una popolazione indigena delle sue risorse.

Il fatto che, commentando la scelta di questo soggetto, il regista usi l’aggettivo “sistematico” accoppiato al sostantivo “razzismo” ha una sua rilevanza. Lascia intendere, infatti che perlomeno in una certa parte dell’opinione pubblica Usa (diciamo quella più “progressista”) è diffuso un certo grado di coscienza che il razzismo non sia stato (e tuttora non sia) un semplice accidente della storia americana, ma invece un elemento strutturale dell’ordine economico, sociale e di valori statunitense. 

D’altra parte, dietro le correnti che attraversano l’opinione pubblica americana e che si manifestano nelle parole di un regista come Scorsese esistono filoni di studio che da almeno tre decenni indagano la complessità dei fattori che, insieme al razzismo, strutturano il campo dei rapporti di potere che segnano la contemporaneità. A uno di questi filoni, quello dell’ecologia politica, appartiene Jason W. Moore. Docente di Economia politica presso il dipartimento di Sociologia della Binghamton University di New York, Moore ha dedicato il suo lavoro di analisi a mostrare come, se davvero si vuole comprendere il funzionamento della grande macchina capitalistica, sia necessario aggiungere al dislivello di potere esistente tra capitale e lavoro altre articolazioni del dominio: quella del capitale sulla natura, quella del capitale sulle donne, quella del capitale sui popoli colonizzati (il razzismo sistematico denunciato appunto da Scorsese).

Nel solco del lascito marxiano, Moore ha costruito le sue teorie attraverso una serie di saggi, di articoli su riviste e di interventi che dai contributi iniziali a cavallo del passaggio dal vecchio al nuovo millennio arriva sino a testi – citiamo solo, tra i più recenti, Capitalism in the Web of Life) – che sono un riferimento imprescindibile nel vasto e complesso campo dell’ecologia politica e che fanno del loro autore il capofila della World Ecology. Di Moore la casa editrice Ombre Corte ripropone ora un testo fondamentale, pubblicato per la prima volta nel 2015 e che riappare in una nuova edizione curata da Gennaro Avallone (autore anche dell’introduzione al volume) e arricchita da una prefazione inedita dello stesso Moore: Ecologia mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato (205 pagine, 18,00 euro).

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Quella di Moore è una visione in cui orientamenti teorici come quelli del sistema mondo di Immanuel Wallerstein e della storia mondo di Giovanni Arrighi si intrecciano da una parte con il recupero del pensiero dialettico operato nel campo delle scienze biologiche da Richard Lewontin e da Richard Levins e dall’altra con il ridimensionamento dell’umano operato nel campo delle scienze sociali da Bruno Latour e da Donna Haraway. Dentro queste coordinate va inscritta la World Ecology. Il punto di partenza è la negazione radicale della scissione, costitutiva secondo Moore del pensiero borghese, tra società e natura. Gli umani per Moore non agiscono sulla natura, ma attraverso la natura. «È necessario – leggiamo in uno dei testi raccolti in “Ecologia mondo e crisi del capitalismo” – un concetto che passi dall’azione di unità impenetrabili e indipendenti (natura e società) a uno che cerchi di rivelare la dialettica dei rapporti combinati, interdipendenti (e interdipendenti in modo disordinato) delle nature umana ed extraumana.

È necessario, in altri termini, un concetto che consenta un vocabolario dell’umanità-nella natura piuttosto che uno basato su umanità e natura». Le società umane, per Moore, nascono e vivono all’interno di una matrice naturale, comune tra umano ed extra umano, che egli designa con il termine di Oikeios. «L’Okeios – spiega Moore rifacendosi a The Dialectical Biologist di Levins e Lewontin – mette in risalto l’ineludibile rapporto tra specie umana e ambiente. L’Oikeios è una dimensione dialettica multistrato comprendente, insieme agli umani, la flora e la fauna, ma anche le molteplici configurazioni, i cicli e i movimenti geologici e della biosfera del nostro pianeta. Attraverso l’Oikeios si formano e si riformano le relazioni e le condizioni che creano e che distruggono il mosaico di cooperazione e conflitto dell’umanità, ovvero ciò che è comunemente chiamato organizzazione sociale.

Il concetto di “natura come Oikeios” non è proposto allora come un fattore aggiuntivo, da collocare accanto alla cultura, alla società o all’economia. La natura diviene, invece, la matrice in cui l’attività umana si realizza, il campo nel quale l’azione storica opera». Discorso che vale per tutto l’agire umano, comprese le manifestazioni dello stesso che hanno determinato la nascita e accompagnato lo sviluppo della formazione economica e sociale che chiamiamo capitalismo.

Il capitalismo, per Moore, agisce non sulla natura, ma attraverso la natura, dentro i confini comuni dell’Oikeios. Nella storia dell’umanità sono esistite altre formazioni economiche e sociali prima del capitalismo. Tutte hanno prodotto natura e tutte dalla natura sono state prodotte. Tutte hanno operato all’interno della matrice naturale, ciascuna in modo specifico. Si tratta di capire qual è la specificità del capitalismo. Per rispondere Moore si rifà alle intuizioni marxiane, contenute nel primo libro del Capitale, sul ruolo che i fattori extra umani giocano, in un rapporto sinergico con i fattori umani, sulla produttività del lavoro e in generale sull’ “efficienza” del ciclo di valorizzazione del capitale.

Per l’autore di Ecologia Mondo il ciclo Denaro-Merce-Denaro attraverso il quale procede, secondo lo schema marxiano, l’accumulazione di capitale, si articola dialetticamente in un doppio movimento: da una parte lo sfruttamento del lavoro salariato, dall’altra quella che Moore chiama la “capitalizzazione della natura”. Per la World Ecology esiste cioè un meccanismo di accumulazione allargata nel quale entrano, come fattori determinanti, non soltanto il lavoro salariato, ma una configurazione specifica (specificamente capitalistica) dei rapporti dell’umano con la natura extra umana che lungo tutta la storia del capitalismo ha reso possibile la disponibilità a prezzi bassi di cibo, di energia e di materie prime. In virtù del fatto che sia stato possibile appropriarsi di cibo, energie e materie prime a prezzi bassi o gratuitamente (“a buon mercato”, per usare le parole di Moore) la natura extra umana è entrata nel ciclo di valorizzazione del capitale come elemento positivo: la sua capitalizzazione ha consentito di tenere tendenzialmente bassi i costi dei fattori produttivi o, in termini marxiani, riducendo la composizione organica del capitale i bassi prezzi di cibo, di energia e di materie prime hanno stabilizzato il saggio di profitto all’interno di un quadro sistemico in cui, invece, il saggio di profitto tende, secondo la classica analisi marxiana, a cadere. 

Ma come è stato possibile ottenere natura extra umana a buon mercato? Qui l’analisi economica di Moore si lega a quella storico-politica. Agenti della capitalizzazione della natura extra umana sono stati, per tutta la lunga fase del colonialismo e dello schiavismo, gli Stati nazionali europei, con la creazione di grandi imperi coloniali in un processo plurisecolare che ha visto dispiegate una forza militare e una violenza senza precedenti nella storia della specie umana. Il colonialismo è stato un grande movimento di appropriazione violenta della natura extra umana funzionale alle leggi che regolano il meccanismo fondamentale Denaro-Merce-Denaro. «Dal punto di vista della World Ecology – scrive Moore – il Proletariato (mettere gli esseri umani al lavoro per il capitale) e il Biotariato (mettere l’extra umano al lavoro per il capitale) formano un’unità storico-mondiale».

D’altra parte, l’appropriazione violenta non ha riguardato soltanto la natura extra umana. Si è estesa alla natura umana. A una parte della natura umana: asservimento dei popoli colonizzati (con relativa estrazione di lavoro non pagato o sottopagato) e subordinazione sociale delle donne (con relativa estrazione di lavoro non pagato o sottopagato). Come il razzismo, anche il sessismo e il patriarcato sono elementi sistemici dell’ordine capitalistico. In definitiva, nel segno della capitalizzazione della natura si realizza una “unità storico-mondiale” delle forze di natura (umane ed extra umane) che la sinistra mondiale, per Moore, fatica a cogliere. Limite questo tanto più grave in quanto il capitalismo è giunto oggi a una fase estremamente critica, in cui quasi tutti i fattori che storicamente hanno reso possibile la capitalizzazione della natura non esistono più o si sono fortemente indeboliti.

Siamo, rileva Moore, alla fine della natura a buon mercato. Una crisi profonda, dunque, di fronte alla quale se da un lato, come s’è detto, la sinistra mondiale mostra un grave deficit di analisi, dall’altro il sistema del capitale ha trovato un solo modo di reagire: la finanziarizzazione, ovvero il salto, gravido di conseguenze scarsamente controllabili, dal ciclo Denaro-Merce-Denaro al ciclo Denaro-Denaro. 

Nel campo dell’ecologia politica esistono altri autori (John Bellamy Foster, Paul Burkett, Andreas Malm, Ian Angus, Kohei Saito) che in vari modi si confrontano con Marx e che sono critici nei confronti di Moore. In particolare Foster rivendica un’autonomia del sociale rispetto al naturale e un ruolo di mediazione del lavoro umano che nella “ontologia piatta” di Moore andrebbero del tutto perduti. Qui non abbiamo lo spazio per entrare nel dibattito, che è vivo e a tratti aspro. Rileviamo come l’unità dialettica tra società e natura sostenuta da Moore sia un indirizzo di valore che con sempre maggiore frequenza ispira l’azione di movimenti ecologisti in diverse parti del mondo: dalla mobilitazione antirazziale e per la difesa della terra di cui continuano a essere protagoniste le popolazioni andine e i nativi brasiliani, alle battaglie condotte dai gruppi ambientalisti in Canada e nel nord degli Stati Uniti contro il gasdotto Dakota Access, sino alle richieste di riconoscimento, anche in termini legali, dei diritti della natura con lo scopo di attribuire personalità giuridica a fiumi, ghiacciai, foreste. La consapevolezza che noi siamo natura cresce ben oltre i confini dell’accademia. 

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TAGGED: Jason W. Moore

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