L'occhiolino di Einaudi
Il racconto storico di fatti editoriali è il luogo per eccellenza dove la cultura si salda con l’economia, dove le parole si trasformano in cifre, dove l’impresa che persegue l’utile è la stessa impresa che produce la ricerca più disinteressata di tutte. I testi che appartengono a questo genere letterario (memorie, conversazioni, epistolari, diari di lavoro firmati da grandi editori o redattori di case editrici che molto spesso furono o sono grandi scrittori) tanto più sono avvincenti quanto più sanno servire al lettore una pietanza di documenti d’archivio e quanto più sanno condirla in maniera sobria e rotonda, con un gradiente di gusto storico-estetico così bilanciato da convertirsi senza residuo in nutrimento materiale: dove, con l’ultimo aggettivo, si intende la completezza delle informazioni necessarie, la lezione morale e pratica offerta da ogni racconto di lavoro, il puro piacere del leggere che ti fa scordare la presenza di quella lezione, infine l’angostura dell’economia che ti riporta alla realtà, che ti riscuote dal mezzo sonno postprandiale proiettandoti verso la tua seconda mezza giornata lavorativa.
Molti racconti di lavoro che riguardano la casa editrice Einaudi hanno costruito la mitologia dei suoi «mercoledì»: il giorno della settimana in cui, durante le riunioni editoriali che vedevano impegnati, accanto a Giulio Einaudi editore, redattori e consulenti come Cantimori, Serini, Natalia Ginzburg, Cases, Fruttero, Bobbio, Venturi, Calvino, Boringhieri, Mila, Munari, Balbo, Vittorini, Musatti, Colli, si discutevano i libri da fare e si decidevano i libri da non fare. I «no» erano definitivi, i «sì» niente affatto. La ratifica eventuale del monosillabo sarebbe avvenuta solo il giorno successivo, come racconta Luca Baranelli: «erano più importanti le riunioni del giovedì mattina, nelle quali Einaudi decideva insieme con pochi altri dirigenti (Bollati, Cerati, Molina, Ponchiroli, Santoni) se i libri approvati il giorno prima erano effettivamente da pubblicare. Nei mercoledì Einaudi era una sorta di sovrano illuminato: faceva parlare tutti, era contento se ognuno esprimeva la sua opinione. Se non si parlava e ci si teneva dentro qualcosa, lui lo capiva subito e ci aizzava. (…) Ricordo poi una cosa buffissima: talvolta Einaudi, quando voleva far capire che era d’accordo con te, ti faceva ostentatamente l’occhiolino. Era un occhiolino quasi antifrastico: come per dire che era d’accordo con te, ma tanto le tue opinioni non contavano nulla. In ogni caso la vera arte del comando non si vedeva il mercoledì».
L’occhiolino dell’editore, e la diversa natura delle due giornate decisive per una casa editrice che allo snodo tra gli anni cinquanta e sessanta toccò il culmine della sua egemonia sulla cultura italiana, sono la chiave di Una stanza all’Einaudi, memorie e conversazioni di Luca Baranelli e Francesco Ciafaloni, due redattori-chiave (meno celebri di quelli elencati poco fa, non meno importanti) che giunsero all’Einaudi in quella stagione di svolta, a tempo per diventare – con questo breve libro che sembra fatto di metallo cromato – testimoni degli stridori che si sarebbero avvertiti di lì a poco, e poi di un impercettibile appannamento o principio di declino, fino alla crisi finanziaria che nel 1982 condusse Einaudi allo scalpore della bancarotta. La Stanza possiede al massimo livello di sapidità gli ingredienti del buon racconto di editoria anche per merito di un aiuto cuoco come Alberto Saibene, che da anni agisce nella cultura italiana come mnemagogo. Coniata da Primo Levi, la parola significa «suscitatore di memorie»: Saibene ha provocato quelle di Baranelli e Ciafaloni, le ha organizzate in un libro e le ha accompagnate al visto-si-stampi. Essendo un produttore di libri in ambedue i sensi, come storico e come editor presso Hoepli, era attrezzato per farlo al meglio.
Baranelli e Ciafaloni sono accomunati dall’amicizia con Italo Calvino: il primo è il curatore del suo epistolario dove i libri, suoi o altrui, sono protagonisti assoluti, il secondo lo aggiornava sulle trasformazioni della politica e della società italiana ogni qualvolta lo scrittore discendeva dal suo abitacolo parigino. Ciafaloni è stato un testimone agguerrito della crisi Einaudi 1982, come raccontano pagine appassionate e indignate in difesa di uno spirito del lavoro che veniva offeso da logiche proprietarie. Ciafaloni qui scrive, e testimonia, in qualità di intellettuale, di lavoratore e di sindacalista: tre ruoli che chiunque operi nell’editoria, soprattutto se precario con partita Iva, dovrebbe assolvere rispetto a sé stesso e ai suoi interlocutori. Su questo punto sarebbe d’accordo anche il padre dell’editore, il liberale Luigi Einaudi che nel 1924 manifestava, in Le lotte del lavoro, «la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi».
L'articolo è apparso sulla Domenica del Sole 24 Ore del 26 maggio 2013