L’ultimo romanzo dello scrittore indiano / La caduta di Salman Rushdie

6 Gennaio 2018

 

Dopo un centinaio di pagine di lettura de La caduta dei Golden, il nuovo romanzo di Salman Rushdie, sempre più spesso si comincia a saltare alla foto dell'autore e alla sua smorfia sorniona nel risguardo di copertina, un po' da satiro e un po' da furetto, quasi l'espressione scaltra di qualcuno che in qualche modo è riuscito a fregarti, un viso e una voce che sovrastano a tratti quelli del narratore René fino a sovrapporsi completamente a essi. È uno dei limiti più vistosi di un editing se non nullo, probabilmente soggiogato dalla debordante personalità dello scrittore indiano che non si trattiene mai da “bucare” il diaframma che separa l'autore dal lettore, spesso con suppellettili verbose di poca sostanza, se non apertamente banali e spacciate per perle di saggezza, quando non si tratta di puro autocompiacimento stilistico. Ambizioso nelle intenzioni di scrivere un vero e proprio romanzo americano (sia nella struttura e nello stile sia nel contesto specifico dell'intreccio/pretesto), l'escamotage narrativo con cui Rushdie dilaga e divaga per offrirci la sua visione sull'America attuale, da Obama fino all'avvento di Trump il presidente pagliaccio – come è anche rappresentato nei Golden – è quello della pseudo saga familiare. In questo caso la famiglia è quella del ricchissimo ed eccentrico uomo d'affari Nero Golden e dei suoi altrettanto eccentrici figli, che si trasferiscono a vivere nello storico e prestigioso quartiere MacDougal-Sullivan Gardens di New York nell'anno della prima amministrazione Obama.

 

Il patriarca è il vecchio Nero (traduzione inglese di Nerone, non inteso in senso cromatico), originario di Mumbai e rimasto vedovo dopo la serie di dieci attentati terroristici simultanei nel 2008 (quasi duecento morti). Dalla moglie Nero ha avuto solo i primi due figli Petronius e Apuleius (o Petya e Apu) mentre il più giovane Dionysus, o come lui stesso accorcia solo in D., è il figlio avuto da una prostituta pagata da Nero per non farsi più viva dopo averlo dato alla luce – situazione nota a tutti in casa Golden. Questi i personaggi principali, a cui si aggiungono il narratore René, sceneggiatore e aspirante regista che ha intenzione di scrivere un film sui Golden, e che passerà nel corso del romanzo da spione ad amico fino a padre artificiale dell'erede del vecchio Golden donando il seme per la sua giovane nuova moglie russa; e infine lei, appunto, Vasilisa, che circa a un terzo del libro entra di prepotenza come regina della residenza di famiglia ai Gardens. Sì, ma qual è l'allegoria che si nasconde sotto questa pseudo storia di famiglia? A dire la verità, non è mai del tutto chiaro; il fine (o l'intento) dell'affresco americano di Rushdie è dissipato da deviazioni lungo la strada che spesso finiscono in vicoli senza uscita prima di imboccare di nuovo un percorso narrativo più regolare quando René entra in scena. 

 

La caduta dei Golden è un calderone in cui Rushdie riversa e mescola citazioni una dietro l'altra, un repertorio di nozioni che a volte sembrano copiate da ricerche su Google più che ponderate e – soprattutto – avallate per finire nella bozza definitiva di un romanzo di questa portata. Almeno per un autore come Rushdie. Ma anche qui, viene da chiedersi se sia più giusto e onesto considerarlo uno scrittore famoso più che un grande scrittore (e poi forse è più questione di quando considerare grande uno scrittore), passato più alla vetta per la fatwa che per i versetti satanici che gliel'hanno infaustamente procurata. In questo romanzo c'è davvero di tutto, da Fitzgerald (Gatsby) e Waugh (Ritorno a Brideshead) all'atmosfera di agio estremo e rigore decadente dei Buddenbrook, con feste di lusso e mondanità sfrenata che si riducono a un vuoto elenco di citazioni di nomi, marchi e raffinatezze elitarie dove sembra quasi scimmiottare Glamorama di Bret Easton Ellis, che certi ambienti forse li conosce meglio di Rushdie (come nella scena del party a casa Golden in cui Petronius si accorge ormai troppo tardi di avere fatto una figuraccia di fronte a Eric Idle, uno dei Monty Python invitato alla festa e un cameo decisamente inutile), o i romanzi e racconti di Jay McInerney, oltre a Tom Wolfe o persino Preghiere esaudite di Capote per la feroce satira sociale con cui riveste alcune descrizioni dell'intellighenzia newyorkese. Si passa dalla mitologia greca e latina ai videogiochi (Petya Golden, primogenito di Nero con la sindrome di Asperger, è anche un geniale game designer) ma sembra sempre ci sia qualcosa fuori posto, male organizzato. Scelte inspiegabili come quelle di citare personaggi famosi senza nominarli (Spike Lee, per esempio, descritto come il-famoso-regista-di-colore-che-porta-sempre-il-berretto-da-baseball) mentre Werner Herzog – tra gli altri – si merita addirittura una battuta di dialogo; dalla riproduzione di un intero paragrafo di un dramma di Somerset Maugham (Sheppey) al fatto che vada avanti decine di pagine riferendosi a Mumbai come alla città innominabile, e dopo averlo rivelato continui a chiamarla così... ma perché?

 


C'è qualcosa fuori posto, ed è un problema che non dipende certo dall'ottima traduzione di Gianni Pannofino. Se da una parte all'inizio Rushdie riesce a incalzare il lettore con un dosaggio equilibrato tra uno stile di genere (la cronaca esterna della vita misteriosa di sconosciuti, in pieno stile Hitchcock della Finestra sul cortile) e qualche affondo in divagazioni più sofisticate e colte, appena devia dal fuoco principale si perde in un oceano di artificiosità che sfocia nel ridicolo. Per fare un esempio: a un certo punto D., il figlio minore dei Golden, che vive con sofferenza la propria natura sessuale ambigua, tramite la cantante di night Ivy Manuel conosce la splendida Riya, metà svedese e metà indiana, che lavora come curatrice museale. Riporto di seguito l'intero brano:

 

Sin dal primo incontro (…) lui capì che era inutile tentare di nasconderle qualcosa, perché lei era in grado di leggergli nel pensiero come se lui avesse una striscia illuminata di notizie che gli scorrevano in fronte.

«Ivy diceva che dovevamo vederci» disse lui. «Io credevo fosse un'idea stupida.»

«Perché sei venuto, allora?» disse lei, guardando altrove con aria annoiata.

«Volevo vederti, per vedere se avevo voglia di vederti» ribatté lui. Questo suscitò in lei un interesse, ma vago, o così parve.

«Ivy mi ha detto che la tua famiglia vive in un esilio di cui non vi va di parlare» disse lei. Gli occhi grandi come il mare. «Ora che ti vedo, però, mi rendo conto di come tu sia probabilmente in esilio da te stesso, forse addirittura dal giorno in cui sei nato.» Lui si accigliò, chiaramente infastidito. «E tu come lo sai?» le domandò, secco. «Sei la curatrice di un museo o una sciamana?»

«C'è un tipo particolare di tristezza» rispose lei, aspirando dalla sua Gauloise, somigliante ad Anna Karina in Pierrot le fou, «che rivela l'alienazione di un uomo dalla propria identità.»

«Questa moderna ossessione per l'identità mi dà il voltastomaco» disse lui, con enfasi forse eccessiva. «È un modo per rimpicciolirci finché diventiamo alieni gli uni per gli altri. Hai letto Arthur Schlesinger? Lui è contrario alla perpetuazione dell'emarginazione prodotta dalle rivendicazioni di diversità.» Lui aveva un trench e un fedora a tesa floscia, perché l'estate era alle viste, ma non era ancora arrivata, come una donna che faccia bugiarde premesse d'amore.

«Ma è quello che siamo, alieni, tutti quanti.» Una lieve scrollata di spalle e un accenno di broncio. «Il punto è diventare più precisi sul tipo di alieno che decidiamo di essere. E comunque, sì, l'ho letto quel vecchio defunto etero e bianco. Tu dovresti leggere il lavoro di Spivak sull'essenzialismo strategico.»

 

Perché questo brano in particolare? Perché esprime, per quella che è stata la mia esperienza di lettura, il vizio fastidioso di farcire la narrazione con situazioni palesemente ridicole, quasi da macchietta, o al massimo rimandi malinconici e poco originali ad altri tempi ed espressioni culturali come, in questo caso, la nouvelle vague; dall'atteggiamento all'abbigliamento di D. e Riya (“Lei indossava una camicetta bianca e una gonna nera a tubino e fumava una sigaretta francese senza filtro sul marciapiede davanti al Museum of Identity”) che sembrano ripescati da una scena scartata da qualcosa (qualsiasi cosa) di Rohmer dei tempi d'oro, ma ormai fuori tempo massimo. Non so cosa cerchino gli altri da un primo appuntamento con qualcuno, ma se trovassi una ragazza che mi parla di Spivak e maltratta Schlesinger come se fossimo due studenti che si interrogano a vicenda prima di entrare a sostenere un esame, me la darei a gambe levate. Come, nemmeno il tempo di sedersi a bere un caffè? Come ci siamo arrivati a Spivak senza manco presentarci? È tutto poco credibile, sembrano dialoghi di millennials arroganti che hanno letto qualche libro e pensano di essere meglio dei loro maestri. Se c'è una critica sociale di fondo, Rushdie la seppellisce sotto una colata di simpatia verso i suoi insopportabili personaggi radical chic, ed è questo il pubblico a cui si rivolge La caduta dei Golden. Vuole essere un'allegoria dell'America di Trump? Non basta mettere il presidente dal ciuffo cotonato tra i personaggi con un altro nome, farlo nascere con i capelli verdi e chiamarlo Joker (e tante grazie a Bob Kane).

Una pagina più in là, a proposito dei loro nomi abbreviati: Riya Z. (per Zachariassen) e D. (per Dionysus Golden) a corredo di questo primo appuntamento davvero ridicolo, Rushdie chiosa con la frasetta – isolata nel capoverso successivo come una vera chicca da bacheca di Facebook:

 

“L'alfabeto è dove hanno inizio tutti i nostri segreti”.

 

Non è dato sapere perché, visto che la scena prosegue con la visita di D. al museo di cui è curatrice Riya Z., quindi nessun accenno alla mistica dell'alfabeto e ai 22 segni ieratici di quello egiziano o i 22 di quello ebraico (giusto per dire), insomma niente che spieghi perché Rushdie abbia deciso di inserire una banalità simile se non per il suono evocativo, da biscotto della fortuna nobilitato. E purtroppo il testo è un campo minato di esempi simili; a un brano fluido e potente ne segue subito un altro – magari solo frasette sciolte come quella riportata sopra – che rovina tutto, come un ottovolante che alterna picchiate da brivido a noiosissimi tratti in piano, e che alla fine occupano la maggior parte della corsa. Un altro esempio, sempre con i due protagonisti della scena sopra, la mattina dopo a colazione dopo avere trascorso la notte insieme:

 

«Credo di essere innamorato di te» disse lui. «Però vorrei sapere perché hai una pistola dentro il tavolino in anticamera.»

«Per sparare agli uomini che credono di essere innamorati di me» rispose lei. «E magari anche a me stessa, ma su questo punto non ho ancora preso una decisione.»

 

Ma è Rushdie o Tarantino sotto anestesia? Questo soffuso nichilismo fa venire in mente i cattivi del Grande Lebowski più che una profondità di ragionamento del personaggio (o peggio dell'autore). L'Accademia di Svezia, che preferisce i cantautori agli scrittori americani (ogni riferimento a Roth è voluto), reputati “isolati e provinciali”, probabilmente darà il suo premio a Rushdie, che ha scritto una sua versione del grande romanzo americano da immigrato di lusso, in cui cerca di sondare il concetto di “identità” (di razza, sesso e cultura) attraverso personaggi più simili ai Tenenbaum che a modelli letterari più alti, e per questo così sopra le righe da essere quasi respingenti. Un grande romanzo del 1893, Maggie di Stephen Crane, ambientato sempre a New York ma nei “tenements” popolari della Bowery, nel cuore di Manhattan (dalle parti di St. Mark's Place, dove oggi si trova la statua dedicata a Joey Ramone, vecchio quartiere storico del punk newyorkese che gravitava intorno al club CBGB) tra immigrati italiani e irlandesi sbarcati da piroscafi traboccanti, non scesi dalla business class e che si lamentano di ogni cosa, trattava il tema dell'identità e delle differenze tra le generazioni provenienti da un altro mondo e un'altra cultura con una modernità e senza troppi, inutili artifici stilistici, e fornisce ancora oggi un ritratto dell'America molto più schietto dell'arazzo scomposto tessuto da Rushdie.

 

 

Salman Rushdie, La caduta dei Golden, Mondadori, 2017, pagg. 452, € 23,00, trad. Gianni Pannofino.

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