Il romanzo e il paesaggio / Visioni in dissolvenza

2 Aprile 2016

Un edificio enorme, attraversato da un groviglio di scale e di corridoi che si ripetono ovunque uguali e forse ogni tanto si spostano quando qualcuno cerca di rientrare nel suo appartamento e si ritrova invece nei gabinetti del McDonald o in un’aula dell’università. Siamo al numero 3847 di Mystic Avenue, in una città americana immaginaria, distesa tra fiume e collina, dove i personaggi di questa storia, intellettuali che hanno perso la memoria e che gravitano attorno a un fantomatico “Istituto di Cultura Arte Letteratura Filosofia Eccetera”, sbarcano senza sapere bene il perché, delusi dalla vita, incerti di tutto, convinti di aver perso le illusioni e forse il loro stesso nome: da quando hanno messo piede in città hanno cominciato a sentire delle voci, voci femminili che ricordano il canto delle sirene e voci inquietanti che rimbombano negli spazi semideserti del casermone. Ogni tanto, nel corridoio che porta alla camera da letto, passa sfrecciando la sagoma di un cane: viene il sospetto di essere arrivati all’inferno e che il cane sia una creatura dell’oltremondo inviata a Mystic Avenue per portarsi via le loro anime. 

 

Roma

 

La città che Daniele Benati costruisce nelle sue pagine, attingendo ai ricordi del suo soggiorno al MIT di Boston, ha legami scoperti con l’universo dantesco e con i suoi abitanti: le rane che spuntano dall’acqua marcia del fiume e fanno tuffi scomparendo e ricomparendo in superficie richiamano alla mente i traditori dentro al Cocito ghiacciato e i personaggi principali, con nomi che cominciano tutti con la lettera P, ricordano le anime del purgatorio: sono dei proscritti, dei deportati in un altro paese nel quale devono vivere a domicilio coatto, benché si trovino in un grande centro internazionale e cosmopolita com’è la maggior parte delle metropoli americane. Arrivando in città i personaggi avvertono il vuoto dell’esistenza, l’inutilità del loro mandato, qualunque esso sia, e la solitudine che sentono come una pena si attenua a volte nell’attesa di una telefonata, nel desiderio di una donna incontrata per caso, nella consolazione del fumo e dell’alcol. Questa forma di disorientamento esistenziale si rispecchia nella costruzione che ospita, in una topografia instabile, appartamenti residenziali, un fast-food, aule universitarie, un albergo, una villa antica con il suo giardino e un monastero, al quale si accede attraverso un tunnel sotterraneo che passa sotto l’università. Più che gli spazi separati ma riconoscibili de La vie mode d’emploi di Perec, il caseggiato di Benati ricorda certe costruzioni di Ballard, organismi mostruosi nella loro apparente mutifunzionalità, dove tutti guardano tutti e la vita privata si riduce a una pantomima messa in scena per un pubblico di spettatori chiusi come morti nelle tombe, nonostante l’immensa apertura visiva consentita dalle finestre.

 

Graz, Austria

 

Calvino, concludendo Le città invisibili fa dire a Marco Polo che bisogna cercare quello che inferno non è e farlo durare. Anche Walter Benjamin, nelle sue Immagini di città, dopo aver evocato la figura del labirinto raccontando il suo arrivo alla stazione di Mosca, pur percorrendo una città che si maschera, sfugge, inganna, quando la giornata volge al termine ritrova un punto d’orientamento nelle immaginazioni notturne. Alla fine – scrive Benjamin – «carte e piante hanno la meglio: alla sera a letto la fantasia si diverte a far giochi di destrezza con edifici, parchi e strade reali». Si tratta – è vero – di una mappatura fantastica, tanto più convincente e perentoria quando arriva a dare consistenza ai sogni. Nei racconti della generazione successiva, di cui Benati è una voce emblematica e consapevole, sembra viceversa che un labirinto senza vie di fuga sia una forma con cui dobbiamo imparare a convivere. Tuttavia nella città di Benati gli itinerari seguiti dai personaggi rimandano piuttosto al movimento retrogrado e potenzialmente infinito della spirale, figura che incarna il senso della dislocazione, la spinta di forze opposte, centrifughe e centripete, e i loro rapporti di concentrazione e di espansione. Le storie dei personaggi si richiamano intrecciandosi e rimandando la loro fine ad un altrove che cade fuori dal testo, affidandosi alla figura dominante della ripetizione con variazione, che non permette di chiudere il cerchio delle esistenze e degli spazi all’interno di un confine stabilito.

 

Harbin, China

 

Ma se Ballard immagina scenari catastrofici nella città assediata dallo sguardo dei congegni elettronici che non lasciano spazi di libertà (si pensi alla rivolta dei figli che fanno strage dei genitori in Un gioco da bambini), Benati sottrae i suoi personaggi e gli spazi che li ospitano alla ferocia di quel mondo che il cinema e il romanzo americano hanno saputo restituire in un’infinita varietà di declinazioni. Cornice purgatoriale – sembra suggerire Benati stesso – più che girone di un inferno senza redenzione. Se la tragedia viene qualche volta sfiorata o evocata, finisce poi per stemperarsi nelle variazioni di una voce narrante che si mantiene costantemente all’interno di una rigorosa tonalità grottesca: uno dei proscritti, confinato in un appartamento al primo piano dove i miasmi del McDonald tolgono il fiato, minaccia di uccidersi, vuole impiccarsi con la cinghia dei pantaloni ed è già pronto a farlo se non gli cambieranno immediatamente l’appartamento. Poi il nuovo appartamento arriva, ha il prato davanti quasi come una villetta, e la cinghia torna al suo posto, a tener su i pantaloni. Per quanto effimeri, i desideri a cui si aggrappano i personaggi hanno il potere di riportarli alla terra, tenendoli ancorati a un filo che impedisce loro di sentirsi dispersi nella «schiuma metropolitana». Accendersi una sigaretta nella notte, incontrare una ragazza che forse un giorno si rivedrà, partecipare per gioco a una festa universitaria sotto falso nome: sono piccoli scarti che salvano dal «buco nero della marcia solitudine»

 

Milano 1998

 

La permeabilità degli spazi come l’assenza di separazione fra i personaggi, con quell’iniziale che li accomuna insinuando il sospetto che alla fine possano essere facce molteplici di un’unica figura, sono cifre della narrativa di Benati che si ritrovano in tutti i suoi racconti: Un altro che non ero io, raccolta di testi appartenenti a un arco cronologico ampio (1987-2007), presenta dei racconti appaiati, «legati a due a due come fratelli». In Silenzio in Emilia, primo libro pubblicato nel 1997, i personaggi sono avvicinati da un destino comune che li tiene sospesi tra la vita e la morte in un regime d’indecidibilità: sono forse già passati ad altra vita e quello che attraversano è un aldilà che conserva solo una traccia labile del loro passato. Spazio e narrazione sono accomunati da un movimento continuo che restituisce una visione instabile tematizzata nell’ultimo racconto degli undici che compongono la raccolta (undici, come i giocatori di una squadra di calcio sono anche i capitoli di Cani dell’Inferno e di Un altro che non ero io), intitolato Tema finale: Lino, il figlio di Socetti, tornando a casa dopo aver preso l’ennesimo quattro in un tema scolastico ed essere stato escluso dalla sua squadra di calcio, sente un rumore alle sue spalle e una ventata di caldo che mette tutto a soqquadro: «case, alberi e anche la strada gli è sembrato che andasse in salita o che la linea gialla si fosse staccata dall’asfalto». Per un attimo il paesaggio prende nuovi contorni e diventa irriconoscibile, ma il bambino non si lascia vincere dalla paura e decide di proseguire, seguendo un cane che sembra volergli fare da guida. Arriva al Campo del Limite Estremo dove tutti i personaggi delle storie racchiuse nel libro giocano una strana partita, come se non potessero oltrepassare la linea di metà campo. Anche la linea ha qualcosa di insolito, è tutta bucherellata, sistemata in maniera provvisoria, portata di qua e di là dalle scarpe dei giocatori: dovrebbe dividere, ma in realtà non divide niente, perché nessuno dei giocatori ha voglia di seguire le regole del gioco. Le marche di separazione fra la vita e la morte non sono così stabili come si crede e infrangere le regole della sintassi in un tema scolastico, in una partita di calcio o in un racconto può diventare il gesto magico che consente di ottenere un lasciapassare straordinario che consente di attraversare il più terribile dei confini.

 

Roma

 

Quel confine immaginario servirà da guida a Lino quando, dopo essersi sentito investire da un vento simile a quello che lo aveva portato in quel posto e aver visto di nuovo tutto il paesaggio sfocato e tremolante, attraversa il campo tenendo i piedi sulla linea di mezzo: «Di cose ne aveva raccontate in abbondanza, ma ci scommetteva che anche stavolta avrebbe preso quattro. Gli sembrava infatti d’aver capito che ci fosse un altro mondo vicino al nostro dove tutto è più o meno uguale a quello che accade qui; solo che bisogna andare un po’ fuori strada per trovarlo». Il ritorno a casa è accompagnato dall’ansia, finché non compare la figura amica della Portinari, piccola Beatrice in bicicletta, che lo riaccompagna a casa, mentre Lino le legge ad alta voce il suo tema sotto la luce dei lampioni. Il minimo comune denominatore della narrativa di Benati sembra rinviare a questa forma di fratellanza delle illusioni di matrice leopardiana, che non consente un orientamento sicuro e tuttavia tiene al riparo dalla disperazione. Se questo mondo è un territorio senza certezze, i proscritti di Benati «si attaccano all'ultimo brandello di identità che sentono di avere e si affidano alla creatività, che della vita umana è la massima espressione, per cercare di dare un senso alla loro vita». 

 

Alcuni di loro ricevono in dono una grazia insperata, proprio quando sembrano sul punto di essere traditi dalla vita, abbandonati e senza difese. Succede a Raffaele Picaglia, «deportato agli arresti domiciliari in un paese straniero», un uomo senza passioni politiche che dà ragione a tutti perché non ha idee, «un bevitore che pensa solo al fumo e un fumatore che pensa solo al bere». Per lui, come per gli altri dispersi approdati in Mystic Avenue gli edifici di spostano, come se ci fosse una forza misteriosa che li trascina qualche metro in avanti quando è arrivata l’ora di rientrare a casa, solo per il gusto di provocare degli equivoci imbarazzanti con i vicini, con i portinai o con i proprietari dei bar. Nello spazio instabile della città in fluttuazione, circondato da ospiti indiscreti (una bellissima compagna di liceo è arrivata in visita dall’Italia con marito e figlio al seguito), rumori molesti e cani che parlano, a Picaglia non resta che aggrapparsi all’immagine di una donna, un’attrice di teatro con cui convive, che non è rientrata per la notte e che probabilmente lo tradisce con il regista: aspettando il suo ritorno, si mette alacremente al lavoro e scrive in brevissimo tempo una pièce, seduto all’aperto, distraendosi di tanto in tanto per guardare dal balcone di quell’edificio «a forma di U» i vicini «intossicati da computer televisioni videoregistratori desktop telefonini impianti stereo chitarre libri lavastoviglie spazzolini elettrici per denti», impegnati in un lavorìo continuo come fossero ubriachi.

 

Las Vegas

 

Nonostante quel fermento insensato che vede brulicare attorno a sé, Picaglia arriva in fretta a chiudere il suo lavoro, unico progetto portato a termine fra i tanti propositi letterari inconclusi concepiti nel caseggiato: il testo viene costruito con la tecnica del teatro antico, che vede il suggeritore a fianco dell’attore recitante, così il drammaturgo può vedersi nella parte di un angelo custode collocato proprio al fianco della sua Poppy, a suggerirle una parte senza doversi nascondere in una buca, come avviene nel teatro moderno. Ma la scrittura, anche quando prende una forma compiuta e sembra preludere a un destino di notorietà annunciata, non mette al riparo dagli sguardi indagatori degli ospiti, che si appuntano sullo sfacelo della vita privata, notano tutti i segni della deriva di cui Picaglia si affanna a cancellare le tracce. Ma ecco che quando tutto sembra perduto, il suono del campanello annuncia la comparsa sulla scena di una figura angelica in carne ed ossa, un’apparizione inattesa e salvifica, capace di recitare alla perfezione la sua parte, una «fortuna certamente voluta dal cielo dell’antichità dove ci abitavano gli dei che vanno in aiuto del loro eroe prediletto se ne ha bisogno». La sconosciuta è un’attrice meravigliosa: recita di fronte agli ospiti la parte della Poppy, innamorata e felice, scusandosi per il ritardo e disquisendo sui vari aspetti pratici e teorici dell’arte teatrale, tanto che Picaglia non ha nemmeno bisogno di sedersi di fianco a lei per suggerirle le battute togliendola d’impaccio. Ora lo scenario è cambiato: ogni cosa sembra essere tornata al suo posto e sulla città spunta anche la luna, «sorta sopra i grattacieli che brillavano dall’altra parte del fiume». Sembra un quadro perfetto per un idillio metropolitano, e Picaglia, dopo la partenza degli ospiti, può finalmente tornare fuori sul balcone a fumare una sigaretta in pace.

 

Shanghai, China

 

"Tutte le luci erano spente negli appartamenti dei miei coinquilini che sicuramente erano sprofondati nel sonno dopo il tremendo stordimento che avevano ricevuto dal loro tran tran giornaliero. E stavo guardando intorno a me quando lo sguardo mi è caduto in basso e ho visto sul pratino sottostante, sparsi come il vento li aveva portati, tutti i fogli del mio atto unico che la luna bianca illuminava con la sua luce. E sono rimasto a osservarli con attenzione perché a un certo punto hanno cominciato a spostarsi impercettibilmente anche loro come fanno i continenti. Solo che non lo facevano per allontanarsi l’uno dall’altro, ma per tornare a unirsi insieme grazie alla forza interiore che li animava – fino a che non sono riusciti a sovrapporsi in un unico rettangolino bianco che verso l’alba è sparito di colpo mentre il prato cominciava a tingersi di verde."

 

È il paesaggio che cancella la sua rappresentazione? La coincidenza fra parola e mondo, il libro che ricompone le esistenze è un miraggio o forse esiste davvero, là fuori, da qualche parte, in un prato fra i grattacieli illuminato dalle luci dell’alba. E se i ricordi si confondono, gli spazi perdono i connotati riconoscibili, il labirinto del mondo sembra una trappola senza uscita, resta la vicinanza con gli altri, esseri reali o immaginari, con la sensazione di non essere soli che dà sempre la scrittura, costruzione di spazi, dispersione di fogli al vento, luogo in cui si radunano le fantasie per tornare a sciogliersi ai primi raggi del sole. 

 

Da Visioni in dissolvenza. Immagini e narrazioni delle nuove città, Quodlibet, dicembre 2015.

 

Le immagini di Olivo Barbieri che compaiono nel testo (courtesy Olivo Barbieri) sono state incluse in diversi cataloghi e più volte esposte. Si trovano oggi raccolte nel catalogo che ha accompagnato la mostra di Reggio Emilia in occasione di “Fotografia Europea 2015” (Olivo Barbieri. Ersatz Light: Case Study 1, East-West, con un testo di Francesco Zanot e un’intervista di Laura Gasparini, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern  2015) ad esclusione di "Siena 2002", pubblicata in Cityscape Landscape, Catalogo della mostra, Palazzo delle Papesse Siena, a cura di Paola Tognon, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2002.

Una grande mostra antologica dedicata al lavoro trentennale di Barbieri è stata allestita nel 2015 al Museo MAXXI di Roma.

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