Dorfles: oltre un secolo nell’arte
È una giornata piovosa di gennaio e mi sto dirigendo verso casa di Gillo Dorfles. L’ho conosciuto all’inaugurazione della sua mostra personale alla Fondazione Marconi e mi ha accordato un appuntamento per oggi pomeriggio. Sono in anticipo, e mi fermo a bere un caffè in un bar che si affaccia sulla stessa piazza del suo palazzo. Osservo al di là della vetrina l’edificio, sobrio ed elegante; a fianco si trovano un barbiere e una vecchia officina, e c’è anche un po’ di verde. Qui, in Piazzale Lavater, pare che il tempo scorra rispettoso dei propri ritmi.
Poco dopo scoprirò che questo luogo è lo specchio della cordiale gentilezza di Gillo, che mi accoglie a casa sua senza fretta, ma con una rara e autentica disponibilità. Mi guida nel suo studio percorrendo l’anticamera e il corridoio: i libri sono ovunque, ammassati tra un Capogrossi e una scultura di Fontana, sulle librerie e per terra. È un privilegio per me essere qui con questo signore di quasi 104 anni, che ha vissuto tutto il secolo breve e ciò che ne è conseguito ed ha ancora voglia di raccontare. Non ha perso la sua determinazione: mi prega di registrarlo e di non prendere appunti, perché le sue parole vengano riportate senza deformazioni. È quel che farò.
Triestino, classe 1910, arriva a Milano nel 1928 per studiare medicina. Dopo tre anni si trasferisce a Roma per completare il suo percorso come allievo interno delle clinica Cesare Frugoni, per poi laurearsi a Milano nel 1934. Si stabilisce nel capoluogo lombardo anche perché sposa una milanese – puntualizza – e decide di non esercitare la professione ma di dedicarsi alla critica d’arte. Mi spiega: «non si è trattato di un passaggio di campo, mi sono sempre interessato all’arte, sia per fare che per criticare. Ma, siccome bisognava avere una professione, ho detto: “beh, scegliamo la Neurologia e la Psichiatria”. È stata una lunga parentesi, anche abbastanza faticosa, ma il fatto di avere una base scientifica può rivelarsi utile, non dico per la creazione, ma per la costruzione della personalità».
Più volte, nel corso della sua lunga carriera, ha affermato di essersi sempre interessato al prossimo più che a se stesso, fatto che si riflette nella sua lettura critica: l’uomo è al centro. I suoi studi in campo psichiatrico si sono rivelati utili in tal senso: «io credo che il legame sia indiscutibile», afferma. «Fermo restando che lo studio dell’aspetto tecnico e materico è indubbiamente fondamentale, credo che per criticare l’arte bisogna anche tener conto della personalità del pittore e dell’artista. Forse se tutti i critici d’arte avessero un po’ di infarinatura psicologica, sarebbe meglio…». Una complessità di interpretazione che spesso manca alla critica italiana, che «purtroppo non è sempre molto coerente: o è troppo legata a questioni politiche, oppure di amicizie, finendo per non essere obiettiva». All’estero la situazione è diversa: «vi sono ottimi critici, sia in America che in Inghilterra, che corrispondono a quello che dicevo. Ho conosciuto molto bene Clement Greenberg, che oltre ad essere colto e preparato, aveva anche un approccio diretto con l’artista e con la persona. E come lui molti altri». Ma non cade in una facile esterofilia: «non voglio dire male della critica italiana, ma mi pare che molto spesso sia superficiale. A parte molte buone eccezioni, naturalmente. Ora, nel contesto di quest’ultima mia mostra, un ottimo esempio di una critica positiva da tutti i punti di vista, sia tecnico-scientifici che psicologici, è quella di Carlo Arturo Quintavalle».
L’argomento della conversazione si sposta così sulla sua personale alla Fondazione Marconi, Gillo Dorfles. Ieri e oggi, a cura di Luigi Sansone. Gillo mi racconta di essere affaticato per gli eventi che si sono susseguiti in questa occasione, ma dal trasporto con cui ne parla, mi pare soddisfatto. La mostra ripercorre gli ultimi trent’anni della sua attività artistica, tra acrilici su tela, tecniche miste su cartoncino, ceramiche e una scultura di grandi dimensioni dipinta con smalti policromi. Sono rappresentati, con colori brillanti, personaggi surreali e multiformi: «le mie pitture non sono figurative nel senso normale della parola, cioè non sono le bottigliette di Morandi… Però vi sono analogie con forme organiche, naturalistiche, embrionali. Un genere di figurazione c’è, ma è non-naturalistica e non-imitativa». Si tratta piuttosto di rappresentazioni istintive ed oniriche dell’inconscio.
Una pittura ben diversa da quella del Movimento Arte Concreta (MAC), nato nel 1948 e di cui Dorfles è stato tra i fondatori. Nelle linee fluttuanti e dinamiche delle opere in mostra c’è ben poco di quella rigida geometria: «dopo il periodo degli anni Cinquanta ho abbandonato questo tipo di arte rigorosa, quindi gli addentellati sono molto scarsi. Il MAC è infatti settoriale, ha curato molto un’arte concreta, quindi non figurativa e alle volte un po’ troppo rigida, secondo uno schema geometrico. È stata creata soprattutto in opposizione all’informale da una parte, alla figurazione ormai invecchiata dall’altra».
Senza titolo, 1984
Se gli chiedo possibili influenze nella sua opera, Gillo preferisce dichiararsi autonomo nella sua poetica. Tuttavia particolare stima va ad Osvaldo Licini: «non so se ci siano delle analogie con quello che faccio io, comunque è uno dei miei preferiti. Anzi, devo dire che non è stimato e considerato quanto si merita. È stato estremamente originale, un uomo che ha vissuto isolato in un paesino dell’Abruzzo (Monte Vidon Corrado, N.d.R.), di cui era sindaco, e pur lontano da tutte le attività delle grandi metropoli, ha creato un’arte veramente originale». Se a Licini va tutta la sua stima nel campo della pittura, riconosce un merito particolare a Lucio Fontana per quanto riguarda la scultura: «l’ho seguito prima ancora che facesse i tagli e i fori e iniziasse la sua grande notorietà. Allora faceva delle statue un po’ barocche, che erano apprezzate, ma fino ad un certo punto. Io invece già allora avevo scritto qualche pezzo su di lui, sulle sue sculture. Perché indubbiamente Fontana è stato un grande scultore, prima di essere l’inventore dei tagli».
I rapporti d’amicizia con gli artisti si stringevano soprattutto nelle gallerie, mi racconta. Questi luoghi erano al centro della vita culturale milanese. Non si trattava solo di momenti espositivi, ma di occasioni di scambio feconde: «l’ambiente delle gallerie era molto più intenso. Ora molte di quelle storiche hanno chiuso e la gran parte delle migliori, come il Milione, il Naviglio e l’Ariete non ci sono più». In particolare mi parla di Beatrice Monti, che aveva aperto nel 1955 la sua Galleria dell’Ariete in via Sant’Andrea, proponendo coraggiosamente gran parte degli artisti più all’avanguardia di quegli anni: «donna di grande sensibilità, all’epoca ha esposto molti degli artisti che io le suggerivo, come Enrico Castellani e Cy Twombly».
Oggi purtroppo la situazione è mutata per Milano, ma preferisce non parlare di decadenza, riferendosi piuttosto ad «un momento di stasi». La sua speranza è riposta nell’Expò 2015, ma deve anche cambiare l’atteggiamento dei cittadini, in particolare dei «milanesi facoltosi, che bisognerebbe che devolvessero un po’ dei loro soldi per attivare le forme pubbliche dell’arte».