San Francisco

7 Agosto 2015

Nonostante le spiacevoli traversie dei viaggi andati a male sappiamo che non sarà questo a fermarci. Le esperienze di viaggio ci insegnano che la prossima volta potrebbe andare meglio, anche quando tutte le evidenze volgono al peggio. C’è, nel viaggio, la forza di una sorpresa, l’idea di novità, la deriva profonda dell’avventura, quella che il filosofo Jankélévitch pensava fosse la chiave dell’idea di inizio, di ri-partenza o di qualcosa che “stacca” il tempo normale e lo fa diventare una freccia. C’è, nel viaggio, la busta a sorpresa che una volta si comprava in edicola. Non importava quel che c’era dentro, giornaletti, soldatini, cianfrusaglie, ma era l’aprirla il momento magico. Il viaggio è un avvio. E soprattutto esso è una riproposizione del presente, riporta il presente dove dovrebbe stare.

 

Adesso che sto ballando in un posto improbabile, nell’unico quartiere off rimasto a San Francisco, Bayview, un ghetto nero in cui la gentrification tarderà ad arrivare, adesso lo sento il presente. In una dark room di un bar malandato all’angolo della Third Street, Sam’s, sono sceso dallo sgabello del bar, una birra Negra Modelo di fronte a me, perché è impossibile resistere a questa musica. Hip Hop, Funk, Michael Jackson. Il locale è quasi vuoto. Un dj di grande stazza, due entraîneuse molto malandate, tre signore nere molto truccate che bevono qualcosa di rosso che puzza di amarena, eppure ad un certo punto qui c’è l’assoluto presente. Ballo da solo, poi balla anche il mio amico Paul, autista uber, ma reduce da un ventennale traffico di LSD per i rave della Bay Area. Una persona positiva, dolce, con un figlio meraviglioso e vispo. Paul sembra passato indenne attraverso tutto, non solo le droghe, ma anche il post da pentiti arricchiti. Lui non si è arricchito, ma soprattutto è rimasto fedele a se stesso, ad un'America radical e capace di sberleffi al neo-liberalismo avanzante.

 

Lo lascio a ballare, rincaso – a casa sua – e il quartiere, “the Hood”, come si chiamano i ghetti neri, è tranquillo a parte qualche ubriaco e qualche fattone di crack che urla al vento. Nuovi condomini vuotissimi, vecchi murales, la solitudine tipica di un mondo a parte dove i bianchi – e gli hipsters lo sono per buona parte – non vengono. Ma arrivano gli asiatici, tranquilli, operosi, puliti, con gli occhi bassi e c’è una certa tensione. I neri del quartiere li vivono come invasori, ma è chiaro che sono poveri anche loro, il gradino più basso della scala sociale che qui nella Bay Area è ripidissima. Durante il giorno l’efficientissimo tram che mi porta a Downtown è affollato di pazzi, di miserabili, di gente che ha perduto tutto e va avanti e indietro senza meta. Questa città, San Francisco, ha oggi ventimila homeless, un termine che non descrive abbastanza la condizione di derelitti. Parcheggiati in tende sotto gli immensi cavalcavia dell’autostrada, ai bordi di terreni incolti e dei cantieri in costruzione, i più fortunati hanno una scatola di legno su ruote in cui si chiudono la notte.

 

Jazz Mural North Beach San Francisco.

 

L’altra sera ho ritrovato la San Francisco wild degli anni ’80, ma solo per i locali aperti tutta la notte, DNA, SMIS. Si entra solo se si fa parte del club, però, ci si aggira in questo quadrilatero tra la 12th e la 14th e Folsom e un po’ del passato risorge, i Grateful Dead, la San Francisco dello sballo, ma anche dell’avanguardia artistica e musicale. In giro con un libraio gay che ha vissuto tutta questa storia mi dice che questo era il quadrilatero “leather” dove stavano tutti i magazzini che fornivano ai gay il cuoio per i loro giochi erotici. Oggi ce n’è rimasto uno solo, ma dice lui, – lo dice con un’aria di condiscendenza – è solo per gli “straight”, per gli etero che voglio improvvisare parties bondage e sadomaso. La città è però oggi per buona parte in mano a ragazzini ricchi che lavorano come developers a Montain View, o nelle zone intorno a Stanford dove sta tutta la new tech. Il mio amico libraio mi dice che si annoiano a morte e che per questo invece di vivere nella città giardino di Google vengono qui a comprare case con prezzi che stanno montando alle stelle. Vengono a spendere nei locali wild e nei ristoranti furbi del quadrilatero e poi ogni tanto inciampano in qualche homeless. Tra hipsters e homeless c’è uno scambio molto particolare. I primi arrivano con biciclette che costano fino a 10mila dollari, i secondi gliele rubano, le smontano, le trasformano in incredibili oggetti di arte povera e glieli rivendono. Tra le tende dei derelitti e i loro fagotti sporchi di plastica c’è sempre un buon mucchio di ruote, manubri, catene.

 

Poco distante da Folsom, sempre sulla 14th c’è “The Wag” un lussuoso intero block adibito ad hotel per cani e gatti. “Wag” è un termine molto british per dire “Dandy” e un mastino molto elegante è la grande insegna all’ingresso. Ogni tanto si possono visitare le stanze adibite a ospitare i quadrupedi, pulite, intonacate con cura, con un grande televisore. Non lontano, tra Castro e Hayes hanno appena aperto un “Tea cat”, un posto dove si può prendere un tè con un gatto, un gatto sconosciuto, ed eventualmente adottarlo. Sempre il mio amico libraio – Patrick – mi indica di fronte un’insegna di un servizio medico privato nuovo, si chiama “Concierge” e offre ai ricchi che se ne fregano dell’Obama-care, un medico “di famiglia”, con il singolare uso della parola francese “concierge”, cioè portineria.

 

Cosa sono venuto a fare qui? Mah, la scusa è scrivere di questa nuova follia tech che alligna qui e che sicuramente tra poco invaderà il mondo, wearable applications, quantified self, Google che si lancia verso tutto ciò che è health system, dall’Alzheimer al genoma, dai tessuti indossabili per handicappati al prolungamento della vita. Ma dopo qualche giorno mi viene la stanchezza di chi ha vissuto qui trent’anni fa e ritrova solo una pantomima di quella bohème ricchissima di idee e di ribellione, di quel mondo alla portata di mano di tutti dove artisti e moviemaker, musicisti e scienziati condividevano il clima dolcissimo e gli affitti bassissimi. Allora la Mission era il quartiere più freak, ma non nel senso dello sballo e dello sbandamento, ma in quello di una società più intelligente e compassionevole. Qui la beat generation di Ferlinghetti, ma anche di Gary Snyder, ha passato il testimone alla coscienza ecologica e alle mille iniziative in questo senso, dalle tecnologie alternative allo slow food (Alice Walker ha fondato qui con Petrini Slow food), e nel frattempo un mondo di ricerca si è formato a Sausalito intorno a Steward Brand e al suo “Whole Earth Catalogue”, una specie di “Enciclopedie” alla Diderot e d’Alembert, ma orientata ai “tools”, agli strumenti per una nuova convivialità. Illich, Bateson, ma anche lo Zen rifondato qui a Tassajara, tutto questo ha creato le condizioni in cui è nato il primo computer friendly e dopo qualche anno l’interattività. Cose inconcepibili senza il clima e l’ambiente fertilissimo degli anni ’80. Tutto questo va ricordato, proprio adesso che la Bay Area e San Francisco sono quasi inavvicinabili – un affitto parte da 4000 dollari al mese ed è il trionfo di una nuova generazione di tech-hipsters che sanno ben poco di questo passato.

 

Mission, San Francisco, ph. Michela Colasanti

 

Mi fermo a mangiare in un posto straordinario, il figlio di un carpentiere giapponese e di una californiana ha aperto un ristorante dove si mangia pesce – intere teste di salmone – e si beve birra di riso. Il posto costruito dal padre è uno spettacolo per gli occhi, l’arte del cucinare a fiamma alta, di utilizzare pentolini e ceramiche, di grattare bonito secco che sembra legno. Seduto al bancone mi volto ogni tanto a osservare gli avventori, giovani, a volte soli, a volte in gruppo, che spendono molto, assaggiano tutto e che dalle domande che fanno si capisce che sono appena arrivati, che non sanno nulla della città, nulla di cucina, nulla se non il proprio nascondersi durante tutto il giorno dietro a un computer ad applicare algoritmi. È il loro boom, se ne vanno chiamando un servizio Uber che li riporta a Montain View, o se ne vanno direttamente in aeroporto. Qui tutto è veloce, frenetico, non c’è tempo e si fanno un sacco di soldi. Dappertutto in città si costruisce, velocemente, palazzi di sei, sette piani in legno e compensato. Un ingegnere danese che mangia accanto a me con una simpatica moglie giapponese mi dice che qui si parte da 6, 8mila dollari al metro quadro. Basta attraversare la baia , andare a Oakland o scavalcare il Golden Gate e i prezzi sono la metà, tranne che nei ghetti per super-ricchi come Mill Valley o Sausalito.

 

Eppure qualcosa mi manca e fa sì che questo viaggio mi sembri immotivato, tempo buttato via. Cerco odori che mi ricordino com’erano queste strade alberate trenta, vent’anni fa, gli odori forti di pitosforo, legno speziato, cannella. Cerco il ristoro che mi dava scoprire posti dove si vendevano tamales, librerie chicane e cinesi, artigiani inventivi, locali assurdi dove un bar si mescolava a un servizio di laundry. Ne ritrovo uno, si chiama come allora Brainwashing, lavaggio del cervello. Un po’ di barbuti e panzuti stazionano fuori tracannando birra. È un lavaggio a gettoni, ma si può mangiare e bere. Sono sprazzi di quel che fu. Ma non sono nostalgico, mi sono abituato in questi anni in cui ogni tanto tornavo ad alzare le antenne, a non giudicare, ad aspettare cosa mi prepara questo luogo che rimane di una straordinaria bellezza e di un’eleganza e qualità urbana estrema. Solo che mi pare che la città non stia raccontando nulla di ciò che le accade. Sembra un magnifico involucro da cui non traspare la trasformazione interna, non solo real estate, soldi a valanga ed evictions, sfratti, nuova povertà, ma il fatto che niente della rivoluzione tech sia visibile mi puzza. Come se Google, Twitter, Facebook non avessero nessuna ricaduta sulla città, sui suoi luoghi, che non sia di rendita. In questa città è più difficile trovare un negozio di computer più che in una città di provincia italiana. Non c’è galleria d’arte, museo, spazio pubblico che racconti la rivoluzione in atto. Solo quel cretino furbo di Zuckerberg che vuole costruirsi la casa sulla cima intatta di Potrero Hill e visto che non glielo consentono fa occupare da turbe di autisti uber i parking plot lassù, per potervi intanto portare materiali di costruzione.

 

Solo ogni tanto, quando cammino a piedi, mi torna la sensazione di essere qui, quando svolto un angolo e da parallelo all’Oceano mi metto su una strada che attraversa la penisola per il lato più breve, allora sento un vento potente, fresco, frizzante spazzare via tutto.

 

The Condor nightclub, San Francisco

 

Il mio amico Paul mi dice di andare a vedere a Fillmore la mostra che il suo amico Marc ha organizzato. Arrivo in questa parte che è ancora un po’ com’era, stretta tra i postumi hippie e un consumismo da adolescenti esperti di skate e di erba, e mi trovo davanti una collezione incredibile di LSD-blotter, di immagini stampate che sono le carte su cui veniva stesa la superficie di lsd. Immagini dei Grateful Dead, di Alice in Wonderland, di Neal Cassidy, dei sogni e dei draghi di quella generazione. Arrivano uomini e donne sulla sessantina, vestiti in maniera geniale, molto libera, molto dandy e però mai leccati, e capisco che sono gli amici del mio amico autista e il suo mondo. L’altro giorno mi ha portato in giro a vedere i posti dove si vendeva LSD sulla magnifica collina di Twin Peaks, e poi mi ha raccontato tutta la saga del farci soldi, dello sballarsi, del far feste. Il mio amico non è nostalgico, no, anche lui vuole stare a vedere che succede. E adesso che lo sto lasciando ballare da solo, in pista da Sam’s con una nera dai seni immensi, mi ricordo che questo è il presente e che questa città per me lo è sempre stato, ogni volta che mi ripiegavo su me stesso, venivo qui ed essa mi rivoltava come un calzino.

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