Il popolo senza indirizzo
L’evoluzione gioca un ruolo fondamentale nella natura così come nelle società umane e il cambiamento è, in generale, inarrestabile e necessario. Idee, stili di vita e modi di stare al mondo che avevano un senso nel contesto di un sistema sociale, diventano obsoleti o insostenibili al cambiare degli elementi culturali e delle condizioni materiali ed economiche che ne garantiscono l’esistenza. La storia delle tribù nomadiche del Gujarat, alla quale mi sono interessato in occasione di uno dei miei ultimi viaggi in India, è uno dei tanti esempi delle difficoltà che i più deboli – spesso i meno equipaggiati di fronte alle sfide poste dalla necessità di adattarsi – possono incontrare nell’affrontare le grandi transizioni della storia.
Con circa quattro milioni di membri distribuiti in più di trecento comunità tribali, i nomadi del Gujarat rappresentano una porzione numerosa e ben diversificata della popolazione totale di questo stato indiano. Nel passato ognuna di queste comunità, compatibilmente con il sistema delle caste, riusciva a mantenersi offrendo i propri servizi agli abitanti di villaggi e città. Alcune tribù erano composte da artisti di strada e intrattenitori, musicisti, mangiatori di fuoco, acrobati e incantatori di serpenti, altre tribù erano specializzate in lavori manuali e d’artigianato. Certe tribù, come i Nat, giocoleri e acrobati, erano solite commettere furti ed altri piccoli crimini, tanto che ai tempi della colonizzazione vennero schedate dagli ufficiali britannici come “tribù criminali” e i loro membri catalogati indistintamente come “delinquenti abituali” nell’ambito del Criminal Tribe Act del 1871.
Il Criminal Tribe Act istituzionalizzò la discriminazione verso la popolazione nomadica, e né la sua modifica, nel 1952, con l’Habitual Offenders Act, né la richiesta delle Nazioni Unite, nel 2007, di abrogare quest’ultimo, hanno contribuito alla riabilitazione dell’immagine del nomade e all’eliminazione dello stigma e del pregiudizio nei suoi confronti. Inoltre, tecnologia e industrializzazione, con tutti i cambiamenti conseguenziali della società e delle abitudini di consumo, hanno contribuito alla diminuzione della domanda dei servizi tradizionalmente offerti da queste comunità tribali. Per farla breve, il progresso ha relegato i nomadi alla povertà, come fossero un corpo estraneo al rimescolamento globale e alla sue promesse. È quasi inutile sottolinearlo, ma il fatto che il livello di alfabetizzazione all’interno di queste comunità fosse piuttosto basso non è stato certo d’aiuto a contrastare gli eventi.
Mentre fotografavo queste giovani donne, mi sono ritrovato a riflettere su quanto la loro bellezza e i colori dei loro vestiti contrastassero con la cruda miseria dei loro insediamenti.
Venute meno le ragioni che giustificavano lo stile di vita nomadico, molte di queste tribù sono diventate semi-stanziali e vivono in tende o modeste abitazioni auto-costruite in campi alle periferie di villaggi e città. Ma poiché non appartengono a nessuno di questi villaggi o città, i nomadi non hanno un vero e proprio indirizzo di residenza e così, catturati in un labirinto burocratico kafkiano, non sono in grado di iscriversi al registro civile locale, non sono registrati alla nascita, non hanno documenti di identità e rimangono esclusi da qualsiasi diritto, anche il più basilare, diritto di voto incluso. Alcune organizzazioni non governative, però, come la VSSM (Vicharta Samuday Samarthan Manch), che ha sede ad Ahmedabad, capitale del Gujarat, e che è diretta da una ex giornalista di nome Mittal Patel, stanno lottando per il miglioramento delle loro condizioni di vita e per l’inserimento della questione dei nomadi nell’agenda politica dei governi locali.
Ad Ahmedabad, prima meta del mio viaggio nel Guajarat, ho incontrato Mittal (a sinistra nella foto in alto), fondatrice della ONG, e Vimla, direttrice amministrativa del centro nella sede della VSSM. “Non avrei mai potuto immaginare che qualcuno vivesse in queste condizioni”, dice la stessa Mittal in un video in cui narra il suo primo incontro con queste popolazioni. “Una bambina piangeva ma la sua stessa giovane madre, una ragazza, soffriva la fame e non poteva nutrirla. È stato allora che ho deciso di lavorare per queste comunità”.
Gli interventi realizzati dalle ONG negli ultimi anni hanno incluso l’istituzione di programmi di formazione professionale per facilitare la transizione degli adulti verso un mercato del lavoro slegato dal sistema delle caste, campagne di mobilitazione finalizzate al rilascio di documenti d’identità, all’accesso al voto e ai programmi di welfare. Sostentamento economico, quindi, e anche un aiuto concreto per affrontare la burocrazia e ottenere l’assegnazione di terreni e la possibilità di costruire vere abitazioni. Ma la sfida più importante in assoluto per il futuro di queste comunità si gioca sul fronte della scolarizzazione dei minori (e non solo dei minori).
Nella foto, un ritratto di alcuni membri di una comunità Salat, la cui occupazione principale è il commercio di cosmetici e accessori di bellezza, che acquistano e rivendono in città e villaggi, anche porta a porta. La VSSM li sta incoraggiando a produrre da sé la loro merce, gioielli compresi, affinché il loro reddito possa raggiungere una soglia dignitosa.
Gli arrotini sono chiamati Saranyias, da “saran”, il loro strumento di lavoro tradizionale. Oggi i Saranyia non riescono più a guadagnarsi da vivere facendo solamente gli arrotini ed è necessario che trovino altre fonti di guadagno.
Questo anziano incantatore di serpenti (tribù Vadee) suona per me il suo pungi e mostra alcune foto del suo glorioso passato. Dopo il Wildilife Protection Act le sue performance sono diventate illegali.
La VSSM ha istituito in alcuni campi piccole scuole informali, gestite da Baldost, giovani insegnanti e tutor volontari che dedicano parte della propria giornata ai bambini nomadi cercando di coinvolgere anche gli adulti. Come in altre storie di altri mondi che ricorrono tutte uguali pur tra le enormi differenze che le caratterizzano in superficie, uomini e donne delle tribù nomadi sono chiamati molto presto alla responsabilità di contribuire al mantenimento della famiglia e della stessa comunità. Le necessità della sopravvivenza obbligano al lavoro fin dai primi anni di vita e il circolo vizioso si autoalimenta.
Harshad, l’uomo nella foto, coordinatore regionale per la VSSM ai tempi del mio viaggio, si occupava insieme alla moglie dell’ostello per ragazze di Doliya, nel distretto di Surendranagar, che dà ospitalità a giovani nomadi iscritte alla scuole della regione.
In quest’altra foto, una volontaria miscela letame e fango per pavimentare il padiglione di una scuola. Queste istituzioni sono state denominate dalla VSSM scuole “ponte”.
Nella foto, Harshad e una baldost (insegnante volontaria) al lavoro in una scuola “ponte”. Alcuni di questi bambini frequenteranno le scuole pubbliche e sfuggiranno al lavoro minorile, nella speranza che i volontari convincano i genitori dell’utilità e necessità di far proseguire loro gli studi e che, problema altrettanto grave, i loro coetanei superino i pregiudizi nei confronti dei nomadi. Un compito certamente non semplicissimo, ma d’altronde, adattando il celebre motto dell’Arrampicamuri, è da grandi problemi che nascono grandi responsabilità.
Ho scattato questa foto l’ultimo giorno, anzi, l’ultima notte di permanenza nel Gujarat. Il rimescolamento era molto forte e altrettanto grave il rischio di lasciarmi andare, adesso, a esercizi di facile retorica. Immagini e memorie, da allora, continuano ad affollarsi in un flusso di “incoscienza” che fornisce sempre nuovi motivi per riflettere sulla necessità d’un supplemento d’anima per l’uomo tecnologico, come sosteneva il filosofo Henri Bergson. Supplemento d’anima forse necessario per noi esangui abitatori della postmodernità, ma che nel caso dei nomadi che ho avuto il privilegio di visitare meglio si declinerebbe in un supplemento di tecnica e diritti civili. Nell’attesa di sapere come continuerà la nostra storia, quest’immagine di un gruppetto familiare raccolto attorno a una donna che prepara il chapati mi dà la possibilità di rappresentare con semplicità il sentimento di intima unità e comunanza di cui sono stato testimone durante il mio soggiorno con le tribù nomadi.
L'autore ringrazia Angelo O. Meloni per la collaborazione al testo.