Reportage / Kader Abdolah: la Persia, l'esilio
Lo scrittore Kader Abdolah, nato in Iran nel 1954, vive in Olanda dal 1988 come rifugiato politico dopo essere stato perseguitato nel suo Paese prima dal regime dello Shah e poi dal regime khomeinista che ne ha preso il posto. Non appena arrivato in Olanda, in una cultura della quale non sapeva nulla e della quale ignorava la lingua, decide di iniziare a scrivere in olandese. Raggiunge il successo internazionale con il romanzo Scrittura cuneiforme (Iperborea, 2003) – la storia della decodifica di un taccuino con gli scritti del padre rimasto in Iran, nel quale affronta – come tornerà a fare in tutta la sua produzione letteraria – l’esperienza dell’esilio attraverso la ricostruzione della memoria del suo Paese di origine, della sua cultura millenaria e raffinatissima, degli sconvolgimenti che hanno cambiato il volto del moderno Iran.
Nel 2008, il suo romanzo La casa della moschea (sempre pubblicato in Italia da Iperborea e vincitore del Premio Grinzane Cavour 2009) – completamente ambientato in Iran e che attraverso la storia di una grande casa e di un’influente famiglia (molto simile a quella dalla quale lo scrittore proviene) ricostruisce la complessità della società iraniana tra gli anni che vedono il primo sbarco dell’uomo sulla Luna e la fine del lungo conflitto con l’Iraq – viene giudicato dai lettori olandesi la seconda opera più importante dell’intera storia della loro letteratura nazionale. Kader Abdolah, con una vena narrativa che conserva l’atmosfera affabulatoria degli antichi racconti orali persiani, in ogni sua opera letteraria, riesce nell’intento di restituire lo spirito del tempo e dei luoghi che narra, costruendo ponti di dialogo tra provenienze geografiche e culturali lontanissime che finiscono però per incontrarsi. Non è mai una narrazione fabulistica fine a stessa; lo scrittore infatti sa che nel presente si radica il passato e che la conoscenza del passato è una chiave per comprendere il futuro.
Il suo sguardo è sempre attento alle mutazioni delle società contemporanee, e mentre racconta come la violenza di determinati scenari storici abbia mutato nei secoli e continui a mutare il destino di milioni di persone, è al presente che pone ascolto. E così, ancora una volta, con la sua ultima opera tradotta in Italia, Il sentiero delle babbucce gialle (Iperborea, 2020) l’autore riesce ad annodare i fili di una vicenda che è allo stesso tempo intima e collettiva. È l’educazione sentimentale, artistica e politica di un giovane iraniano cresciuto nell’isolamento della grande tenuta familiare, che scopre grazie alla lente di una cinepresa e all’impegno politico il suo posto nel mondo. È la storia di un’educazione artistica, della lotta radicale di un giovane uomo per potere trovare la sua voce e la sua libertà di visone in una cultura fortemente conservatrice, mossa tra grandi rivolgimenti politici e sociali, come quella iraniana tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta del Novecento.
Il giovane Sultan, sarà testimone della pressione forzatamente modernizzatrice del regime dei Pahlavi, del tentativo di americanizzazione dell’Iran durante il loro regno, sarà tra le file dei giovani studenti rivoluzionari che sognavano un Paese più libero e democratico, vedrà l’instaurarsi della rivoluzione Khomeinista e la conseguente violenta stretta del regime teocratico. Conoscerà la persecuzione, la morte dei compagni, conoscerà il dolore dell’abbandono dei propri amori e della propria terra. Conoscerà l’esilio, la condizione di colui che è sordo e muto in una cultura di cui ignora la lingua e le ritualità, e dall’intrecciare narrativo di memoria e presente prenderà forma – tra le pagine del romanzo – il profilo e il destino di un uomo, di un artista, che trova finalmente la sua voce.
Insieme a Kader Abdolah, abbiamo affrontato alcuni aspetti della sua produzione narrativa, del ruolo della scrittura nella sua vita, e della sua visione del presente.
Come è entrata la scrittura nella sua vita?
Io sono un ramo di un antico albero familiare. Nella lunga storia della nostra famiglia ci sono sempre stati scrittori, e non potevo non essere ciò che sono: devo scrivere.
Il nome con il quale firma tutte le sue opere non è il suo nome anagrafico, è invece l’unione dei nomi di due suoi compagni di lotta uccisi in Iran per la loro attività politica. Perché questa scelta?
Quando volevo pubblicare il mio primo libro in Iran, non era permesso ed era impossibile per me usare il mio nome anagrafico sulla copertina per via della dittatura. Ho dovuto trovare uno pseudonimo. A quel tempo, due mie compagni furono giustiziati: Kader e Abdolah. Ho messo i loro nomi uno di fianco all’altro e da quel momento sono diventato Kader Abdolah. È un onore portare i loro nomi.
Lei vive dal 1988 in Olanda come rifugiato politico, dopo essere stato perseguitato in Iran prima dal regime dello Scià e poi da quello di Khomeini. Come ha maturato la scelta di scrivere tutte le sue opere in olandese, la lingua del Paese che l’ha accolta, e come ha influito questa scelta nella sua scrittura?
Non ho una riposta in particolare per questa domanda. Davvero non lo so, mi è semplicemente successo. Ora, dopo molti anni, guardo indietro e penso che sia stato lo zeitgeist, lo spirito del tempo. La vita mi ha ordinato di scrivere in olandese e io ho seguito il suo ordine.
Il suo romanzo La casa della moschea – completamente ambientato in Iran e che attraverso la storia di una grande casa e di un’antica famiglia riesce a ricostruire l’ultimo Secolo di storia iraniana, è stato giudicato nel 2008 dai lettori olandesi, il secondo più importante romanzo scritto nell’intera storia della loro letteratura. Come è nata questa storia così complessa e che valore ha avuto per lei questo riconoscimento
Avevo bisogno di raccontare questa storia; era la mia storia, la storia della mia famiglia e più di ogni altra cosa la storia del mio Paese. Al tempo non sapevo perché avessi scritto questa storia ma ora posso spiegarlo: in realtà sono fuggito dal mio Paese per potere raccontare questa storia al mondo. E inoltre, avevo bisogno di raccontarla ai miei vicini e ai miei lettori olandesi. E non avevo altro modo per comunicare con loro che usando la loro stessa lingua.
Nel suo ultimo libro Il sentiero delle babbucce gialle, pubblicato in Italia – come tutte le sue opere da Iperborea – e dedicato alla memoria del regista iraniano Said Sultanpur, ripercorre la vita di un giovane regista nell’Iran che va dagli anni Sessanta ai giorni nostri, ricostruendo un affresco personale e collettivo dei tumultuosi avvenimenti politici e sociali che hanno sconvolto il suo Paese e la sua storia recente. Come è nata l’idea di questo romanzo?
Ho pubblicato molti romanzi ma avevo bisogno di scrivere un libro che fosse davvero molto vicino alla mia esperienza interiore. Non ho mai parlato così apertamente dei miei sentimenti e della mia vita privata ma per questo libro è successo e così l’ho fatto. In questo libro parlo delle paure e dei desideri della mia infanzia. In realtà avrei dovuto scegliere un altro titolo per questo romanzo: Becoming a writer.
Mi pare che uno dei tratti distintivi della sua narrativa sia la costante tensione tra l’urgenza di libertà e felicità del singolo e le pressioni autoritarie di regimi radicali che impediscono la realizzazione di questo desiderio di vita. È così?
Quello che dici è vero. Grazie alla tua domanda ho ripensato a tutti i miei romanzi. Ovunque, vedo un giovane uomo o una giovane donna, che stanno combattendo per essere liberi e per esprimere se stessi. Scrivere in olandese è il migliore esempio di questa lotta; uno scrittore che non conosce una sola parola in olandese inizia a combattere per riuscire a esprimere se stesso.
Un altro aspetto che mi sembra rilevante dei temi che Lei affronta nelle sue opere è il destino dei giusti, davanti alla violenza della storia. Penso a personaggi come Aga Jan, il pilastro narrativo di La casa della moschea ma anche a Sultan, la voce narrante di Il sentiero delle babbucce gialle. Come ha costruito questi due personaggi?
Qualche volta penso che sono davvero uno scrittore fortunato; uno scrittore che è stato testimone di movimenti storici così importanti. Un dittatore come lo Shah del regime Pahlavi, la rivoluzione, un nuovo regime teocratico, una grande guerra, e naturalmente una delle più grandi ondate migratorie di sempre a livello internazionale. Tutti questi grandi eventi storici producono i loro stessi personaggi, personaggi che hanno bisogno di raccontare la loro storia. Aga Jan è uno di questi personaggi così come Sultan. Non sono io a crearli: loro esistono nella realtà, arrivano nella mia mente e io li trasformo in personaggi letterari.
L’esule è la metafora di un ponte di congiunzione tra due altrove. Quello dell’“identità” è un tema molto discusso nel dibattito pubblico europeo e che lei affronta ampiamente nella sua produzione letteraria. In che modo, a suo avviso, l’esperienza della migrazione può plasmare il futuro delle società contemporanee? In che modo questa esperienza ha cambiato il suo sguardo e il suo rapporto con la scrittura?
Non sapevo assolutamente nulla di migrazione. Non avevo mai lasciato il mio Paese prima. E improvvisamente, sono stato gettato in un nuovo mondo, complesso, sconosciuto. E scrivere era il solo modo che avevo per cercare di capirlo. Ogni volta che finivo un nuovo romanzo, vedevo che avevo creato una nuova società con le mie stesse mani. È questa la nuova società di cui stai parlando. Devo dire ancora una volta, o forse dieci volte ancora, che sono davvero uno scrittore fortunato. Ero uno scrittore persiano, scrivevo nella mia lingua madre, e nuotavo come un pesce nella mia cultura persiana. Ma improvvisamente forse Dio mi ha dato l’olandese, mi ha dato l’Olanda, l’Italia, la Germania, tutta l’Europa e oltre. E puoi immaginare cosa mi è successo, cosa è successo alla mia scrittura, alla mia persona.
In Il sentiero delle babbucce gialle fa ampio riferimento ai recenti flussi migratori in Europa di rifugiati in fuga dai conflitti in Medio Oriente. Questi eventi hanno messo grande pressione ai governi europei ma forse l’unico modo di affrontare questi grandi mutamenti sociali è cercare di accettarli con un approccio inclusivo. Qual è la sua idea a riguardo?
L’Europa non può fare nulla, il mondo non è in grado di cambiare questa situazione. È la Storia, e la Storia sta facendo il suo corso. Vedremo cosa otterremo. Bisogna lasciare che succeda.
In qualche modo, nella rappresentazione mainstream della stampa occidentale i rifugiati vengono spesso ritratti come persone disperate, senza cultura, e spesso come una possibile minaccia per i Paesi di accoglienza. Non ci si sofferma abbastanza a pensare che nella maggioranza dei casi, le persone che cercano salvezza in Europa provengono da culture ricchissime e millenarie e che il loro solo desiderio è di avere un futuro più sicuro. È per questo che in quasi tutti i suoi romanzi torna al luogo dal quale è partito? Come un dovere etico di restituzione e di preservazione della memoria?
Una delle cose belle dell’Europa e della cultura occidentale è la libertà di parola. È meraviglioso che ognuno possa esprimere il suo pensiero. È una cosa che mi piace, gli esseri umani hanno bisogno di parlare e di avere un’opinione sulle cose. Tutti questi milioni di migranti hanno le loro storie personali, la loro cultura, il loro background e abbiamo bisogno di uno scrittore come Kader Abdolah che possa mostrare chi sono e che cosa cambieranno. Qualcuno deve raccontare la loro cultura, le loro famiglie, le loro case e i loro bambini. Poi, ognuno potrà avere la propria personale opinione in merito.
Questa intervista è inedita per la rubrica doppiozero a cura della redazione di il Reportage.