Una biografia di Vanni Codeluppi / Il mio amico Luigi Ghirri

2 Luglio 2020

Gli esseri umani sono il mosaico del mondo che li circonda. Quel mondo che ci entra dentro, ci dà vita e che bisogna lasciar passare senza opporre resistenza. La fotografia di Luigi Ghirri è il mondo in cui siamo immersi, che ha origine dall’infanzia e che prosegue naturalmente nel corso della vita.

Vanni Codeluppi ripercorre in un piccolo libro la Vita di Luigi Ghirri. Fotografia, arte, letteratura e musica (Carocci Editore, 2020), e lo fa attraverso l’intersezione di lievi racconti biografici, il pensiero del fotografo e l’interpretazione di dieci immagini emblematiche della sterminata produzione ghirriana, anteposte ai dieci capitoli di cui si compone il libro.

Luigi, come l’autore lo chiama lungo tutto il racconto perché possa distinguersi dagli altri personaggi citati, da piccolo vive in campagna sviluppando quel senso di appartenenza al territorio della sua nascita che lo accompagnerà per tutta la vita. Ha una mente acuta e curiosa, osserva e vuole sapere, aspetto che sarà una caratteristica costante del suo futuro guardare fotografico, un concetto che funge da filo conduttore in tutto il testo.

 

Seguire le “stazioni” che ci vengono proposte è indispensabile per capire da dove partono tutti i pensieri di Luigi. Come, ad esempio, quello di Infinito. Luigi lo incontra per la prima volta quando con la famiglia alla fine della guerra approda nella casa-villaggio di Braida. Il disegno del simbolo è incastonato nel pavimento di marmo quasi a predire quell’orizzonte ampio e aperto che spesso fotograferà. O ancora: collezionare oggetti, come le cartoline. Il padre gliele porta in dono tornando dai suoi viaggi di lavoro, Luigi le raccoglierà per tutta la vita. La vastità del mondo gli passa tra le mani già in tenera età.

Tutto il lavoro fotografico di Luigi ha origine nella sua infanzia e adolescenza. Attraversa le immagini di un film in bianco e nero che ha per protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy, l’enciclopedia che sempre il padre regalerà a lui e a sua sorella Roberta perché si facciano una cultura, i trompe l’oeil sulle pareti della cucina di zia Leopoldina. Come un archeologo Vanni Codeluppi scava nella terra di una vita intensa cercando reperti preziosi che collega, per trovare una forma compiuta.

 

La fotografia scattata a Scandiano nel 1971 che apre il volume, mostra un paesaggio anonimo, tuttavia Luigi, attraverso una composizione molto ben studiata, ne evidenzia un particolare sul quale si posa inevitabilmente l’occhio dell’osservatore: un’apertura quadrata all’interno di una rete metallica funge da schermo permettendo allo spettatore di “vedere oltre”. Ciò che compie l’autore non è però un semplice atto dimostrativo/didattico bensì l’evidenza di come si guardano le cose o meglio: di come le cose vogliono essere guardate. 

A ulteriore dimostrazione di ciò Codeluppi cita la storia di una fotografia importante nella formazione di Luigi, scattata dall’astronauta Bill Andersen nel 1968 mentre è in orbita attorno alla Luna (Luigi ha 25 anni). Si tratta di un’immagine che mostra la Terra “vista da fuori”. È un’immagine in cui appare evidente l’idea non tanto di documentare un evento quanto quella di “guardare” ciò che è impossibile vedere. Che cosa si vede e che cosa “non” si vede in quella fotografia? L’essere umano. 

Eppure l’uomo è dentro la fotografia ma è anche fuori. Fuori da se stesso poiché il mondo e quindi l’uomo è composto, lo ricordiamo, di tutti quei tasselli che lo circondano, è un Unico finito e infinito. Dunque l’uomo fotografa il non fotografabile, è parte integrante del processo di conoscenza e al tempo stesso è estraneo al “fotografato”. Tutto questo genererà “Atlante”, un lavoro in cui Luigi riprende una serie di mappe: fotografa cioè un concetto, di per sé non fotografabile.

 

Luigi è molto attratto anche dal mondo dell’arte che ha approcciato sui libri, a partire da quella famosa enciclopedia che suo padre gli regalò da piccolo. Le opere d’arte entrano nella composizione delle sue inquadrature che spesso dispongono di una prospettiva centrale, semplice, comprensibile, pulita. Ma l’arte è anche rottura, discussione, in particolare negli anni Settanta. Avviene così che Luigi, frequentando alcuni artisti concettuali modenesi tra i quali Guerzoni e Vaccari, venga traghettato ancor più verso un tipo di immagine concettuale che lo interesserà molto senza però fargli mai oltrepassare la linea di demarcazione tra fotografia e arte contemporanea. Luigi è più interessato all’atto del guardare che all’uso decontestualizzato delle cose e dei luoghi. È più interessato al reale. La forma in cui fotografa è composta da una sorta di sedimentazione dell’osservazione che riempie uno spazio dato, emergendo da esso.

 

Altre influenze che corroborano questo approccio di tipo non documentale sono le ricerche di Ugo Mulas con le sue Verifiche realizzate sempre negli anni Settanta, il pensiero del filosofo Merleau-Ponty e quello dell’antropologo Lévi-Strauss, come a sottolineare che lo stimolo a osservare e a vedere oltre si evidenzia grazie al confrontarsi di diverse visioni scaturenti da altri linguaggi e altre esperienze.

Molta parte delle immagini scattate da Luigi sono rappresentazioni delle zone in cui è nato e cresciuto e in cui ha sempre vissuto. Sono immagini che Luigi scatta durante il percorso quotidiano che fa per recarsi ogni giorno al lavoro di geometra che svolge per l’azienda Immobiliare Zeta di Paolo Zanasi. La trasformazione del paesaggio provinciale che Luigi ritrae scaturisce dal benessere degli anni Sessanta post-ricostruzione bellica, si evidenzia nelle numerose villette piccolo borghesi che spuntano come funghi, con accompagnamento di schiere di nanetti e Biancaneve nel piccolo giardino antistante. L’osservazione di Luigi si concentra sulla normalità che assume velocemente un aspetto sempre più omologato e innaturale, completamente avulso dalla realtà. Le villette che fotografa sono le stesse che progetta durante la settimana lavorativa. Questo crea un cortocircuito visivo poiché l’autore delle immagini sa bene di cosa tratta l’oggetto che sta riprendendo: attraverso lo scatto fotografico egli conduce un atto di auto-critica. Ma a Luigi non interessa “interpretare”, vuole principalmente osservare il processo che ha trasformato il mondo in quello che è.    

 

Berlinguer, foto di Luigi Ghirri.


L’incontro con la fotografia di Walker Evans, gli fa capire che sta percorrendo la strada giusta. Evans, pur operando in un contesto socio-economico e in un momento storico totalmente differente, osserva il mondo attorno a sé così com’è. E infatti quella di Evans non fu mai fotografia documentaria, nemmeno in quella occasione, bensì puntuale osservazione della realtà, senza alterazione né concessione all’interpretazione. Potremmo dire che Evans prima e Luigi dopo fotografarono il “realismo dell’epoca”. Come scriverà Franco Vaccari: “La sua fotografia [di Ghirri] è asciutta, guarda direttamente le cose; non ammicca, non cerca la complicità di chi guarda”.

A metà degli anni Settanta Luigi fonda uno studio che chiamerà Infinito, come a sottolineare un concetto preciso sul quale si basa ogni aspetto della sua ricerca fotografica al tempo stesso concreto e immateriale. Infinito è l’edificio nel quale abitò con la sua famiglia dopo la guerra, infinita è la campagna della pianura padana testimone del nulla, infinito è il cielo che seppure fotografato a pezzetti per 365 volte non potrà mai essere veramente frammentato. È su aspetti indecifrabili come questi che si catalizza l’attenzione di Luigi, protesa verso una comprensione a volte irraggiungibile. Per condurre la propria ricerca Luigi si avvale della trasformazione che la realtà subisce attraverso la rappresentazione fotografica che da verità diviene artificio poiché la realtà, oltre ad essere soggettiva, non può in alcun modo essere fermata in una inquadratura, anche solo per il fatto di escludere da essa – per scelta autoriale – altre porzioni della realtà medesima. Come a sottolineare il desiderio di capire che accompagna il suo fotografare Luigi afferma: “Il mio impegno è vedere con chiarezza. […] la fotografia non è una pura forma d’arte”. 

La sua estetica, riconoscibile per quei colori saturi assimilabili alla fotografia di massa che usa le diapositive per ritrarre scene di vita quotidiana, lo avvicina al pubblico. Ma pur mostrandosi con uno stilema popolare, Luigi evidenzia oggetti e luoghi che tendono a innescare un atto di riflessione sul mondo che si trasforma. Non cerca un proprio stile, eppure questa sua peculiarità lo porterà ad avere una cifra stilistica inconfondibile.

 

Ciò fa sì che la fotografia di Luigi sfugga ad ogni classificazione dimostrando, a chi ancora non lo volesse accettare, che il linguaggio fotografico non può essere ridotto all’appartenenza a un “genere”. Meno ancora quella di Luigi si può definire fotografia di paesaggio poiché, pur ritraendo la realtà, essa non la rappresenta. Si può dire piuttosto che viaggi sul filo dei ricordi e della memoria. La fotografia di Luigi riprende il quotidiano vivere contemporaneo affondando le mani nel passato, secondo quel banale principio che vuole il presente possibile solo perché c’è stato un vissuto.

Dunque Luigi elabora continuamente il proprio vissuto, ciò che ha osservato con la curiosità di bambino e di adolescente prima e di adulto poi, intersecando i pensieri, le riflessioni, la vita intima e quella pubblica. Per questo la sua fotografia è inclassificabile, sfugge a qualsiasi etichetta di genere divenendo innovativa. Infatti, quando si recherà ad Arles per promuovere il suo lavoro (nel 1978 per la prima volta), otterrà scarsa considerazione, le sue immagini verranno definite “eccentriche” rispetto allo standard fotografico imperante. 

 

Luigi poi possiede una caratteristica divenuta ormai molto rara nell’ambiente della fotografia cosiddetta “autoriale”: è generoso. Negli anni coinvolge molti amici fotografi in altrettanti progetti di cui è spesso curatore. Una di queste occasioni, forse la più commovente, è quella che lo vede protagonista assieme a Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella e Mario Cresci di una commissione ricevuta dal PCI quando, nel 1983, gli viene chiesto di documentare la festa nazionale dell’Unità che si svolge a Reggio Emilia. In questa occasione Luigi scatterà la celebre fotografia che ritrae Enrico Berlinguer di spalle, durante il comizio di chiusura. Questa fotografia, come racconta l’autore del libro, farà decidere a Luigi di tornare a votare e a votare per Berlinguer. La fotografia in questione cattura il “corpo” della folla, non come accade oggi il volto del leader. In questa immagine c’è tutta la commozione e l’umanità di un uomo che osserva una realtà “fantastica” e anche la resistenza dell’uomo solo davanti al mondo, scevro di protagonismo: tutto assieme.

 

A metà degli anni Ottanta l’estetica delle immagini di Luigi si sposta da quel pastoso colore un po’ grezzo che lo ha caratterizzato fino a quel momento a un delicato tono che misura il passaggio a una fotografia per certi aspetti più onirica, ammantata di malinconia come quella che realizza nei territori lungo la via Emilia – Esplorazioni sulla via Emilia – ispirandosi anche qui a qualcosa che non ha apparentemente nulla a che vedere con la fotografia: il testo di un brano dell’amatissimo Bob Dylan Highway 61. Ancora una volta Luigi dimostra qui come non esista il “progetto originale” ma tutto sia contaminato e come ogni cosa può ispirare un’osservazione diversa.

A sottolineare maggiormente questo concetto, viene un progetto al quale nel 1988 Luigi lavora assieme al sociologo/filosofo Jean Baudrillard e al regista cinematografico Wim Wenders, entrambi anche fotografi. Luigi si confronta con autori “diversi”, cerca un altro sguardo perché stanco di quello dei fotografi, si misura con idee più articolate che poco hanno a che fare con la fotografia tradizionale: è come se per potersi esprimere al meglio egli dovesse uscire non soltanto da un confine territoriale, che pure è parte integrante del suo guardare, ma anche da quello della fotografia stessa, perché soltanto così la dimensione della sua ricerca può andare avanti.

 

Troppo spesso la fotografia di Luigi viene ricordata come quella della pianura padana, in una sorta di restrizione tipicamente provinciale atta a voler “definire” con dei confini precisi il suo guardare. In realtà Luigi ha fotografato anche molto altro eppure questo altro non emerge tanto quanto l’osservazione del suo territorio, quasi come a voler “confinare” l’opera di un autore che, viceversa, ha voluto distruggere i confini con la sua capacità di spaziare dal suo studio, un luogo molto intimo, alla vastità del territorio americano. Ma la pianura di Luigi non è diversa dalla pianura di un altro luogo qualsiasi: “È la luce la sostanza reale che dà forma alle mie immagini – dice – attraverso la luce finisce per rivelarsi sulla superficie del mondo anche qualcosa di apparentemente invisibile”.

 

Una citazione cara a Luigi e attribuita a Roberto Rossellini – Sto cercando un’immagine semplice, per mostrare senza dimostrare – calza a pennello al suo modo di produrre fotografie che, allo sguardo superficiale di qualcuno forse appaiono un po’ banali, ma questa è la realtà. 

Dopo la morte di Luigi saranno molti gli autori che sulla “scoperta” di questa banalità fonderanno la propria esistenza di fotografi, molto spesso però senza la stessa intensità. 

Alfine quello che Vanni Codeluppi traccia in questo libretto affettuoso è il poetico racconto di una vita vera narrata attraverso note biografiche e pensieri di Luigi Ghirri fino a mostrare come tutto sia unito in un grande mosaico, lo stesso che Luigi captò guardando la foto della Terra vista dallo spazio. Un grande contenitore vivo e pulsante che, se osservato con attenzione, mostra le storie e i pensieri di tutti gli uomini e tutte le donne.

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