Jack Frusciante è tornato nel gruppo, peró intanto Fuori piove

1 Agosto 2015

C’era una volta il vecchio Alex che leggeva Due di due dell’Andrea De Carlo, correva in sella alla bici con l’energia disperata d’un Girardengo e via giù a precipizio per la Saragozza avenue. Il vecchio Alex scriveva con l’uniposca la bella scritta Clash City Rockers in caratteri gotici sull’asse di un cesso, mentre Martino viveva nella tana pubblicitaria delle Timberland con poster, libri, dischi, vestiti e videocassette dappertutto. C’erano una volta le telefonate degli amici che iniziavano per “Casa D.?”, poi c’erano quel kranio elettriko del vecchio Hoge e i compagni dei pomeriggi nichilisti, del mal di testa cyberpunk e delle notti da cani giovani. C’erano le amichette della confraternita delle Semprevergini in assorbente esterno, ma soprattutto c’era Lei, Aidi. Avevano parlato del Fenomenale Cummings e di Baudelaire, e adesso il vecchio Alex e la soave Adelaide vivevano il loro strano sogno e si raccontavano tutto e camminavano e parlavano e ridevano e camminavano e parlavano, quei matti. C’era una volta Jack Frusciante è uscito dal gruppo, quel libro tardo-adolescenziale che già sapeva di modernariato, con i suoi echi sparsi di ’77 bolognese, di Paz e di Tondelli, di Specials e Frigidaire, di punk e di spranghe sotto i cappotti.

 

Oggi invece c’è Antonio Dikele Distefano, 22 anni e quasi ottantamila fan su Facebook. Una bella vetrina per Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti? che, edito da Mondadori, in quattro mesi ha venduto trentamila copie «come un disco d’oro di Fibra». Distefano però non si ferma, dice che farà meglio di Fabio Volo, annuncia un nuovo libro a settembre 2016 (P.O.P.C.A.) e promette, anzi, minaccia di diventare il Balotelli della letteratura italiana. Sì, perché Dikele è angolano e il suo romanzo d’esordio ha una sintassi facilissima, una playlist rap da ascoltare sfogliando le pagine, che però finiscono prima della scaletta musicale, e una bella copertina effetto "rosa". Fuori piove, dentro, pure, passo a prenderti? racconta (solo) un (ex) amore ricodificando (per fortuna) i termini del bianco (lei) e nero (lui), poi parla di WhatsApp, di Skype e di SMS: l'apparato è vincente e destinato a diventare il prossimo best-seller adolescenziale, ma cosa n’è stato intanto del libro generazionale? Quanto erano diversi e più stratificati i nostri, pardon, i miei Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Due di due, Ti prendo e ti porto via? Siamo cambiati noi o siamo stati noi a cambiare il gusto dei più giovani? Basterà davvero minimizzare e dire: «Ma sì, in fondo l'importante è che si legga?»

E se fosse questo il nostro vero concorso di colpa?

 

 

Andiamo per gradi. L’amore interrazziale è intanto un buon motivo, forse l’unico, perché un giovane adulto dovrebbe leggere Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?. Perché se gli adolescenti non hanno più bisogno di sdoganare “questioni di pelle”, siamo noi italiani più grandi a mostrarci spesso di duro comprendonio. Sulla carta insomma, Fuori piove avrebbe il merito di essere un libro “per tutti”, non come Jack Frusciante eversivo, triviale e localizzato, sconsigliato a un pubblico di età adulta e specie se genitoriale. Il problema nasce invece quando si prova a fare una recensione, che sia stilistica o argomentativa, del testo di Dikele e si scopre che il libro è una scarica sommaria di metafore («Siamo due mani che si toccano, come nella pubblicità dei Ringo»; «Le storie d’amore di oggi si conservano come la batteria dell’iPhone»), uno sfinimento di aforismi a sensazione («Tu cadi in piedi. Io ai tuoi piedi. Nemmeno le torri gemelle sono cadute insieme»; «Il primo amore non si dimentica perché è sempre una scelta sbagliata.») e di rap in tuta mimetica: «Tu eri la Guerra Fredda in piena estate, la Primavera Araba nelle mie giornate troppo italiane»; «Adesivi che si staccano perché il tempo ha fatto la sua parte, sabbia sotto i piedi di chi non sa che prima eravamo sassi».

 

Se poi i classici di Enrico Brizzi erano i Cure, The Smiths, i Madness, i superclassici di Dikele sono Bob Marley, Fabrizio De Andrè e tanto di cappello, ma la sua scelta diventa più artificiale: una playlist di canzoni e una scrittura ossuta, frammentaria nella sintassi e nei paragrafi brevissimi (caso limite, il capitolo: «”Sei ubriaco, riprenditi”. “Riprendimi”». Ermetismo 2.0?). Come un instant-book, Fuori piove è un flusso continuo di flashback in soluzione monologo e in cui l’ex-fidanzata parla nei ricordi di Anto. Già, ma i dialoghi?

Non ci sono o sono primitivi, e al loro posto gli SMS riletti prima di dormire («L’ultimo messaggio che diventa il penultimo. Con chi messaggi?»), i sintagmi di Facebook («Penso a quando vedrò la vostra foto insieme tra le persone che potrei conoscere e penserò “che potrei conoscere?”»; «Ora la ragazza la riempi di notifiche e quindi non conquisti ma “invadi”») e delle chat: «Odio i giorni in cui la linea prende benissimo e non ho il 3G» e «Scriverti senza avere il sospetto che tu possa solo visualizzare».

 

In altre parole, la scrittura creativa di eredità bolognese e anarchia tricologica di Enrico Brizzi – come quando ad esempio scriveva «Due Never Mind the Bollocks più tardi era di nuovo lunedì mattina, et illo non aveva ancora studiato fisica» – è diventata una specie di poltiglia multitasking in cui l’intento autobiografico sfocia nell’autoreferenziale a raffiche di «Cioè». È qui che qualche frammento scolastico e mal declinato di politica (l’autore parla di che belle le rare giornate al mare, quando sembrava di buttarsi «a testa in giù come Pinelli»…) lascia posto al «Rivoglio il 3310», al «Ricordo che ero Tim e lei Wind. E io avevo i messaggi gratuiti», al «Rivoglio il Milan di Savicevic» e «Prima o poi tutti si lasciano, come Shevchenko e il Milan, come noi due». Peccato, perché Dikele Distefano sa scrivere anche pagine molto belle quando racconta la sua “diversa” adolescenza vissuta in «blackout interno presente», di quando da piccolo sognava una patria immaginaria e senza bandiera mentre i compagni di scuola gli chiedevano «Ma tu ti senti più italiano o del tuo paese?». E ancora mentre l’autore parla di discriminazione citando sì prima Tupac e Balotelli, ma poi anche i padri africani, Patrice Lumumba, Kwame Nkrumah, Modibo Keita e la storia di Keshia Thomas. Eppure la sensazione diffusa durante la lettura è che tutto dovrà infine ridursi a quando «Leggevi i miei scritti e dicevi: sbagli i tempi, qui ci va l’imperfetto».

 

Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?

 

Ecco quindi che pre-invecchio e rimprovero a mia volta la trascuratezza letteraria dei più giovani, ma la colpa non è di Antonio Dikele se nelle sue pagine non c’è politica, non c’è un modello letterario, non c’è citazionismo d’autore che non sia la traccia continua dei cantanti mainstream (Tiziano Ferro e Jovanotti i più ricorrenti) o il furore in nuova rima dei rappers italiani. Che il mio non sia quel cliché di biasimo generazionale, un po’ a modo del chissà cos’avranno pensato Tondelli o Palandri di Brizzi e De Carlo, e prima Calvino o Pasolini del disimpegno politico di Boccalone o di quei tossici di Altri libertini?  Quella era però una spoliticizzazione della letteratura nata da un’urgenza tutta postmoderna di scrittura materica, e non ancora da un millenarismo politico che oggi, più che di disaffezione, si direbbe di totale indifferenza. I nostri romanzi generazionali, quelli dei nostri padri e dei fratelli maggiori, hanno modellato la nostra capacità critica e un gusto estetico poi stratificatosi in letture più complesse, trascendenti ogni genere di appartenenza. I nostri romanzi generazionali erano semplicemente belli e moderni, e a rileggerli oggi ci lasciano un dolce sorriso d’indulgenza, come già accaduto a quella terza persona informata dei fatti che aveva scritto Jack Frusciante in ottemperanza dell’archivio magnetico del signor Alex D.

 

E quindi che si fa? Ci si continua a lamentare che i giovani non leggono o ci si dà da fare perché un giorno, magari molto presto, possano leggere qualcosa di migliore? O forse noi, fratelli maggiori, dovremo aspettare di crescere ancora e che, come diceva il Brizzi, determinati idealismi vadano «giù nel buco del cesso con una musichetta deliziosa»?

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