Domani alle OGR, Torino / Psicopatologia del codice a barre
Tutto inizia con la Experimental Barcode Animation di Scott Blake:
“Dimenticanze, lapsus, sbadataggini, superstizioni ed errori” (ma molto altro ancora): così nel 1901 Sigmund Freud sottotitolava il suo saggio Zur Psychopathologie des Alltagslebens. Qui non si tratta di parafrasare un classico della psicologia, ma di ripercorrere attraverso l’evoluzione di un artefatto le varie declinazioni antropologiche di un segno che vorrebbe essere moderno, ma che racchiude in sé le origini stesse del linguaggio. E per questo motivo si mettano le parole in gioco, non solo in italiano.
Le parole
Bar è una parola che risale a una fonte aramaica (in ebraico בר ) che significa " figlio " o "esterno", ma in inglese deriva da una contrazione del termine inglese "barrier", cioè la sbarra che nelle osterie separava l’angolo destinato alla mescita degli alcoolici. In italiano il termine fu probabilmente inventato nel 1898 da Alessandro Manaresi, che aprì il primo bar in Italia, a Firenze, come acronimo di “Banco A Ristoro”. Il bar è anche l’unità di misura della pressione nel sistema CGS, e 1 bar = 1,0 × 105 Pa.
Code oltre a significare in inglese il “codice” (anche delle pandects o quello illuminated) significa anche “prefisso” o “cifrario”. In italiano è il plurale di “coda”. Ma ancora Code è un’unità amministrativa del comune di Bauska (Lettonia); e parlando di musica, un gruppo musicale black metal, un album dei Cabaret Voltaire del 1987 e un album di Lukas Rieger del 2018.
Ma perché non giocare ancora di più con le parole?: Bar Are, Bar Atto, Bar Attolo, Bar BA, Bar Bari, Bar Betta, Bar Bino, Bar Bone, Bar Botto, Bar Bottone, Bar Ca, Bar Carola, Bar Code, Bar Colla, Bar Collare, Bar Dare, Bar Dato, Bar Dito, Bar Do, Bar Dolino, Bar Dotto, Bar Etto, Bar GE, Bar Giglio, Bar Ile, Bar Io, Bar Ista, Bar Letta, Bar Letto, Bar Lume, Bar Olo, Bar One, Bar Ra, Bar Rio, Bar Ricco, Bar Rito, Bar Rotto, Bar Tolomeo.
Il BarLume è il famoso locale dove sono protagonisti i vecchietti investigatori dei romanzi polizieschi di Marco Malvaldi; ma esistono vari locali di nome “Bar-Lume” in numerose località italiane, da Bari a Udine, da Caserta a Dolcedo. I BarCode esistono invece, declinati in lingua inglese, nel New Jersey e in South Carolina, come a Barry nel Wales; fino a poco tempo fa ce n’era uno a Manhattan in Times Square, ma ora è chiuso. Ne esiste uno anche a Torino, in piazza Statuto.
La storia
Ritorniamo al codice a barre nella versione a noi più usuale ed entriamo in un supermercato dove alla cassa il codice a barre, stampigliato su ogni prodotto ne assegna la tipologia ma soprattutto il prezzo. La quotidianità ci riporta subito alla sigla iniziale della serie di cartoni animati The Simpsons dove la piccola Maggie finisce sul bancone a rulli della cassa e dove il laser scanner ne rileva “il prezzo”: 847,63 $ che – si dice – sia il costo mensile negli USA di un figlio di 12-24 mesi.
La storia del codice a barre si inizia nel 1948 quando Joseph Woodland, ingegnere elettronico, sollecitato dalla Food Fair, una grossa catena alimentare, stava studiando di ideare un semplice simbolo che passato sotto uno scanner potesse tradurlo in un numero capace di identificare un prodotto. La leggenda dice che l’idea gli venne su una spiaggia Miami tracciando dei cerchi sulla sabbia e pensando al codice Morse. In realtà i primi “codici” non si chiamavano “a barre”, ma piuttosto assomigliavano a un “occhio di bue” ed erano di forma circolare. Joseph Woodland e Bernard Silver presentarono all’US Patent Office la loro idea il 20 ottobre 1949 ed ottennero il brevetto nel 1952 con il titolo “Classifying Apparatus and Method” ma questa invenzione per circa un ventennio rimase nascosta negli scaffali perché la tecnologia risultava troppo cara.
Nel 1973 una catena di supermarket diretta da Alan Haberman decise che era necessario poter disporre di un simbolo acquisibile otticamente che velocizzasse le code alle casse e emisero una “procurement specification” che distribuirono a 14 società compresa l’IBM. L’ingegner George Laurel che allora lavorava all’IBM, ricevette la richiesta di sviluppare l’idea di Woodland, ma lui non era convinto che un simbolo circolare potesse essere la soluzione: ne propose uno di forma rettangolare. Questa soluzione fu quella vincente per il “Symbol Selection Committee” ed essa prese il nome di “Universal Product Code” (UPC). Un anno dopo, nel 1974, apparve sui banchi dei supermercati un pacchetto di chewingum contrassegnato dal codice a barre, per dimostrare che anche nelle più piccole dimensioni il codice a barre era un mezzo assai efficiente per identificare il prodotto.
Prima ancora del successo di Goerge Laurel, le ferrovie statunitensi investirono risorse per identificare i vagoni ferroviari merci in movimento. Furono studiate soluzioni di rilevamento magnetico (Magnetic Coding System for Railroad Cars, US 2,981,830 del 25 aprile 1961), uno con telecamera (Telefilm Freight Car Identification System, US US2956117A, dell’11 ottobre 1960) e un sistema a rilevamento a microonde (Microwave Identification of Railroad Cars, US US3247508A del 19 aprile 1966). Un sistema ottico di identificazione dei vagoni ferroviari inventato dall’ingegner David J. Collins, allora dipendente della General Telephone and Electronics (GTE) sussidiaria della Sylvania, il quale già da studente del MIT di Boston aveva lavorato su temi ferroviari, vinse la gara delle ferrovie. Il sistema di Collins fu implementato con il nome di KarTraK (un nome palindromo) ma visti gli scarsi risultati fu presto abbandonato all’inizio degli anni ’70. Così si poteva leggere su “The New York Times” dell’11 ottobre 1967: Railroads adopt freight-car plan. New Setup Allowing Instant Location to Lift Efficiency, in un articolo di Robert E. Bedingfield.
Altri ancora riportano che Wallace Flint quando era studente alla Harvard Business School nel 1932 aveva proposto in una sua tesi “an automated checkout system” che prevedeva l’uso di schede perforate associate ai prodotti per sveltire le operazioni di cassa e di magazzino. Quarant’anni più tardi, quando Wallace Flint era vicepresidente della Association of Food Chains, memore della sua tesi giovanile sosterrà vivamente lo sviluppo dell’UPC Code. Anche in Italia in quegli anni alcuni supermercati avevano adottato il sistema delle schede perforate… le storie si ingarbugliano e l’idea di una storia lineare è spesso contraddetta.
Gli archetipi
All’inizio ci sono le zebre. Poi arrivano gli umani e incominciano a tessere. Poi è stato il tempo del tallit, lo scialle di preghiera degli ebrei. E per una perversa metamorfosi le barre, le strisce sono diventate la divisa dei deportati nei campi di concentramento nazisti.
Ma ciò che è ancora più inquietante è la presenza del codice a barre come elemento decorativo (?) del proprio corpo, sotto forma di tatuaggio. Ancora una volta un lapsus oppure una dimenticanza, una sbadataggine, o più semplicemente un errore? Ci vorrebbe la forza della superstizione per mettere in fuga l’equazione che lega il tattoo, al numero inciso sul braccio dei deportati.
Non è di questi archetipi che qui si vuole parlare, ma piuttosto dei segni che sono serviti per identifiare, per contare, per valutare. Non tanto segni-simbolo, ma segni-numero, anche se inevitabilmente le due categorie si mescolano, si confondono e le premesse – fatte per semplificare – subito crollano, e fanno nascere nuovi dubbi.
Semplici tacche incise su in tronco per marcare i propri armenti, o per segnare i giorni che passano, su un’isola deserta o all’interno di una cella. Qui comincia la storia dei numeri, perché le dita sono troppo poche… e così si inventa la taglia, ossia il bastone con le tacche. Per contenere il numero di intagli e facilitare la lettura ogni cinque tacche si introduceva un simbolo diverso, che rappresentava la cinquina, quindi la decina e così via. Così nacque il sistema additivo a base 10, universalmente noto con il nome di “numeri romani”: I=1, V=5, X=10, l=50, C=100, D=500, M=1000, adottato se pur con simboli diversi da quasi tutte le civiltà del Mediterraneo antico. E non dimentichiamo che la “tacca” in inglese si dice “score”, che vuol dire anche punto, punteggio.
Dall’altra parte del mondo, nell’antica Cina, nasce invece una notazione a base 2, che fa la sua apparizione con il Libro dei Mutamenti (易經, 易经, Yìjīng, I Ching), conosciuto anche come Zhou Yi 周易 o i Mutamenti (della dinastia) Zhou, è ritenuto il primo dei testi classici cinesi. Successivamente evoluto in un sistema più complesso fu considerato da Confucio come libro di saggezza e popolarmente usato come supporto alla divinazione. Il Libro è diviso in due sezioni, jing 經 o 'classico' e zhuan 傳 o 'commentario'. La prima sezione è composta da sessantaquattro unità, ognuna basata su un esagramma (gua 卦) composto di sei linee che sono o continue (⚊) rappresentanti il principio yang o interrotte (⚋) rappresentanti il principio yin. Per ogni esagramma vi è una spiegazione, che invita chi l’ha sorteggiato a meditare.
A seguito dei viaggi in Cina di Matteo Ricci l’I-Ching fu conosciuto anche in Europa e Gottfried Wilhelm von Leibniz nella sua pubblicazione del 1697 Novissima sinica (Ultime notizie dalla Cina) vide in quel simbolismo (linea spezzata=0; linea unita=1) un perfetto esempio di numerazione binaria come illustrò nel suo saggio del 1705, Explication de l'Arithmétique Binaire. Più di cento anni più tardi il sistema sarà riscoperto da George Boole che ne farà fondamento per l’Aritmetica binaria.
Intanto sul piano pratico, agli albori del XIX secolo, il francese Joseph Marie Jacquard utilizzò la codifica binaria su schede di cartone perforate per comandare i licci in un telaio automatico che da lui prenderà il nome, e pochi anni più tardi il matematico inglese Charles Babbage utilizzerà le schede perforate per introdurre i dati nel suo Analytical Engine: un sistema reso pubblico proprio a Torino nel 1840 nella Seconda Riunione degli Scienziati Italiani.
Leibniz, Jacquard, Babbage e Boole sono alle origini, se pure su piani diversi, di quel sistema di bit e di pixel che oggi ci vede spettatori della Rivoluzione Digitale.
Per saperne di più:
Anna Lisa Bonfranceschi, Arriva il codice a barre, in “WIRED”, 26 giugno 2012.
Stephen Brown, Revolution at the Checkout Counter: Explosion of the Bar Code, Cambridge MA : Harvard University Press, 1997.
Ken Budnick, Paperbyte Bar Code Loader, Natick MA : Byte, 1977.
Sara Calabrò e Vittorio Marchis, Le macchine che contano, Milano : Telesma, 2000.
David Jarrett Collins, KarTrak - The First Bar Code Scanner , in “UID Quarterly” - A2B Track Ing Solutions, Winter2011.
Marc Crampton, Barcode Killers. The Slipknot Story in Words and Pictures, New Malden UK : Chrome Dreams, 2002.
Alan L. Haberman, Twenty-five Years Behind Bars: The Proceedings of the Twenty-fifth Anniversary of the U.P.C. at the Smithsonian Institution, September 30, 1999, Cambridge MA : Harvard University Wertheim Publications Committee, 2001.
Doron Shaked, Avi Levy, Zachi Baharav, Jonathan Yen, A Visually Significant Two Dimensional Barcode, in “HP Invent” (HP Laboratories Israel, HPL-2000-164 (R.1), December 14th , 2001).
Domani sera, martedì 27 marzo alle ore 18, Vittorio De Marchis terrà una lezione sul Codice a Barre alle Officine grandi Riparazioni (TO), all'interno della rassegna Scintille.