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Italia policentrica / Il futuro delle piccole città

20 Dicembre 2020

Le città-mondo sono sempre esistite, ma in un passato pre-industriale erano piccole. Amalfi, Genova, Pisa o Venezia hanno esercitato un dominio economico, culturale e coloniale. 

All’interno di tali contesti, il cittadino era considerato la misura di ciò che accadeva, il suo operare significava essere parte di un gruppo e i suoi scambi producevano relazioni di comunità. 

Con l’industrializzazione le relazioni mutano: si determinano processi di agglomerazione e addensamento in nodi urbani che diventano sempre più grandi. 

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, questi nodi diventano metropoli che individualizzano e, al tempo stesso, massificano le relazioni. A partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, le relazioni subiscono ulteriori mutazioni: le città più importanti avviano un processo di allontanamento dai territori limitrofi e dagli stati-nazione: si assiste alla destrutturazione dei confini. 

Le città globali diventano contenitori di grandi dimensioni che dispongono dell’intero catalogo dei servizi di cui le culture e le economie del mondo necessitano. 

Luoghi di aggregazione finanziaria, legale, comunicativa e di ricerca, esse crescono inglobando fette di stati cui non appartengono. Emblematico il caso di Singapore che per motivi di spazio ha creato una zona economica speciale fuori dai suoi confini nazionali. Così facendo le città globali assumono, nei fatti, poteri sovranazionali come dimostra la sociologa Saskia Sassen in Sociologia della Globalizzazione (Einaudi, 2008).

 

Ma la storia è fatta di periodi di saturazione che danno luogo a rivolgimenti. 

In futuro si potrebbe determinare un ritorno al piccolo e al medio, senza pretendere di disinnescare la tendenza all’agglomerazione anche perché, secondo le stime del 2019 Global Cities Index - Kearney, nel 2100 più di 40 città supereranno i 40 milioni di abitanti 

La pandemia ha mostrato sentieri alternativi alle logiche dell’agglomerazione, ma dobbiamo rovesciare il modo di osservare i fenomeni per facilitare il cambiamento secondo una prospettiva relazionale – non dicotomica, ma ragionevolmente dialettica – che proponga un rapporto stabile tra piccolo, medio o metropolitano. 

Accanto alle parole che hanno alimentato il dibattito ‘novecentesco’ sullo sviluppo locale, dovremmo aggiungere termini catalizzatori, in grado di rileggere in modo nuovo i concetti di città, metropoli, agglomerato, area interna, centro e periferia. Flusso, connessione, riflessività sul senso del limite e comunità di progetto sono, secondo chi scrive, i catalizzatori di un nuovo corso. 

 

Il flusso articola la relazione tra persone e risorse che si determinano, facilmente o difficilmente, nei luoghi. La connessione articola la relazione tra distanza e vicinanza, fisica e psicologica, consolidando o indebolendo i legami di comunità. Mentre il flusso innesca movimenti, la connessione ordina e stabilizza i flussi, selezionando ciò che si ferma e ciò che continua a muoversi. 

Per limite intendo tutto ciò che innesca la riflessività sulla sostenibilità di flussi e connessioni. 

In questo senso il limite articola le relazioni – non binarie ma sfumate e circolari – tra fattori che solo in casi estremi si oppongono: velocità e lentezza, grande e piccolo, polare e diffuso, centrale e periferico, interno ed esterno, pubblico e privato, aperto e chiuso, proprio e comune. 

Flusso, connessione e limite dovrebbero orientare le strategie di qualsiasi progetto contemporaneo di sviluppo locale relazionale. Prima dell’avvento delle nuove tecnologie, il rapporto tra le metropoli e il resto era polare. Da un lato il protagonismo dei grandi nodi e dall’altro la riscoperta, nei tempi non lavorativi, delle biodiversità, del bello e del buon vivere nei piccoli centri.

Per oltre un secolo le metropoli sono state indifferenti a ciò che era piccolo e vicino, come aveva già intuito Simmel. Nei piccoli centri si verificava esattamente il contrario: esaltazione delle relazioni autoctone, paura del confronto con il resto del mondo. 

 

 

Questo scenario è cambiato, ma la collettività non ha ancora compreso la portata trasformativa. 

Oggi tutti i nodi possono essere importanti, così come possono subire un improvviso declino. 

Gabriele Pasqui, in un suo contributo all’interno del Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di Cersosimo e Donzelli, afferma che la rigenerazione dell’Italia passa necessariamente da un progetto di relazioni: tra aree interne e città medie, tra periferie metropolitane e regioni urbane in declino, tra coste e valli, tra flussi globali e relazioni locali. L’Italia è ovunque fragile, demograficamente, ambientalmente, infrastrutturalmente; e da questo punto di vista andrebbe ricomposta a partire da una comunità civile e istituzionale che percepisca i problemi allo stesso modo, portando avanti una strategia coesa e coerente di lungo periodo. Un percorso che non può riproporre le gerarchie del passato che hanno reso protagonista la città metropolitana e ancillare il resto. Ma la ricomposizione tra grande, medio e piccolo deve evitare la mitopoiesi: siamo passati dal mito della metropoli come unico nodo di comando in ogni ambito di sviluppo, al mito del piccolo borgo come salvifico e alternativo, passando attraverso il mito della città intermedia (o mediana secondo le scuole di pensiero) cerniera tra locale e globale, ossatura del sistema paese. Stando alla ricerca dell’Associazione Mecenate 90, anch’essa pubblicata nel 2020 – L'Italia policentrica Il fermento delle città intermedie – le città intermedie in Italia sono ancora percepite come centro del sistema-paese più che nel resto d’Europa, visto che il 15 per cento della popolazione vive in città tra i 50mila e i 250mila abitanti, mentre nelle altre nazioni europee la percentuale è pari al 6 per cento.

 

Tuttavia, pensare che le città mediane possano essere fulcro esclusivo della ripartenza italiana, significa cadere – ancora una volta – nella trappola riduzionista e causalistica di chi vuol trovare un unico elemento che faccia da volano per le nuove forme di sviluppo: si tratta di un’evidente fallacia scientifica. Ci troviamo in uno scenario differente rispetto alla cosiddetta terza Italia presa in esame da Bagnasco negli anni ’70 del secolo scorso. L’Italia dei distretti c’è ancora, ma è fortemente mutata in termini di coesione sociale, produttività, occupazione e capacità di costruire un sistema del credito locale. La teoria che presupponeva embeddedness, ossia incorporazione tra sfera economica e valori non economici (Bagnasco A., Tre Italie: la problematica territoriale dello sviluppo italiano, il Mulino, 1977) determinante per una produttività qualitativa sui generis, non è sufficiente a spiegare la morfogenesi delle città e dei loro distretti. 

Lo stesso dicasi per la prospettiva teorica del capitale sociale e della civicness di Putnam (Putnam R.D., La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993). Accanto ai suddetti aspetti, si affianca il tema dell’insostenibilità che tocca tutti i luoghi: quelli eccessivamente popolati (logorati dall’over turismo, dalla densità abitativa, dall’industrializzazione e dall’edificazione non programmata) e quelli a rischio desertificazione, dove la mancanza di presidio genera calamità naturali. Nessun luogo è al riparo dall’emergenza, qualsiasi insediamento deve riposizionarsi e rinnovarsi in termini di flussi, connessioni, legami di comunità e riflessività sul senso del limite, favorendo un processo di ripopolamento in condizioni di sicurezza antisismica. 

 

 

Occorre realizzare infrastrutture, ideare nuove forme di accoglienza generando modelli alternativi alla cultura degli eccessi del pieno e del vuoto. Anche la coesione sociale delle aree intermedie è un mito da sfatare: rappresenta un’aspirazione piuttosto che un dato acclarato. 

Appartiene ai ricordi delle generazioni che hanno attraversato il novecento, ma per un nativo digitale la coesione rappresenta una dimensione leggendaria, non direttamente esperita. 

Ci sono, tra l’altro, studi che problematizzano gli aspetti ambivalenti della coesione: in alcuni contesti nazionali e in specifiche epoche storiche, coesione sociale e integrazione sistemica hanno favorito l’ascesa di forme autoritarie (Cieri P., Quanto è possibile e desiderabile la coesione sociale? in Quaderni di Sociologia, n. 46/2008). 

 

Anche la coesione sociale considerata in sé non spiega un fenomeno, semmai entra in relazione con altri aspetti, favorendo oppure ostacolando connessioni e processi virtuosi. Dobbiamo costruire un percorso in cui le dimensioni macro, meso e micro si rapportino senza ostacolarsi, nella consapevolezza che tutti i nodi sono importanti, purché intercettino flussi e rinnovino connessioni, dandosi dei limiti. Parag Khanna osserva le città in termini di hub di smistamento e pianificazione: un’interpretazione che cambia l’osservazione dei fenomeni. In uno dei suoi saggi più noti, Connectography postula la tendenza inarrestabile alla connettività globale, ma segnala che la crescita solipsistica dei grandi nodi è diventata insostenibile e controproducente. Che fare allora? Nelle pratiche quotidiane il centrale e il periferico non si oppongono, ma si integrano o si escludono parzialmente, così come non esistono città iper-connesse che si oppongono a città disconnesse. Ad esempio, il piccolo comune abruzzese di Torricella Peligna è relazionalmente vicino – anche se fisicamente distante – alle università di grandi città italiane e americane per quanto riguarda la letteratura di John Fante, grazie a un festival internazionale partito quindici anni fa; oppure il distretto industriale della Val Di Sangro, nella provincia di Chieti, e la Motor Valley del modenese hanno più legami tra loro che con i rispettivi centri limitrofi. 

 

Il piccolo comune di Belmonte Calabro ha costruito flussi temporanei con i docenti della facoltà di architettura della London Metropolitan University che organizzano una Summer School dedicata al recupero architettonico del paese. Questi flussi hanno dato vita, nel tempo, a connessioni stabili che hanno prodotto legami forti e investimenti che sanno di reciprocità. L’esperienza si è consolidata, creando una connessione forte tra la comunità locale e quella estera, determinando anche nuovi flussi turistici. Il progetto, nel tempo, si è trasformato in una comunità di progetto, altra parola chiave che dovrebbe riarticolare le forme dello sviluppo locale: un sodalizio tra chi progetta, chi risiede e chi beneficia dei servizi offerti. Su questo sentiero oggi ci sono molte esperienze interessanti in Italia, da Nord a Sud, prese in esame in un altro libro, uscito anch’esso nel 2020 (D’Alessandro S., Salvatore R., Bortoletto N., Ripartire dai borghi per cambiare le città, Franco Angeli, 2020).

Il futuro ci prospetta nuovi cambiamenti sul modo di osservare le dimensioni e i legami: come potremmo definire una città media europea che non supera il milione di abitanti di fronte a città asiatiche classificate come medie ma popolate da dieci milioni di residenti? La città media europea verrà riclassificata piccolo comune? In tale scenario che strategie potrà adottare il comune con meno di mille abitanti: integrarsi, ribellarsi o scomparire? 

 

L’Italia, da sola, non può arrestare una tendenza globale. La decongestione e la de-agglomerazione globale dipenderanno da scelte condivise di tipo sovra-nazionale, ma potrebbe giocare un ruolo paradigmatico alternativo. Certamente molti piccoli centri continueranno a scomparire – 2.000 paesi con meno di mille abitanti sono a rischio desertificazione – altri però si ripopoleranno, altri ancora entreranno in una connessione con città medie e grandi, cercando di contrastare il processo di gentrificazione. L’alternativa all’agglomerazione è stata comunque lanciata e i risultati dipenderanno da scelte politiche di una classe dirigente che sappia fare sistema almeno su questo tema. Lo speriamo tutti. È in gioco il futuro della competitività che si integra al buon vivere, tratti distintivi del Bel Paese. 

 

Accademia Unidee è il prototipo di un nuovo tipo di accademia d’arte della Fondazione Pistoletto. La proposta nasce dal percorso e l’esperienza del grande artista e dalle numerose azioni e iniziative ospitate nella sede di Cittadellarte. Accademia Unidee si caratterizza per una conoscenza multidisciplinare, orientata alla sostenibilità, all’innovazione consapevole, con attenzione all’impatto delle tecnologie sull’uomo, sull’ambiente e sulla società, e con una forte vocazione alla ricerca. 

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