Contro-finzioni in mediarchia
0.1 E se la democrazia non potesse né esistere né mantenersi, ma solo (forse?) sgorgare come una tensione, una contestazione, un movimento che si solleva contro – contro un regime oppressivo, contro un'ineguaglianza di fatto, contro un gesto scandaloso, contro un sistema degradante? Ovvero: e se essa potesse costituirsi come modo di autogoverno solo su scala piccolissima? Dieci persone? Venti? Cento, ma proprio al massimo? Certo non di più! Allora perché ostinarsi a parlare di "democrazia" per riferirsi a un sistema di governo applicato alla scala gigantesca di una metropoli, una regione, una nazione, un continente? Un "popolo"? (Come se chiamare in causa il "popolo" non abbia provocato di solito effetti disastrosi...) Perché continuare a illudersi, a non vedere l'evidenza dell'inganno di ciò che chiamiamo "democrazia"? (Al diavolo la "democrazia"!)
Come non vedere che il nostro regime attuale non è caratterizzato dal "potere del popolo" ma dal "potere dei media" che innervano le moltitudini di cui è composto il preteso popolo? Smettiamola di non vedere. Guardiamo il funzionamento del potere in faccia: nella violenza di cui fa uso per tenere in piedi le dominazioni ereditate dal passato e nelle mediazioni (oggi i mass-media) che mobilita per minimizzare questo ricorso alla violenza. Mettiamo al bando la parola democrazia per designare i nostri regimi politici, rimpiazziamola con un'altra parola meno ingannevole – e diciamo che viviamo in mediarchia.
0.2 Abbiamo davvero bisogno di finzioni in mediarchia? Non ne abbiamo già pieno ogni pertugio, non siamo già satolli fino al gozzo, intubati fino al midollo, con gli occhi, le orecchie e la testa saturi di storie che alcuni pretendono essere ancora vere, che certi si abbandonano alla facilità di credere, ma di cui tutti sanno, in fin dei conti, che sono state arrangiate, calibrate, formattate per adeguarsi esattamente al canale che le fa circolare e nei 58 secondi che sono stati loro assegnati?
Perché diavolo dovremmo domandarne di nuove, di finzioni, dal momento che non c'è altro ovunque ci si giri? I matrimoni reali? Finzioni! Le partite di pallone? Finzioni! Le guerre per “restaurare la democrazia”? Finzioni! Lo sviluppo durevole? Finzione! Il cambiamento è adesso? Finzione! La fine del tunnel, la ripresa della crescita, l’inversione della curva della disoccupazione? Finzioni! (Al diavolo le finzioni!)
Abbiamo davvero bisogno di Superman 17 o di Free Willy 23? Di un ennesimo violentatore sadico da braccare e neutralizzare? Di un altro pianista ebreo che fugge la Gestapo? Di un’altra storia di infanzia soffocata da un padre abusatore? Non ne abbiamo già ingoiate in tale abbondanza da avere finalmente il diritto di vomitarle, tutte queste storie miserabili, nauseabonde a furia di ripetizioni, compiacimento, pathos da paccottiglia, intriso di musica sciropposa? E più una pretende di essere una “storia vera”, maggiore è la puzza di finzione che invade le narici! E allora grazie, no, potete tenervele, le vostre finzioni. In mediarchia, dateci tutto tranne che finzioni!
0.3 Di fatto: non dateci niente! Noi non vogliamo niente! Soprattutto finzioni, ma nemmeno granché d’altro. Non ci dispiacerebbe un po’ di silenzio. Il contrario di una storia. Qualche parola, tutt’al più! Ma niente storie, soprattutto niente storie! (Al diavolo le storie!) Qualche cosa! Una “cosa”: un pezzo di materia, un blocco di sensazioni che abbia la consistenza di una cosa. Qualcosa che non sia solo “immaginario”. Qualcosa di “vero” (per quanto ingenuo e osceno possa sembrare)! Qualcosa di “autentico” (per quanto ridicola e intempestiva sia questa parola). Un gesto, un atto, un movimento, un piccolo brandello di muro sul quale si farebbe un piano fisso, senza musica, o se proprio, solo7 minuti e 27 secondi dopo l’inizio dell’inquadratura, poche note rauche e profonde di un clarinetto basso, con quel sentimento di strappo che sapeva dargli Eric Dolphy. Che vi si senta, soprattutto, la grana della realtà, l’esitazione di una fragilità che sta improvvisando la propria sopravvivenza – in breve, per l’ennesima volta, tutto tranne che una finzione. Contro l’immaginario che regna in tutte queste storie insopportabili, noi aspiriamo all’assoluto contrario di tutte le finzioni con cui siamo stati ingozzati in regime di mediarchia – noi abbiamo una sete infinita di contro-finzioni vere.
1. Dove le troveremo queste contro-finzioni vere? Primo principio, fondamentale: soprattutto non si deve inventarle. (Al diavolo l’invenzione!) Tanto per cominciare si deve preservare o instaurare un po’ di silenzio, in modo che la realtà concreta diventi infine un po’ udibile. L’immaginario mediarchico è assordante. Annega tutto nel suo brodo assordante. Con i progressi tecnici, l’avvento del digitale e dell’alta definizione, la mediarchia cancella anche il rumore che facevano ancora la puntina sui solchi del vinile (scratch, scratc, scratch), il sibilo del nastro magnetico (sshhhh), il rumore bianco che ci svegliava la sera quando ci addormentavamo davanti alla tv mentre l'effetto neve riempiva lo schermo dopo la fine dei programmi (kkkrrrrrrr).
I programmi non hanno più fine: siamo immersi nell'assenza di rumore e nell'assenza di silenzio 24 ore su 24, senza remissione. Donde una prima sinuosità contro-finzionale (dato che non crediamo alle "regole", né alla loro arrogante "dirittura", ma preferiamo loro le curve, e la loro maldestra "stortura"): LA PRIMA COSA DA FARE È SILENZIO – perché torni ad essere udibile il rumore. Questa prima sinuosità presenta almeno quattro possibili curve: 1° smettere di contribuire all'immaginario dominante che ci assorda con le sue finzioni; 2° farsi appello a vicenda a coltivare il silenzio (paradosso evidente di una parola che chiede il silenzio, paradosso in tutta evidenza ridicolo, ma ineluttabile: non si può non comunicare); 3° conservare il silenzio da soli (attitudine tra tutte la più pura, ma non per forza la più giustificata); 4° far tacere tutte quelle schifezze di macchine massmediatiche che ci cullano con le loro storie asettiche (farle tacere con tutti i mezzi necessari, esclusa la violenza sulle persone).
2. Non c'è bisogno di inventarle, queste contro-finzioni vere ci sono già, sotto il nostro naso o alle nostre spalle, ai margini della strada o sotto i nostri piedi. Non c'è nessun bisogno di "immaginarle". (Al diavolo l'immaginazione!) Basterebbe vedere ciò che è sotto i nostri occhi, ascoltare ciò che è sotto la muzak – ma che le finzioni, le storie e l'immaginario dominante ci impediscono di guardare e sentire, catturando la nostra attenzione in macchine narrative disperatamente ben oliate. Dopo aver fatto silenzio, quindi, pian piano un po' di rumore ricompare, una seconda sinuosità contro-finzionale può risalire alla superficie: IL SECONDO BISOGNO È FARE ATTENZIONE.
Dando il senso più forte al verbo "fare", poiché è la prima fonte e molla di ogni attività: non potremo "fare" niente di significativo se non dopo aver cominciato a "fare attenzione" a blocchi di sensazioni da identificare nel flusso di dati che si offrono incessantemente ai nostri sensi. Il potere dei media risiede precisamente in questo: essi effettuano ritagli preventivi per noi nel flusso dei dati sensoriali. Una storia è esattamente questo, come aveva ben visto Aristotele: un ritaglio predisposto, con un inizio, un mezzo e una fine. Si "fa attenzione" solo quando si devono operare dei tagli in tempo reale. Soltanto allora si diventa (un po') registi della nostra vita, invece di essere (solo) spettatori. Si diventa "cineasta – "regista" (réalisateur) – perché si deve contemporaneamente filmare la propria vita, tararne la bilancia, ritagliarla e rimontarla in relazione al modo in cui il mondo prende forma attorno a noi, con noi e attraverso la nostra partecipazione.
È durante questo lavoro di regia ("réalisation") in tempo reale che il rumore del mondo ci appare in tutta la sua caotica eterogeneità, con il suo stridore di denti, i suoi sospiri, le sue crisi di angoscia, i suoi ticchettii, i suoi scricchiolii, i rumori degli aerei di passaggio, le sirene delle ambulanze, gli scoppi di risate, di voci e talvolta di obici (non troppo vicino a noi in linea di massima, fino ad ora almeno, e per fortuna!). Sia chiaro, lo spettatore emancipato di Jacques Rancière ha ragione, siamo in questa posizione di registi non appena facciamo attenzione a qualcosa, fosse pure un episodio di Friends, una canzone di Lady Gaga o un gioco televisivo. Ma vi facciamo davvero attenzione? Non è tutto già fatto in modo che gli spettatori non debbano fare attenzione di loro iniziativa? Il fondamento alienante dei mass-media risiede proprio in questo: la mediarchia fa la (nostra) attenzione per conto nostro. Agire contro di essa comincia quindi con questo: Fare attenzione (per conto di) noi stessi.
3. Come non fabbricare niente? La questione va intesa nel suo doppio senso: 1° come non fare un cavolo di niente? 2° come non gonfiarsi dell'arroganza del "creatore" (homo faber), fiero di proiettare sul mondo la grossolanità del proprio piccolo io? (Al diavolo i creatori! Al diavolo la "classe creativa", anche se ne facciamo probabilmente parte, voi e io!) Non fabbricare niente: è esattamente questa la sfida delle contro-finzioni vere (si veda Straub&Huillet che leggono Cézanne). Il silenzio e l'attenzione mirano a questo: non soffocare il reale sotto la proiezione delle nostre piccole storie, non trasformarlo in modo da riconoscervi solo ciò che ci fa comodo di vedervi.
Donde una terza sinuosità contro-finzionale, che invita a sposare il reale per non soffocarlo: IL TERZO SFORZO È ACCOGLIERE LE FORME. Non fabbricarle: raccoglierle. È per questo che facciamo appello a contro-finzioni: per andare contro il fingere che inserisce sempre una finta nel gesto di fabbricare. Tim Ingold ci aiuta a respingere sia la fabbrica (a rimorchio della mediarchia) che il creatore (dalla singolarità egomaniaca), per valorizzare invece l'attitudine dell'artigiano, la cui arte consiste nel seguire le vene del legno già tracciate nel tronco, ma percepibili solo dopo un paziente lavoro di sensibilizzazione e attenzione, incorporato sotto forma di abitudine e intuizione. La contro-finzione sarà "vera" (e propriamente contraria al fingere) se e perché sarà giunta non a imporre forme a un materiale inerte, ma a rivelare le forme proprie a questo materiale, ad accoglierle, a raccoglierle, a "instaurarle" nel seno di un modo superiore di esistenza (come dice bene Étienne Souriau).
4. Questo sembra condannare il gesto stesso di finzionare (fingere), se esso implica di far vedere ciò che non è dato. Tuttavia il problema è ancora più profondo: non è tanto la finzione quanto il narrativo che fa ostacolo all'accoglienza delle forme, per il fatto che lui stesso è proiezione di forme (inizio, mezzo, fine, programma attanziale). Le storie ci impediscono di vedere le cose irregimentandole in schemi di azione. Come diceva Gilles Deleuze riprendendo Bergson, oggi si può vedere qualcosa solo spezzando i cliché imposti dalla mediarchia, cliché che non vengono (solo) da un progetto generalizzato di scervellizzazione, ma che emanano necessariamente dal legame funzionale tra percezione e reazione intrecciati dai nostri schemi senso-motori.
Andiamo al cinema, a teatro, al museo, ai recital di poesia per sospendere i gesti abituali, diventati quasi-istintivi, che sono alla radice dei nostri cliché. La visione – in ciò che ha di più forte e di più trasformatore: una veggenza che vede al di là di ciò che ci è dato da vedere nei parametri funzionali della percezione – implica la sospensione dell'azione nella misura in cui di solito non è altro che una reazione a un evento ricondotto al già noto. Donde una quarta sinuosità contro-finzionale, come è illustrata dall'interesse di Barthes per gli haiku, dal cinema di Straub e Huillet successivo a Trop tôt, trop tard, dai micro-film di François Roux, dal Jaurès di Vincent Dieutre, dal Tarnac di Jea-Marie Gleize: LA QUARTA FORMA DI IGIENE ESTETICA È LIBERARE LA DESCRIZIONE DALL'INFLUENZA DELLA NARRAZIONE.
Ogni azione è per essenza narrativa: abbiamo una certa situazione (inizio), vi si inietta una certa operazione (mezzo), nella speranza di effettuare una certa trasformazione (fine). È la proiezione di uno schema del genere che permette (e impone) di semplificare l'infinita diversità del reale filtrandola attraverso criteri di pertinenza. Ma così il reale finisce per ridursi a priori a ciò che abbiamo intenzione di farne. Vi viene percepito solo ciò che offre presa (le sue affordances) alle nostre azioni preconcette (che lo riducono a cliché). La sfida estetica consiste a intravedere affordances di cui non si pregiudica la pertinenza. Descrivere invece di raccontare. Per risalire al di qua dell'azione, verso il possibile offerto da affordances delle quali le nostre pertinenze preesistenti selezionano solo alcuni tratti (di solito gli stessi). O semplicemente per vedere ciò che è reso invisibile dai nostri bisogni di reazione. Descrivere le cose senza pregiudicare ciò che se ne potrà fare. Impossibile, ma necessario: difficile e raro.
5. Soltanto qui, forse, non sarebbe assurdo parlare di democrazia – ma a un livello di generalità ontologica che dissolve a priori ogni nozione tradizionale di "popolo", salvo nel caso in cui questo termine designa il "popolo delle cose mute" evocato da Jacques Rancière. Accogliere e raccogliere le forme implica un lavoro di sistemazione – non nel senso di pianificazione del territorio sottomesso al diktat dei miei bisogni, ma di riconfigurazione dei miei gesti per insegnar loro a rispettare le salienze e i conatus propri degli esseri che mi circondano. Democrazia "radicale", quindi, anche tra esseri sradicati: ognuno di noi (spazzino, musicista, sportivo, aquila, orso, ciliegio) ha bisogno di un certo spazio di manovra in cui tracciare percorsi e fare gesti senza essere ostacolato da altri.
Ognuno/a, ecosistema in un ecosistema, deve imparare fino a dove non andare troppo lontano: ecco il primo campo di esercizio di questa democrazia radicale. Donde una quinta sinuosità contro-finzionale, che partecipa tanto più di un ideale democratico per il fatto che si limita a dispiegarsi su scale modeste: IL QUINTO LIMITE È FAVORIRE L'INTRECCIO ORIZZONTALE DEI CONATUS. Se l'aspirazione democratica ha un senso, bisogna cercarlo nella speranza di costituire strutture verticali di potere che "rappresentino" fedelmente questo intreccio orizzontale delle potenze, intreccio che rientra nel campo della giustizia nella misura in cui essa è una forza di adeguamento reciproco. Non appiattire tutto, e nemmeno dare per forza a ciascuno/a la stessa cosa: l'aquila non ha gli stessi bisogni del ciliegio o della musicista. Ma istituire le strutture che diano a ciascuno/a lo spazio vitale massimo compatibile con i bisogni di coloro che coabitano nello stesso ecosistema.
Le ultime due sinuosità presentano la stessa curvatura: ciò di cui si tratta, è appunto di accogliere in seno alle mie forme di vita i gesti delle altre forme di vita con cui spartisco il territorio – minimizzando le mutilazioni imposte ai differenti partner. Una democrazia come questa è un'aspirazione in un certo modo impossibile (ma nondimeno necessaria in seno alle società umane) – ogni passeggiata in campagna schiaccia dei fili d'erba. L'oppressione deriva dalle differenze di scala: un elefante schiaccia un formicaio, un capitalista acquista un'industria – ma anche: un virus decima una popolazione.
6. La democrazia è quindi un certo lavoro sulle frontiere. Fino a dove potete spingervi? Nessuno può rispondere in astratto a una domanda del genere. Né l'elefante, né la formica, né il virus, né il capitalista, ciascuno quanto a sé. La democrazia radicale è l'equilibrio delle pressioni – con tutti i mezzi necessari: conferenze del consenso, minacce di sciopero, ricatti di licenziamento, rottura di vetrine, linciaggio di notabili. Tutto, incluse le peggiori tirannie, si è sempre basato su questa democrazia radicale, perfettamente descritta da Étienne de La Boétie. Attiene alla realtà, che non è sempre bella da vedere. Quando ci si riferisce alla democrazia come a un "ideale" – o meglio: a una aspirazione – si intende qualcos'altro: una struttura di mediazione attraverso lo scambio di parole. (Siamo già in una forma di mediarchia, quindi.)
Emerge così una sesta sinuosità contro-finzionale: poiché gli uomini possono diventare e restare umani solo gli uni attraverso gli altri, LA SESTA CONDIZIONE È PARLARE-CON PER CONTINUARE A POTER FARE-CON. La legge dell'ecosistema è che non si può non fare-con. In linea di massima si parla-con-altri dopo che ci si è accorti che si è già cominciato a fare-con lei o lui – attualmente (ne dipendiamo) o virtualmente (potremmo trarne beneficio). La democrazia in quanto aspirazione mira a questo: fare in modo che le persone si debbano parlare per organizzare le loro interazioni. Fino a che si può agire-su senza dover parlare-con non c'è democrazia. Quindi in generale non c'è molta democrazia, e non dobbiamo stupircene. Il più delle volte io agisco-su senza dover parlare-con – e va benissimo così: siamo già così chiacchieroni, c'è già tanta di quella comunicazione in giro, il silenzio è già talmente raro che è il caso di rallegrarsi (come di un miracolo) di ogni co-azione che non faccia lanciare grida, lamenti, rivendicazioni o ciance. Quel che importa è che i nostri gesti e i nostri percorsi trovino modo di comporsi, per riprendere il bel termine mobilitato da Bruno Latour nel suo "Manifesto composizionista".
E questa composizione, nella stragrande maggioranza dei casi, va da sé, per il nostro genio intuitivo del mutuo aggiustamento – quello stesso che spiega il numero infinitamente piccolo di collisioni tra i passanti anche in una strada sovraffollata. Facciamo costantemente attenzione gli uni agli altri per non aggredirci in continuazione. La democrazia è solo un raffinamento marginale che aiuta a assorbire o a prevenire gli urti. L'inglese parla di shock-absorbers per designare gli ammortizzatori delle automobili: i veicoli possono circolare senza ammortizzatori, ma sono condannati ad essere meno confortevoli, ad andare meno veloci e a rischiare in maggior misura di uscire di strada. Da questo punto di vista (ma ce ne sono altri), la democrazia è un ammortizzatore fondato sulle virtù dello scambio di parole – e per questo il "parlare politicamente" di Bruno Latour e "l'agire comunicativo" di Jürgen Habermas sono molto meno distanti di quanto essi non siano disposti ad ammettere.
7. Ecco la ragione per cui è meglio parlare di sinuosità, piuttosto che di "regole". Passiamo il nostro tempo a contraddirci: bisogna fare silenzio e bisogna parlare-con. Il filosofo analitico denuncia un vizio di logica (e estrae il suo revolver per ostracizzarci dalla colonia penale filosofica). (Al diavolo il principio di non-contraddizione!) Non c'è da aver vergogna: bisogna imparare a dire tutto e il contrario di tutto, perché tutto e il suo contrario rischiarano una parte della verità che nessuno raggiungerà mai. Da qui l'interesse di consultare tutti, cognato incluso. Impossibile fissare il mirino in una sola direzione, anche per un solo istante. Impossibile seguire delle ingiunzioni in modo "diretto", rigido, rigoroso, rigorista. (Il pensiero che ci conviene è rigorosamente mal-destro.) Bisogna piegare in ogni direzione, piegarsi, piegare le cose, le regole, la verità. Si piega un foglio di carta facendolo ritornare su se stesso, contro se stesso (contro-finzione). Invece di andare dritto in avanti, ritorna indietro, in direzione opposta: si contraddice.
Contraddiciamoci. Dal momento che non c'è agire umano se non collettivo, transindividuale, noi non possiamo che fare-con, ciò che implica di dove parlare-con. E tuttavia, settima sinuosità contro-finzionale, ogni pensiero richiede un momento di isolamento dai flussi di comunicazione. Come diceva perfettamente Charles Tiphaigne, riusciamo talvolta (raramente) a essere qualcos'altro che "simulacri", solo nella misura in cui abbiamo l'occasione di "pensare a parte", condizione indispensabile perché lo "spirito universale" (mass-mediatico) che incessantemente ci attraversa possa distillarsi in una "anima ragionevole" (singolarizzante).
LA SETTIMA RIVENDICAZIONE È BENEFICIARE DI UN VACUOLO PER PENSARE-A-PARTE.Si pensa sempre indissociabilmente con e contro – con e contro coloro che abbiamo letto, visto o ascoltato, con e contro coloro da cui speriamo di essere letti, visti o ascoltati. Nessuno, quindi, può pensare da solo. E tuttavia, non si pensa veramente che a parte. Le idee più belle forse vengono a molti, emanate senza dubbio dalla comunicazione stessa – come si è tanto contenti di dire a proposito dei miracoli compiuti da questi nuovi Santi digitali che sono "le reti". E tuttavia la comunicazione stessa si nutre solo di ciò che per forza sarà già stato elaborato in occasione di molteplici persieri-a-parte. È appunto per questo che bisogna parlare di composizione – piuttosto che di fusione. Non fidiamoci finché ci sarà bisogno delle devastazioni delle ideologie e metodologie individualiste: l'individuazione è un momento essenziale dei divenire umani, che hanno bisogno di costituirsi a parte, isolati da una membrana filtrante, dentro "una stanza tutta per sé".
8.1 La contraddizione apparente tra bisogno ineluttabile di fare-con/parlare-con e quello di pensare-a-parte invita a distinguere tre modi di composizione dei conatus umani, e tre forme di democrazia – difficilmente separabili nelle realtà concrete, ma utili da distinguere nell'analisi delle situazioni. Le decine di migliaia di corpi che si incrociano quotidianamente nei corridoi della Gare Saint Lazare producono solo un numero sbalorditivamente piccolo di collisioni, mentre la loro densità e la complessità dei loro movimenti è propriamente inconcepibile. I loro gesti individuali si compongono in flussi transindividuali relativamente fluidi in una maniera spontanea che genera un certo modello di democrazia: nessuna autorità che venga a imporre la sua tirannia dall'alto, solo sensibilizzazioni orizzontali che si auto-aggiustano al microsecondo lasciando quasi sempre a ciascuno (giusto) abbastanza spazio per non soffocare e per continuare a procedere dove vuole. Ritratto della democrazia come banco di pesci.
Precisiamo meglio. Su cosa si regge questa composizione di movimenti? Sul fatto che ogni corpo è un ostacolo per gli altri. La composizione qui è il risultato dell'arte di schivare gli altri, che appaiono a ognuno come dei potenziali investitori. Per ciò che mi concerne (passare da una linea di metrò a un'altra), un virus o una bomba a neutroni che ripulissero la gara dall'ingombro di tutti questi corpi sarebbe pura benedizione: arriverei più in fretta, più calmo e più direttamente sulla banchina che cerco – senza aver imprecato contro i vecchi che trascinano i piedi, gli esitanti che bloccano il flusso, i mal lavati che puzzano di caprone ecc. Certo, appena arrivato sulla mia banchina rimpiangerei gli effetti devastanti del virus, dal momento che non ci sarebbe più nessuno a guidare il mio metrò... Ma durante il mio spostamento nei corridoi, tra le due banchine, la composizione del movimento collettivo dipende da una logica che tratta l'altro come ostacolo. Ritratto della democrazia come biglie in un imbuto. Grado minimo: si tratta semplicemente – anche se è tutto salvo che semplice – di non distruggersi a vicenda.
8.2 Cammino nei corridoi della Stazione Saint Lazare contando sul lavoro di conducenti di metrò in buona saluto che mi aiuteranno a raggiungere la mia destinazione finale. Lo sconosciuto che guida il convoglio, come coloro che l'hanno pulito durante la notte, come coloro che l'hanno fabbricato, come coloro che generano l'elettricità di cui necessita per funzionare, non sono degli ostacoli per me. Tutto al contrario sono degli "aiutanti", come direbbe la semiotica della narrativa, altrimenti detti collaboratori. Noi lavoriamo insieme: loro per far circolare metrò puliti, io per andare a far lezione ai loro figli. Così siamo tutti i panettieri, i ciabattini, gli infermieri, gli insegnanti, i poliziotti, gli idraulici, gli spazzini gli uni degli altri, in quanto collaboriamo alla (ri)produzione della vita sociale.
Generalmente lo facciamo restando reciprocamente sconosciuti – come conoscere i milioni di persone da cui dipendono le nostre attività quotidiane? Non ci serve nemmeno essere "benevoli" gli uni verso gli altri: le leggi (dello Stato o del mercato) ci sono proprio perché il nostro pane quotidiano non dipenda dalla benevolenza del panettiere, ma dal suo interesse, naturalmente. (Questa almeno è la favola che ci raccontiamo a vicenda dal 1776.) Ritratto della democrazia come formicaio: i movimenti di sconosciuti reciprocamente indifferenti si compongono orizzontalmente per adeguarsi funzionalmente in modo di assicurare la sopravvivenza e il benessere di ciascuno. (Almeno in linea di principio, perché qui si tratta di democrazie a cui si aspira, non della realtà delle piccole tirannie e delle (op)pressioni quotidiane che si verificano a qualsiasi livello tra gli umani.)
8. E poi c'è l'amore... C'è amore quando si ha voglia di sottomettersi incondizionatamente a un essere che si suppone portatore di un potenziale singolare di cui si fa il proprio riparo per aggiustare, animare, dinamizzare, ridimensionare, riordinare i propri movimenti. Questo implica la collaborazione, certamente (così come, in linea di principio, la non-distruzione-reciproca), ma va ben oltre. L'amore si indirizza a un essere singolare con il quale si desidera coordinare i propri movimenti, perché si spera di poter comporre insieme forme di esistenza inedite e insospettate. Contrariamente alle collaborazioni anonime che mi consentono di adattarmi quotidianamente a milioni di altri lavoratori sconosciuti – attraverso "mediazioni" impersonali che costituiscono l'infrastruttura della mediarchia –, è solo desiderando di interessarmi alla singolarità del mio compagno/a che potremo insieme portare la nostra composizione di movimenti all'altezza dell'insospettato.
Ritratto della democrazia come insieme di improvvisatori. Dei musicisti possono collaborare a un disco; essi salgono di livello (lift the bandstand, come diceva Steve Lacy) solo quando una forma di amore li trascina al di là di loro stessi, spingendo ognuno di loro a intensificare la propria singolarità grazie alla loro interazione comune. Da questi tre modi di composizione democratica si può trarre una ottava sinuosità contro-finzionale, almeno se non rinunciamo all'aspirazione amorosa – rinuncia che invece sembra essere la direzione verso cui ci spinge una certa modernità neo-liberale il cui economicismo si monetizza in una rendita puramente funzionale: L'OTTAVO IMPERATIVO DI RESISTENZA È RIORIENTARE LE NOSTRE COLLABORAZIONI SECONDO LE NOSTRE ASPIRAZIONI AMOROSE. L'amore si fa nelle coppie e nelle relazioni affettive (compagnonnages) di ogni natura. Si nutre di entusiasmo artistico, passioni intellettuali, emozioni estetiche, militanze politiche. La sessualità nella sua forma prioritaria (ficcare prominenze in buchi) ne costituisce solo una minima parte – non necessariamente trascurabile, ma ridicolmente sopravvalutata dai nostri regimi mediarchici, che ne traggono inesauribili fonti di profitto.
9. Anche stavolta potrà sembrare che le sinuosità facciano marcia indietro, tornino su ciò che hanno affermato, si contraddicano. Abbiamo appena affermato enfaticamente: nessun bisogno di altre finzioni in mediarchia, ce ne sono già troppe! Tutto, ma non finzioni, per pietà! Descrizione, non narrazione! E silenzio, soprattutto silenzio! Avevamo ragione. E avevamo torto. Tutto e il suo contrario sono sempre veri. Soprattutto il suo contrario, perché di solito vederlo è molto più difficile. Facciamo dunque posto al contrario: contro-finzione. Abbiamo bisogno di contro-finzioni. Disperatamente. Però anche loro hanno un bell'essere contro, nondimeno restano delle finzioni. E dunque narrazioni.
Per fare cosa? Per contrastare ciò che opprime le nostre aspirazioni alla democrazia, per esprimere e rafforzare il nostro desiderio di non essere sottomessi. Ma anche per contrastare tutto ciò che riduce le nostre democrazie ai modelli delle biglie nell'imbuto e del formicaio. Abbiamo bisogno di contro-finzioni per animare, suscitare, dinamizzare, rafforzare, programmare azioni collettive basate sui nostri desideri di amicizia (compagnonnages) e di esaltazioni comuni. Dominiq Jenvrey lo ha espresso nel modo più efficace nella sua Théorie du fictionnaire. Abbiamo bisogno di finzionare per esplorare, intensificare, estendere il campo delle nostre aspirazioni amorose (fino ad amare in anticipo gli extraterrestri!). Donde una nona sinuosità contro-finzionale, che torna verso il nostro bisogno di narrazione come schema di azione intenzionale orientata verso la trasformazione del reale: IL NONO PRINCIPIO DI COAGULAZIONE DI PROGETTI COLLETTIVI È MOBILITARE LA DINAMICA NARRATIVA DELLE CONTRO-FINZIONI PER ANDARE CONTRO TUTTO CIÒ CHE SOFFOCA LE NOSTRE ASPIRAZIONI AMOROSE.
10. La mediarchia può essere estesa in molte maniere. Al di qua del regno dei massmedia colonizzati dalla logica pubblicitaria, al di qua dell'immaginario dominante che occupa i nostri cervelli e devia i nostri comportamenti per farli contribuire alla "fabbrica dell'infelicità" (secondo la bella espressione di Franco Berardi), la mediarchia è prima di tutto la potenza propria al medium in quanto tale. Ciò che serve da intermediario alle nostre comunicazioni non si risolve mai in modo trasparente nel messaggio comunicato (una "informazione"), ma esercita sempre una certa forma di malìa (envoûtement). E come una malia non risuona che sotto la topologia di una volta (voûte), allo stesso modo la mediarchia è un affare di mezzo (medium). Altra sinuosità apparentemente contraddittoria: l'attenzione rivolta alla mediarchia come potenza del mezzo si collega a quella per le salienze, all'accoglienza delle forme e alle esplorazioni delle affordances evocate più sopra.
La potenza dei media di massa deriva anche dalla loro capacità di sposare le forme (sempre mutevoli) dei pubblici a cui si indirizzano. Il problema, beninteso, è che queste stesse forme risultano da ciò che i massmedia proiettano sui loro pubblici, e che questa logica circolare è cortocircuitata dall'egemonia del profitto mercantile. Cionondimeno: non solo nessuno sfuggirà alla mediarchia (ed è perciò necessario imparare a rovesciare i suoi effetti nefasti, invece di spolmonarsi a denunciarli). Ma anche: il rimedio va cercato nel male (che non è mai un male in sé, ma solo un cattivo uso).
La decima sinuosità contro-finzionale andrà a cercare in uno sforzo di ri-mediazione ciò che serve ad aggirare gli sviamenti dei sistemi massmediatici attuali. In mancanza di silenzio, ogni medium suscita l'emergenza (quanto meno potenziale) di un certo rumore: è la radio che ci fa sentire i disturbi. IL DECIMO PRINCIPIO DI ESALTAZIONE PROPRIO DELLE ESPERIENZE ESTETICHE È FAR SENTIRE LA POTENZA DEL MEDIUM. Da almeno due secoli, da sempre forse, le pratiche artistiche ci insegnano a combattere i media, che impongono i loro messaggi cancellando la loro realtà di medium, focalizzando la nostra attenzione sulle proprietà inerenti al medium stesso – alla sua materialità, al rumore e ai disturbi che emette, a ciò che potremmo fare d'altro con i mezzi che esso ci offre. Le contro-finzioni saranno vere solo se faranno vedere la potenza del loro medium (piuttosto che nasconderla in una illusoria trasparenza). Potenza del timbro, della grana, del montaggio, della "scrittura".
11. Fare dell'avvento di Internet la soglia di un'era "post-media" è improprio. Come l'industria non ha abolito l'agricoltura, o la stampa il manoscritto, allo stesso modo i nuovi media digitali non aboliranno (in un futuro prevedibile) l'ingerenza dei mass-media nei nostri divenire sociali. Al massimo (alla meglio) la attenueranno o la sposteranno (alla peggio: subire l'idiozia di Fox News, TF1 o France2 sul proprio maledetto smartphone). Nel suo senso sociologico, la mediarchia è caratterizzata dall'influsso dei mass-media sui nostri meccanismi di decisione collettiva, neutralizzando il "potere del popolo" per sostituirgli una logica di riproduzione delle dominazioni, attraverso una certa strutturazione della nostra economia politica dell'attenzione.
In questo senso la mediarchia è una realtà durevole a cui non riusciremo a sfuggire per ancora molto tempo. Tuttavia non è il caso di subirla. Al contrario: la priorità politica deve essere quella di attaccare la struttura attuale della mediarchia (con tutti i mezzi necessari, esclusa la violenza sulle persone). Ma questo può essere fatto solo dall'interno (dato che essa è ovunque). Se la mediarchia vive di finzioni, bisogna elaborare contro-finzioni destinate a operare dall'interno della logica mass-mediatica.
Donde sei caratteristiche delle contro-finzioni in mediarchia – da intendere nel doppio senso di "in seno a" ma anche "a proposito di" (dato che esse rifiutano fino in fondo l'illusione della trasparenza): 1° far sentire la loro potenza di medium (e non solo utilizzarla); 2° includere una pratica (e non solo un'intenzione) documentaria che sappia accogliere l'impronta delle forme registrate nel reale (e non solo proiettare immaginari attraverso una materia sensoriale plastica); 3° tentare, nella misura del possibile, di infiltrarsi nelle reti mass-mediatiche di maggior diffusione; 5° mobilitare la forza (assiologica) del narrativo per aiutare a riorientare la direzione generale dei nostri sviluppi sociali (vale a dire il loro carattere contro-sistemico); 6° documentare narrativamente forme di vita, presenti o passate, la cui registrazione e diffusione contribuisce a farci sperare nel futuro, convalidando e rafforzando le nostre aspirazioni amorose.
12. Finzioni e democrazia: rigettare entrambi i termini come fonti di inganno – la prima finzione essendo quella di credere che viviamo in democrazia. Rimpiazzare questa doppia illusione con un appello a documentare forme di vita che esigono di riorientare le nostre logiche socio-politiche. Concepire questo lavoro documentario come inevitabilmente narrativo, dal momento che deve inscriversi nel contesto delle nostre mediarchie: contro-finzioni in mediarchia come Malizie nel Paese delle Meraviglie. Concepire questo appello non come una chiamata alle armi rivolta a una popolazione addormentata in cui noi saremmo gli unici mattinieri, ma come la documentazione di una presa d'aria nella quale molti altri si sono già sentiti aspirati – una aspirazione collettiva.
Le contro-finzioni non sono un nuovo gadget da inventare domani. Sono pratiche già sperimentate, condivise, modulate, teorizzate, auto-criticate da moltitudini di artisti, scrittori, saggisti, cineasti, musicisti, giornalisti, militanti, resistenti, designer, attivisti, hacker, conosciuti o sconosciuti, anonimi o celebri, il cui lavoro ha irrigato le pagine che precedono, del cui enorme iceberg ogni lista di amici (compagnonnage) può sfiorare solo la cima emersa: Steve Albini, Anonymous, Maryvonne Arnaud, Banksy, Franco Berardi, John Berger, Frédéric Bisson, François Bon, Robert Bonamy, Daniel Bougnoux, Anthony Braxton, Patrick Chamoiseau, Arnaud Des Pallières, Georges Didi-Huberman, Vincent Dieutre, Anne James Chaton, François Cusset, Harun Farocki, Alain Giraudie, Jean-Marie Gleize, Édouard Glissant, Christophe Hanna, Danièle Huillet et Jean Marie Straub, Pierre-Damien Huyghe, Hugues Jallon, Dominiq Jenvrey, Yan Jun, Tim Kinsella, Ariel Kyrou, Bruno Latour, Maxime Laurent, Franck Leibovici, Frédéric Lordon, Jean-Marc Lovay, Isabella Mattazzi, Henri Michaux, Michael Morley, Philippe Mouillon, Frédéric Neyrat, Laura von Niederhäusern, Charlotte Nordmann, Otomo Yoshihide, Jussi Parikka, Martial Poirson, Olivier Quintyn, Marcus Rediker, Mike Reed, François Roux, Dario Rudy, Lionel Ruffel, Henry Torgue, Johan van der Keuken, Jérôme Vidal, Antoine Volodine, i Wachowski, Siegfried Zielinski.
(Traduzione dal francese di Luigi Grazioli)