Il teatro dei sensi di Vargas
La morte è un ballo con una sconosciuta attesa da tempo. Stretti, più vicini ancora, fino a sentire il profumo dei pensieri tra i capelli. Le mani solcano i fianchi, la schiena, dicono tutte le parole che servono: nessuna. Adesso, nella realtà di Piccoli esercizi per il buon morire, costruita ad arte fuori dalla realtà, cerchiamo di essere un unico passo al ritmo del respiro. Lei, io e gli altri.
Affidarsi, sentirsi, aprirsi all’esterno, pur restando completamente dentro di sé: è in questa tensione che si compie il nuovo viaggio alla scoperta dei sensi del vivere scritto e diretto dal regista e antropologo colombiano Enrique Vargas con la compagnia multiculturale Teatro de los Sentidos di Barcellona, al debutto nazionale in quello scrigno delle meraviglie che è il Funaro di Pistoia, sede italiana della sua Scuola sulla poetica dei Sensi.
Presentato nell’aprile scorso anche in Giappone, al World Theatre Festival Shizuoka, Piccoli esercizi per il buon morire non è uno spettacolo, è un tour dell’io in soggettiva, è un’esperienza sensoriale che fa (ri)scoprire il corpo. Il palcoscenico è tutto il centro culturale toscano, gli attori sono per Vargas “abitanti” e svolgono tutti anche un personale lavoro di ricerca oltre che di interpretazione, gli spettatori, chiamati a un ruolo e una partecipazione attiva, sono “viaggiatori” che sperimentano, sulle proprie gambe, la scrittura dello “spazio scenico” attraverso l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto. La vista arriva per ultima, il risveglio, la luce nascono dal buio più dolce e spaventoso: Caronte non ha una barca, ha una benda per chiuderci gli occhi. È la prima cosa che si fa con i morti: ormai non hanno più niente da vedere, è tutto nella loro testa e di chi si ricorderà che sono esistiti. Ora che stiamo morendo anche per noi il mondo è notte e basta.
La poetica sensoriale, intesa come relazione espressiva tra corpo e memoria, tra plasticità della scena ed esperienza teatrale, è al centro della riflessione del maestro colombiano almeno dal 1993, quando fonda la compagnia Teatro de los Sentidos, ospite dei maggiori festival e teatri nel mondo e vincitrice di numerosi premi internazionali. Formatosi all’Accademia di Arte Drammatica di Bogotà e all’Università del Michigan, dove si laurea in Antropologia teatrale, Vargas compie le prime esperienze lavorative nel prestigioso centro teatrale La Mama di New York, dove incontra Peter Schuman e il Bread and Puppet Theater e indaga la poetica dell’oggetto. In seguito, ottenuta la cattedra di Drammaturgia dell’immagine sensoriale all’Università nazionale di Bogotà, dedica quindici anni allo studio dei giochi, rituali e miti dell’Amazzonia.
La sua ricerca ha dato vita alla trilogia Sotto il segno del labirinto, seguendo il sentiero delle tradizioni orali, in cui il silenzio è una condizione necessaria per un’efficace comunicazione con il pubblico.
L’incedere di Piccoli esercizi per il buon morire è allora sanare la cicatrice del non capire, del non sapere. All’inizio dell’esperienza, Vargas racconta di un incontro avuto con un uomo una mattina a Roma, stazione Tiburtina. “Sono una lettera che non conosco tra parole che non comprendo – gli ha detto dopo essersi bagnato le labbra di vino – soltanto alla fine della bottiglia riconosco che sono io che sto scrivendo il mio libro”. Siamo storie in cammino, tra l’ingresso e l’uscita. Nascere è entrare o uscire? Morire è uscire o entrare? Tra il chiedere e il rispondere c’è sempre di mezzo il volere. Si apre così davanti a noi la scelta tra due porte: una conduce ai piccoli esercizi per il buon morire, l’altra ai piccoli esercizi per il buon vivere. Nessuno, però, sa se ha attraversato quella giusta: quando iniziamo a camminare in fila indiana, la mano sulla spalla della persona di fronte, abbiamo già gli occhi bendati. D’altra parte, l’una conduce inevitabilmente all’altra, il mondo dei morti che celebrano la vita è il mondo dei vivi che celebrano la morte, dritto è ciò che non è ancora rovescio, e viceversa.
Sembra impossibile eppure sta avvenendo proprio in questo momento: sono a teatro, che ha il guardare, la vista nella propria radice etimologica, e ho gli occhi chiusi. Non vedo niente, ma sento tutto, scrosci d’acqua, folate di vento, una chitarra pizzicata. Una deportazione quieta, calma, facilitata dalla guida presente e discreta degli attori del Teatro de los Sentidos, a piccoli passi, che sembrano chilometri in assenza dell’orientamento di spazio e tempo.
Dove sono? Che ci faccio qui? Le domande che verosimilmente mi porrò da morto sono racchiuse in un gesto che mi invita a sedere su una sedia. Le mani non devono stare giunte in preghiera, perché non siamo nel Regno dei Cieli, al cospetto di Dio, siamo nel Regno dei Sensi, tra donne e uomini. Sento i respiri, lo scricchiolio delle sedie e mi ci attacco come uno scalatore ai suoi ramponi per ricordarmi chi sono e che sono, esisto, mi stanno raccontando che sono deceduto, ma in realtà sono ancora vivo.
È il ritorno al ventre materno. Si sente in lontananza la fuga dalle braccia di un uomo, la rincorsa, poi la resa e la consegna incondizionata: una donna fa quell’amore che diventa dolore. Levata la benda, veniamo alla luce in un rifugio, una buca nella terra, una tana con appese decine di capi intimi. Siamo suddivisi in cerchi paralleli come i ventricoli di un destino che ha smesso di battere. Non c’è, però, la brutalità della morte vera, la rigidità delle Cappelle del Commiato, le labbra tirate in un ghigno, le lacrime che scendono troppo o troppo poco: i Piccoli esercizi per il buon morire non allenano il cuore a piangere, ma a sorridere. A giocare con “l’altro” che ci abita, la scelta perduta, l’occasione sprecata, la porta sbarrata, la paura che se avessimo fatto qualcosa di diverso sarebbe stato tutto migliore di com’è adesso. Questo “altro” è la risonanza beffarda, la calamita della nostra mortalità.
Il risultato che ottiene Vargas è stupefacente: ci mettiamo in cammino verso l’altro nostro se stesso imparando a conoscere lo sconosciuto che ci siede accanto. Un percorso pratico ed esperienziale di trasformazione delle relazioni tra ciò che siamo o crediamo di essere e ciò che ci circonda attraverso il linguaggio e la poetica dei sensi, le cui fondamenta ci fanno essere umani. Ascolto, conoscenza, comprensione. Così, ognuno mangia dal piatto del vicino e legge dall’ultima pagina del suo libro, accompagnato da una musica meticcia da funerale carnevalesco.
Il viaggio finisce quando gli attori del Teatro de los Sentidos capiscono che sei pronto per tornare a stare da solo. Allora, seguendo l’inchiostro delle biografie che mi hanno preceduto, ritorno al punto di partenza. Il cortile del Funaro è lo stesso di prima, ha smesso di piovere, ma i muri, il pavimento, la forma e la struttura, pur bagnati, sono quelli. Io sono cambiato, non sono più io, come quando torni a terra dopo giorni passati in mare e tutto sembra lontano, inutile e vorticoso. Il viso, l’aspetto, niente più che sensazioni. Ricordo appena la voce che ha risposto al mio “grazie”. L’unica parola che le mani non sono riuscite a dire. I Piccoli esercizi per il buon morire aiutano perciò ad accettare che la vita è continuare ad aspettare il giorno in cui la riconoscerai, nell’eternità di un sorriso. Lei, tu e nessun altro.