Roberto Arlt, figlio e padre di Buenos Aires

4 Ottobre 2015

«Tutti i giorni, alle cinque del pomeriggio, m’imbatto in ragazze che vengono a prendere il cucito. Magre, afflosciate, sofferenti. La polvere di riso, usata come cipria, non basta a coprire il collo dove si scoprono i tendini, e tutte camminano col corpo piegato su un lato, per l’abitudine di portare sempre il pacco con l’altro braccio. E i pacchi sono grossi, pesanti: danno la sensazione di contenere piombo, stancano la mano nello sforzo. Non si tratta di sentimentalismo da quattro soldi. No. Ma più di una volta mi sono messo a pensare a queste vite così, quasi interamente dedicate al lavoro» (“La ragazza del pacco”, in Acqueforti di Buenos Aires, tr. it. di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio 2014, p. 76).

 

Questo è l’incipit di un’Acquaforte di Robert Arlt, uno degli articoli che a partire dalla fine degli anni Venti resero popolare in patria l’autore argentino e gli permisero di guadagnarsi da vivere con un’ammiccante e cronachistica arte della scrittura che altrove diventa invece monastica e angosciosa. Pubblicate sulle pagine del giornale «El Mundo», al culmine delle vendite quando c’era la firma di Arlt, le Acqueforti vivono attraverso lo sguardo estremamente soggettivo con cui lo scrittore ritraeva l’umanità vacillante osservata lungo le passeggiate e i cantoni più o meno nascosti della sua città: Buenos Aires. Quella stessa metropoli che, con il lavoro di romanziere, egli stava nel frattempo trasformando a suo modo in scenario d’eccellenza per la narrativa urbana.

 

Roberto Arlt

 

Roberto Arlt non può essere pensato nei paesaggi distesi della pampa. Egli recalcitra pertinace al lazo del gaucho, si libera dai legacci del piccolo pueblo e dalle spire delle malinconie agresti del contado. E allo stesso modo rifiuta di accomodarsi stabilmente negli altrove del fantastico, ecosistemi letterari alternativi che in Argentina hanno ospitato alcuni tra i più grandi narratori del Novecento. Certo, non è stato il primo ad aver utilizzato il contesto urbano, ma prima di molti Arlt ha fatto della città non soltanto il luogo delle vicende narrate, ne ha fatto soprattutto un personaggio vivo e ardente che incombe senza sosta sugli abitanti dei suoi libri.

 

Figlio di un’immigrata triestina e di un prussiano egualmente immigrato, tenace apostolo dostoevskijano, Roberto Arlt ha preso la Buenos Aires meschina e disgraziata del primo Novecento per tramutarla a suo uso esclusivo. E così nelle sue pagine incontriamo la lingua caotica, la dimestichezza con l’eslege, le mistioni transoceaniche, gli incroci di sudiciume e collera, la miseria che emana dal lerciume del porfido, il grottesco esposto senza meraviglia sulla pubblica piazza, i funambolismi sintattici, lo sprezzo per i salotti borghesi e per ciò che è leziosa accademia. Dalla Buenos Aires reale, emblema della città moderna e cosmopolita, fatta di pezzi di mondi giustapposti in un quadro originariamente incrinato, Arlt ha preso e riplasmato soprattutto la bruma che fuoriesce dalle crepe del fallimentare progetto moderno della convivenza per farne infine un immenso luogo letterario e indipendente: se senza dubbio è un figlio legittimo della città di pietra, Arlt è di certo anche il padre di quella di carta.

 

Nelle sue storie, infatti, la bruma di cui si è detto si solidifica all’esasperazione nel profilo dei personaggi, diventa in loro una materializzazione esacerbata dell’impossibilità del successo che talvolta suona come un’elegia neutra del crimine che non porta a nulla, o della ribellione senza sbocco. Tutto, in Arlt, vive in ragione di un ecumenico tracollo. Chiunque è piegato a una grande messinscena della sofferenza all’unico scopo di negare una realtà di cui si è smarrito il senso, e così bramare la sconfitta: «I personaggi di Arlt amano la sofferenza come quelli di Dostoevskij, ma non perché può condurre al Bene: interessa loro l’aspetto teatrale della sofferenza, che va sfruttata a fini narrativi. Il crimine è perpetrato come se fosse uno spettacolo teatrale. […] Tipi sotterranei con una letteratura manifesta, gli eroi arltiani hanno insito il disprezzo per la realtà» (Loris Tassi, Variazioni sul tema della lettura: l’opera di Roberto Arlt, Aracne 2007, pp. 40, 45).

 

È a partire da Il giocattolo rabbioso (1926, trad. it. di Angiolina Zucconi, Cargo 2012), per passare poi attraverso il dittico di romanzi costituito da I sette pazzi (1929, trad. it. di Luigi Pellisari, Sur 2012) e I lanciafiamme (1931, trad. it. di Luigi Pellisari, Sur 2014), di recente ripubblicati qui da noi grazie alla continua riscoperta arltiana che stiamo vivendo negli ultimi tre anni (complice anche la scadenza dei diritti sulla sua opera), che Arlt fa di Buenos Aires il suo esteso dominio letterario, asfittico e bizzarro: una di quelle «città terribili sulle cui terrazze cade la polvere delle stelle e nel cui sottosuolo triplici reti di treni sotterranei sovrapposti trascinano un’umanità pallida verso un infinito progresso di inutili meccanismi» (I lanciafiamme, p. 61). La città moderna è qui portata all’eccesso dell’assenza, diventa un luogo turbolento e illogico su cui transitano caratteri sempre al di fuori della grazia di Dio: gente disillusa e spesso livorosa, canagliume dei bassifondi, perdenti per statuto, curiose accolite di rivoluzionari senza alcuna speranza, persone spaesate alla ricerca di un’impossibile realizzazione che si pongono gli obiettivi più strambi, come accade negli ultimi due romanzi appena citati, in cui un gruppo composito di disadattati, formato dai più bizzarri elementi reperibili nell’esperienza e nell’immaginazione, cerca di mettere in piedi una farsesca società segreta, finanziata tramite gli introiti di una catena di bordelli, grazie alla quale rovesciare il potere esistente e proporne uno nuovo, in un contrappunto satirico ma per nulla severo delle sperimentazioni rivoluzionarie recentemente avvenute nel mondo.

 

La produzione di Roberto Arlt non è però soltanto romanzo e giornalismo. La sua penna, che nell’ultima parte della biografia dello scrittore si dedicherà in misura privilegiata al teatro, ha dato vita nel tempo a un cospicuo numero di narrative brevi che sfruttano il baleno della durata ristretta per dare contezza dello stesso mondo ammattito, farsesco e crudele dei suoi romanzi, in una condensazione ipertrofica di quei medesimi caratteri che nelle lunghe narrative popolano un’aria di certo più estesa. Si prenda per esempio l’esposizione vertiginosa di perversioni individuali all’interno di quella folla casuale che si ritrova su una nave in balìa di un naufragio al largo delle coste americane tra il Cile e Panamà, come in Un viaggio terribile (trad. it. di Raul Schenardi, Arcoiris 2012).

 

Dei racconti tradotti in Italia, a seguito di Scrittore fallito (trad. it. di Raul Schenardi, Sur 2014) in cui sono antologizzate undici delle sue numerose narrazioni brevi, leggiamo adesso la piccola selezione intitolata Una domenica pomeriggio (Sur 2015), in cui tre racconti (considerati unanimemente tra i più importanti di Arlt e già in passato tradotti qui in Italia ma ormai pressoché dimenticati) esprimono in maniera esemplare le tendenze narrative dell’autore, presentandoci personaggi usciti direttamente da quell’immenso disastro biografico e urbano che è stato costante leitmotiv della sua letteratura. In questa piccola raccolta ci imbattiamo infatti in un fidanzato sfortunato e privo del dono della coerenza che cerca testardamente di raggiungere il fallimento della sua inesistente storia d’amore grazie al supporto di un deforme abitante dei margini (“Il gobbetto”); oppure ascoltiamo un dialogo sull’inconsistenza dell’amore borghese tra un uomo separato e una donna sposata, entrambi aspiranti fedifraghi, che fanno miseramente fiasco nel loro silenzioso progetto di adulterio (“Una domenica pomeriggio”).

 

Ma è in “Le belve” che la disposizione di Arlt verso la letteratura diventa davvero un dato palpabile e concreto. In questo breve e sensazionale lavoro sentiamo infatti la voce di un dispensatore di perfidia che si confessa raccontando a un’anima contumace, che si suppone invece delicata, il baratro sempre più profondo della sua esistenza: un’esistenza condivisa con compagnie dalla morale incattivita e vocata essenzialmente a tutto ciò che è marcio. Basta soltanto leggere l’incipit: «Non ti dirò mai come sono sprofondato a poco a poco, giorno dopo giorno, fra uomini dannati, ladri e assassini, fra donne che hanno la pelle del viso più ruvida della calce screpolata. A volte, quando ripenso al punto a cui sono arrivato, ho l’impressione che nella mia testa si agitino grandi tele d’ombra, cammino come un sonnambulo e il processo della mia decomposizione mi appare incastonato nell’architettura di un sogno mai avvenuto» (Una domenica pomeriggio, p. 27). Le belve del titolo sono esattamente questi uomini dannati di cui fa parte anche il narratore, elemento intercambiabile di un gruppo esteso di mentecatti e truffatori, di magnaccia e puttane, tutta gente che tra un’azione fuorilegge e l’altra aspetta il suo destino preferibilmente tra le quattro mura di un bar più che losco in cui le storture dell’uomo si mostrano in parata. E nella quiete del tavolino generalmente si sta in silenzio a bere e contemplare il putridume, ma può capitare anche che si parli per festeggiare un colpo ben riuscito; e così, «se si parla, è del carcere, delle notti eterne alla “berlina” […], se si parla è dei metodi dei giudici, dei politici a cui sono venduti, degli sbirri e della loro crudeltà, di interrogatori […], se si parla è di condanne, sofferenze, torture, cazzotti in faccia, pugni nello stomaco, strizzate di testicoli, pedate negli stinchi, dita schiacciate, polsi slogati, pestaggi con pezzi di gomma, martellate con il calcio della pistola… se si parla, è di donne ammazzate, sequestrate, scappate, bastonate…» (Una domenica pomeriggio, p. 40). Perché, in fin dei conti, in qualsiasi posto, anche in quelli essenzialmente letterari, si parla del mondo che si conosce, e ci sono persone che conoscono soprattutto il sudiciume, e lo amano, come d’altronde il protagonista e narratore del racconto, come d’altronde Roberto Arlt, uno che scriveva soltanto per tramortire il lettore e mettergli davanti agli occhi il fallimento e la sofferenza. E perché infine i libri e la letteratura, seguendo il nostro autore, non sono affatto faccenda per timide mammolette.

 

 

 

Il libro: Roberto Arlt, Una domenica pomeriggio, trad. it. di Raul Schenardi, Edizioni Sur 2015, pp. 60, € 7,00

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