Frosini/Timpano, Marco Cavalcoli / Ottantanove. Tra le macerie della postmodernità
Vuoto, assenza, funerale e anche distanziamento. Se aggiungessi il nome di una qualsiasi delle nostre città, potreste pensare a un nuovo articolo sul Covid-19. E invece no: sono le coordinate di senso e di spazio di Ottantanove, l’ultima produzione di Elvira Frosini e di Daniele Timpano, i Frosini/Timpano, affiancati per la prima volta in scena da Marco Cavalcoli dei Fanny & Alexander. Quella cifra non rappresenta il conteggio della cronaca, ma la parabola della Storia. Ossia, la Rivoluzione Francese del 1789 e, insieme, la caduta del Muro di Berlino del 1989.
Gli artisti erano pronti a scandagliarne e a smascherarne le derive culturali, le distorsioni simboliche, le mitologie contemporanee, per mettere in crisi spietatamente e ironicamente le nostre vite “democratiche” e il nostro immaginario legato al concetto di rivoluzione. Era tutto pronto per portare in scena il passato e il presente, la storia francese e la storia italiana, la modernità e la postmodernità, con l’obiettivo di provare se e come una rivoluzione sia ancora possibile. Per di più il testo aveva già vinto nel 2019 la Menzione Speciale “Franco Quadri” nell’ambito del Premio Riccione. Non è bastato. Teatri chiusi da un giorno all’altro e debutto rimandato a chissà quando. Il Covid-19 è il vero protagonista di oggi e anche, alla fine, di questo articolo. Frosini, Timpano e Cavalcoli, comunque, una qualche rivincita se la sono presa, consegnandoci un pezzo del loro teatro. Quello che si può dire a parole.
Due anni e mezzo di lavoro, otto mesi di pandemia mondiale, teatri chiusi, riaperti e poi di nuovo chiusi. Vi sentite più feriti, preoccupati, rabbiosi, confusi o dolenti?
Frosini: Dolenti e attoniti. Eravamo pronti. Il decreto è arrivato il 25 ottobre, esattamente il giorno prima di fare il montaggio al Teatro India per il debutto nazionale il 28. Avevamo appena fatto le foto di scena e la prova generale, chiuso tutto in due valigie e preso il treno per tornare a Roma dopo le ultime settimane di prova e l’allestimento a Prato, al Teatro Metastasio, che è anche il nostro produttore. Abbiamo lavorato fino all’ultimo secondo, a testa bassa, ma con gioia, allo spettacolo come alla grafica, come ai materiali di presentazione, come agli incontri di approfondimento che erano previsti durante le repliche romane. La conferma dell’annullamento ci è arrivata domenica mattina, sulla carrozza 7 della Freccia da Firenze.
Timpano: Durante la settimana precedente avevamo seguito il peggioramento della situazione e visto diminuire le persone in giro per le strade nella stessa Prato. Persino la movida notturna in centro storico, insopportabile fastidio fino a pochi giorni prima, aveva cominciato a spegnersi in orari ragionevoli, poche ore dopo la chiusura dei locali a mezzanotte. Non è stato un fulmine a ciel sereno, eravamo pronti a tutto, ciononostante è stato un trauma.
Frosini: Dentro di noi c’è adesso un po’ di tutto: confusione, rabbia, preoccupazione. Siamo consapevoli che questa nostra vicenda è inserita in un contesto serio, in un momento difficile, ma al di là di tutto, come hai riassunto tu, sono due anni e mezzo di lavoro, gli ultimi mesi di prove fatti nel mezzo di una pandemia mondiale. La rivoluzione è rimandata. Si farà. Speriamo.
Timpano: Poteva andare peggio. La consolazione vera è che lo spettacolo è pronto. Luci, costumi, testo, audio e noi tre in scena. Ormai ci siamo. Sarebbe stato ancora più frustrante essere interrotti la settimana precedente, con i costumi cuciti a metà e alcune cose ancora incerte e vacillanti. Almeno siamo tornati a casa con lo spettacolo pronto al parto. Manca solo di galvanizzare questo bimbo non ancora nato con la corrente elettrica del pubblico.
Frosini: La preoccupazione maggiore è economica. Oltre al debutto di Ottantanove sono saltate tutte le altre date che avevamo faticosamente programmato per novembre, dopo che erano già saltate in primavera, ed è probabile vengano annullate anche le date di dicembre. Noi siamo una compagnia che vive realmente del proprio lavoro, tanto degli spettacoli che facciamo e che portiamo in giro, con un repertorio che teniamo in vita da ormai quindici anni, quanto del nostro lavoro di formazione. Entrambe le cose sono ritornate ferme, immobili, praticamente morte.
La Rivoluzione Francese è stata, per certi aspetti, una rivoluzione mancata. La vostra, appunto, è rimandata. Questo vi farà sentire ancora di più lo spirito del 1789 e, chissà, di ogni rivoluzione? Paradossalmente, non “sentirete” lo spettacolo ancora di più?
Frosini: Senza dubbio “sentiremo” di più lo spettacolo. Questo lavoro per noi era già delicato, un cambio di passo nel nostro percorso, prima della pandemia. Figuriamoci adesso.
Timpano: Credo che questo lungo tempo di lavoro insieme, in queste condizioni di incertezza e di lavoro inaspettate e per certi versi imprevedibili, persino questo debutto che sembra non arrivare mai, abbiano creato una coesione interna molto bella nel nostro gruppo di lavoro. Non solo con Marco Cavalcoli, o con Francesca Blancato, che lavora con noi dai tempi di Zombitudine, e con Omar Scala, al suo terzo disegno luci per noi, ma anche con Lorenzo Danesin e Marta Montevecchi, con i quali collaboriamo per la prima volta.
Che relazione c’è tra il 1789 e il 1989? È solo un’assonanza di date o c’è dell’altro? Quali macerie del Muro di Berlino ci sono nello spettacolo e, magari, dentro di voi?
Frosini: No, non è soltanto un’assonanza di date. Sono due punti, simbolici, che aprono e chiudono la modernità. Con il 1989 si apre la postmodernità, il mondo globalizzato, il mercato globale, il nostro orizzonte unico attuale, si apre insomma il mondo in cui siamo adesso. Si apre quel trentennio in cui ci si è affannati a raccontare e raccontarci che la Storia è finita, che il presente è unico e imperante, che le ideologie sono morte e che non c’è un orizzonte “altro” al quale riferirsi, non c’è orizzonte, non c’è la possibilità di immaginare un mondo diverso, altro, al di fuori di questo. Oggi, in particolare, questo è molto evidente, anche se nuove spinte stanno muovendo, forse, le cose. O forse è solo una speranza.
Timpano: Che poi erano tutte menzogne e necrologi interessati: le ideologie non sono finite affatto, né lo è la Storia, il postmoderno stesso è un’ideologia, perfettamente e servilmente funzionale, anche quando non si pensa tale, a questo mondo neoliberista...
Frosini: Le macerie del Muro di Berlino sono dentro tutti noi. Per chi bene o male anagraficamente si è trovato a vivere gli anni a cavallo di quell’89 sono ancora più evidenti. C’è il ricordo di un mondo appena precedente, il mondo vissuto in pieno dai nostri genitori, il mondo del boom economico, dell’orizzonte un po’ più roseo, il mondo in cui le ultime spinte di cambiamento sono esplose, quegli anni ‘70 e ‘80 in cui siamo cresciuti. Quindi in fondo un mondo dell’infanzia, per noi, il mondo dei ricordi e forse per questo anche idealizzato.
La manifestazione di categoria a sostegno del mondo dello spettacolo si è chiamata “L’assenza spettacolare”. Prendendone in prestito il titolo, fortemente polisemico, di quale assenza volete dare spettacolo con Ottantanove?
Timpano: L’assenza che ha dato il nome alla manifestazione nazionale del 30 ottobre è l’assenza intanto degli spettacoli che dovevano andare in scena, del lavoro di tante persone, ma è anche l’assenza del settore del teatro e della cultura in generale nel dibattito nazionale. Il teatro vede da tanto tempo l’assenza di piani nazionali che lo riguardino, l’assenza di investimenti che lo rafforzino, l’assenza innanzitutto di un quadro significativo di tutele per i lavoratori di questo settore, in questo momento tragicamente evidente. Persino adesso che lo Stato ha confermato a teatri, compagnie e festival finanziati i propri finanziamenti consueti, anche in mancanza delle attività a fronte delle quali questi soldi pubblici sarebbero stati erogati in condizioni ordinarie, c’è il forte rischio che tali contributi vadano tutti nelle strutture, a coprire gli stipendi degli uffici, della direzione artistica e tecnica e degli impiegati, e non agli artisti e alle compagnie.
Frosini: Eh sì, anche in Ottantanove va in scena l’assenza, in qualche modo. L’assenza di una prospettiva reale di cambiamento, l’assenza della possibilità non dico di fare la rivoluzione, ma almeno di cambiare le cose, o di immaginare di cambiarle, pensare di poterle cambiare. L’assenza reale dei nostri diritti, dei nostri principi, scritti nelle costituzioni, ma svuotati di senso reale.
Di questa assenza fate spettacolo? O le fate il funerale? O, ancora, le date “degna” sepoltura?
Frosini: Sì, in Ottantanove in qualche modo celebriamo il funerale della nostra convivenza, della nostra democrazia, stretti tra il bisogno di rivoluzione e l’impotenza apatica, comoda, implosa e rassegnata.
Timpano: Qualcosa di questo stato d’animo funereo di stallo e impotenza, di tensione e implosione, c’era già in alcuni passaggi di Zombitudine e di Aldo morto.
Cavalcoli: E in fondo un’aria cimiteriale ha aleggiato spesso nei percorsi dei gruppi nati negli anni ‘90, sicuramente nei Fanny & Alexander. Che il nostro sia un tempo ultimo, o come scrive Marco Belpoliti penultimo, è un concetto che in Europa sentiamo anche senza pensarlo.
Per Rousseau, il profeta del XVIII secolo e quindi dell’Illuminismo, il teatro non mostra mai le cose come sono, ma come il pubblico le vuole. Voi Frosini/Timpano solitamente mostrate e, a un tempo, non mostrate le cose come sono, e mostrate e non mostrate, contemporaneamente, le cose come vorreste che fossero. Succede lo stesso in Ottantanove?
Frosini: Sì, direi di sì, succede anche in Ottantanove. Mostriamo e non mostriamo, abitiamo, in qualche modo, le spinte contraddittorie che ci muovono. La memoria, il ricordo, tra quello personale e quello storico, di un mondo trasformato, ma che va pur vissuto e interpretato. E cambiato.
Timpano: Riportiamo a galla i reperti di due secoli di rivoluzioni e involuzioni, l’infanzia dei nostri sistemi democratici, mescolati alle nostre infanzie. Non saprei dirti se è più uno spettacolo sulla storia o sul presente, né dove penda l’ago della bilancia, tra materiali personali, più o meno realmente biografici, e materiali letterari e musicali “storici”.
E al pubblico date brioche, come raccomandava di fare Maria Antonietta con il popolo affamato?
Frosini: No, niente brioche. Al pubblico diamo il nostro entusiasmo, la nostra rabbia, la nostra frustrazione, il nostro essere sospesi e smarriti, e anche la nostra voglia di combattere, nonostante tutto.
Timpano: Di questi tempi vedere così poche persone distanziate in platea, nelle poche repliche che siamo riusciti a fare in questi mesi, tra un lockdown e l’altro, mi ha parecchio intenerito il cuore. Le persone mi mancano davvero. Questa assenza, o questa presenza contingentata e attenta, è davvero una cosa straziante. C’è qualcosa di rituale, forse, che sta risorgendo. Ma probabilmente è solo un mio autoinganno e siamo solo gli ultimi, spaventati e sparuti, che stanno un po’ insieme, una sera, prima della fine.
Una rivoluzione, comunque, l’avete realizzata: vi siete aperti a un terzo elemento, Marco Cavalcoli. Perché avete fatto questa scelta? Cosa vi mancava come coppia artistica e cosa, anche, mancava all’uno e all’altro?
Timpano: Beh, in un certo senso avevamo bisogno di un po’ di rivoluzione, o di un cambio di passo.
Frosini: Secondo me non ci manca nulla come coppia artistica, ma sicuramente siamo in un momento in cui abbiamo sentito il bisogno di aprirci al confronto in scena con un altro artista, con un altro mondo. Abbiamo bisogno di rompere qualcosa, di metterci in crisi, in senso positivo, e di aprirci ad altre esperienze. Insomma, di cercare nuovi equilibri.
Timpano: Oddio, sembrano le risposte alle interviste degli attori dei film...
Frosini: Forse è Matteo che ci ha fatto una domanda un po’ da red carpet...
Timpano: Per quello rispondiamo come gli attori del cinema e della tv che fanno promozione?
Visto che ci abbiamo messo piede, continuiamo la “passerella” fino in fondo. Come siete arrivati al nome di Cavalcoli?
Frosini: Abbiamo pensato a Marco perché ci piace molto come attore, ma anche come percorso, vicino eppure non omologo al nostro. Insomma, ci piaceva per differenza e affinità insieme.
Timpano: E poi ci è parsa una persona affidabile da subito, con la quale costruire piano piano qualcosa di ragionevole e in comune. Un attore consapevole, con una testa anche da autore.
Marco, tu come hai reagito alla chiamata?
Cavalcoli: Sono stato felicemente sorpreso. Non mi aspettavo di essere la persona a cui Elvira e Daniele avrebbero potuto fare una simile proposta e poi non speravo che una mia vena paradossale e umoristica, che ho espresso con parsimonia nella mia carriera, potesse essere riconosciuta o intuita da una compagnia che del paradosso ha fatto una cifra stilistica piuttosto unica nel suo genere.
Cosa significa per te essere “io tra di voi” in scena con Elvira e Daniele?
Cavalcoli: Se ti riferisci alla canzone di Charles Aznavour non saprei cosa risponderti, nel senso che non mi sento “io tra di voi” in questo lavoro. Il primo aspetto che abbiamo affrontato insieme è stato proprio la necessità di modificare la consolidata dinamica a due della coppia per evitare che la terza presenza fosse un inserto e per creare invece una nuova dinamica scenica tridimensionale. In questo Daniele ed Elvira sono stati molto consapevoli e generosi nel lavoro di costruzione di un trio.
Timpano: Che non è mai un triangolo. Siamo proprio tre persone.
Qual è stata la fatica, la scommessa e quale la soddisfazione?
Cavalcoli: Di fatica onestamente ne ho fatta poca. Ci siamo presi un tempo lungo, un confronto largo, una dimensione creativa che permettesse l’approfondimento, una saggia decisione della compagnia e della produzione. La scommessa per me era essere all’altezza di una presenza scenica extra-post-drammatica, cioè, battute a parte, di partecipare a un’opera di teatro critico che passa con disinvoltura dal dialogo diretto con il pubblico al gioco della rappresentazione. Sono soddisfatto perché sento di aver fatto tutto quello che mi era possibile, anche se l’impossibilità di debuttare ci lascia per ora in una dimensione sospesa, come abbiamo già detto; fino al confronto in teatro con il pubblico le soddisfazioni saranno incomplete.
Con i Fanny & Alexander sei abituato a lavorare con l’eterodirezione, a farti strumento, veicolo delle parole e delle parole in e di quel momento. In Ottantanove chi o cosa, se c’è, metaforicamente ti eterodirige?
Cavalcoli: L’eterodirezione, attraverso la somministrazione di ordini di movimento e parola con gli auricolari, permette al performer di accedere tramite una scorciatoia a una condizione di alterità da sé che il teatro permette di raggiungere anche in altri modi: è un pensiero che nei Fanny & Alexander abbiamo maturato nel corso di una lunga esperienza, anche lavorando con altre/i performer e nei laboratori teatrali. Naturalmente le tecniche non sono mai solo strumenti, per cui forse è vero che una certa “mediaticità” del performer sia diversa se indotta dall’abbandono a una struttura esterna o dalla propria capacità di abbandono. Ma proprio il lavoro di Daniele mette in dubbio questa affermazione. Mi è capitato più volte (specialmente in Gli Sposi) di riconoscere nella sua presenza scenica aspetti di automaticità medianica tipici dell’eterodirezione. In Ottantanove il qui e ora è la condizione essenziale disegnata dalla drammaturgia, in questo senso la relazione a tre, e probabilmente la presenza del pubblico (quando potremo sperimentarlo), spostano sensibilmente le mie azioni e intenzioni: è l’altro, singolarmente o collettivamente, che eterodirige.
In scena siete tre figure: A, B e C. Perché sono così indefinite? Questa trinità si fa unità durante lo spettacolo?
Timpano: In effetti nel testo abbiamo scelto di non mettere i nostri nomi, al contrario di come avevamo fatto ad esempio per Acqua di colonia...
Frosini: Direi che la trinità si fa unità e continuamente è scissa nella trinità o meglio nella individualità. A, B e C sono tre figure, tre “io” che si intrecciano a volte in una unità. Siamo insieme noi stessi, Elvira, Marco, Daniele, e qualcuno indefinito, siamo anche un po’ la “memoria di noi stessi”, o il ricordo di noi stessi, come felicemente ci ha definito Marco. Siamo imprescindibilmente individuali, separati, lontani, e continuamente cerchiamo di riannodare i fili di un “noi” che ci sfugge e di cui forse abbiamo perso il senso. C’è in fondo una grande nostalgia di un “noi”.
Timpano: Soprattutto siamo sempre in dialogo con il pubblico – quando lo avremo! – e come sempre nei nostri lavori slittiamo dalle nostre persone all’incarnazione di figure, a momenti di rappresentazione, che si dissolvono poi di nuovo nel nostro essere là, anzi, qui.
Come avete selezionato i materiali dello spettacolo? Come li avete lavorati?
Frosini: I materiali vengono da un lungo studio immersivo, come sempre, nei materiali storici, storiografici, letterari, iconografici, musicali, teatrali, principalmente settecenteschi, ma anche ottocenteschi e novecenteschi. Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Antonio Simeone Sografi, ma anche Denis Diderot e Jean-Jacques Rousseau, o Victor Hugo, Peter Weiss come Heiner Müller e infine Federico Zardi, a cui è dedicato un passaggio importante del lavoro. Di testi e materiali ne abbiamo attraversati e scavati talmente tanti che, con i moltissimi che abbiamo incontrato e che non sono entrati nello spettacolo, abbiamo già fatto una piccola selezione che è confluita nel progetto Aspettando Ottantanove, il ciclo di otto puntate audio che abbiamo inviato via WhatsApp dal 6 settembre al 25 ottobre e che doveva condurci al debutto. In questo progetto tali materiali sono stati letti generosamente da colleghi stimati che ringraziamo: David Lescot, Gaetano Ventriglia, Michele Pagliaroni, Ascanio Celestini, Ferdinando Bruni, Alessandra Di Lernia, Fabio Fassio e Ugogiulio Lurini. Sono stati pensati per essere ascoltati al cellulare, ma li abbiamo archiviati anche in una playlist sul nostro canale Youtube.
Timpano: Un’altra selezione di materiali teatrali, letterari e musicali settecenteschi è stata preparata per gli incontri che dovevano avvenire il 30 e 31 ottobre a Roma prima dello spettacolo e che speriamo di fare comunque appena si potrà.
Frosini: E ancora, da tutto il nostro lavoro di ricerca per Ottantanove abbiamo in mente di fare Rivoluzioni, un ciclo di letture dal vivo di materiali rivoluzionari e controrivoluzionari. Come sempre, dal progetto dello spettacolo nascono progetti paralleli, e cercheremo di realizzarli.
Timpano: Da questa grande mole di materiali abbiamo scelto quelli che rispondevano al nostro disegno drammaturgico e li abbiamo trasformati, compulsati e fusi con la nostra scrittura. Volevamo che ci fossero diversi linguaggi, diversi stili, che si fondessero con una scrittura più dialogante, più quotidiana.
I materiali biografici personali di cui parlava Daniele sono, per così dire, “veri” oppure ricostruiti ad arte? C’è, forse, anche il Coronavirus?
Frosini: Sì, ci sono materiali personali, ricordi, appunti, immagini, sensazioni personali, che vengono da molti e molti appunti e che sono poi stati trasformati, sublimati. Il Coronavirus non c’è, perché abbiamo finito di scriverlo appena prima che accadesse, ma in realtà in qualche modo c’è, nel senso che le sensazioni, le domande, le lacerazioni, i desideri che con questa pandemia sono emersi ancora di più ci sono tutti e fanno parte del mondo in cui siamo.
Cavalcoli: C’è anche un piccolo sketch quasi subliminale sul distanziamento, ma non sveliamo altro.
Come vi ha aiutato David Lescot, autore del vostro precedente spettacolo ricordato da Marco, Gli Sposi?
Frosini: David è stato un occhio e un orecchio francese, il nostro inviato speciale dalla Francia, come si è autodefinito lui stesso.
Timpano: Conosce bene la materia ed è abituato anche a lavorare su materiali letterari, musicali e storici. Uno dei suo ultimi lavori – bellissimo! – La Chose commune, scritto con il jazzista Emmanuel Bex, è dedicato proprio alla Comune di Parigi del 1871, argomento che tocchiamo anche noi.
Frosini: Man mano che scrivevamo gli abbiamo fatto leggere il testo, ci ha seguito in particolare nella residenza che abbiamo fatto a Parigi, all’Istituto Italiano di Cultura, dove abbiamo scritto molte parti importanti del testo e dove abbiamo fatto una prima lettura di brani a gennaio 2019.
Cosa si vede in scena? Nelle foto che avete diffuso compare una grande bandiera francese afflosciata: è il simbolo dei valori perduti della Rivoluzione?
Frosini: Non vogliamo svelare troppo, ma dato che si vede in foto, sì, in effetti è un po’ un fantasma, un convitato di pietra, cugina e madre al tempo stesso della nostra bandiera, è un resto, è esausta ed è anche un simbolo dei valori della Rivoluzione, che ci appaiono, più che perduti, svuotati, prosciugati, come gusci vuoti. Stinti.
Il vuoto è ancora una volta il vostro spazio? È lo spazio della comprensione che manca tra noi e la Storia e che voi cercate di colmare, dissacrandolo?
Frosini: Il vuoto è ancora una volta il nostro spazio. Grazie, hai dato una definizione giusta, acuta, di quel vuoto. È il vuoto tra noi e la Storia, ma è anche il vuoto fra noi e la possibilità di essere nella Storia. Questo spettacolo ci parla in fondo della necessità, del desiderio, della possibilità di essere di nuovo nella Storia, oggi, adesso più che mai.
Timpano: È anche il vuoto fra noi individui, tra i nostri ego, denso e impalpabile, invisibile e invalicabile. Noi tre siamo sempre in questo vuoto e il disegno luci di Omar Scala ha reso credo benissimo questo vuoto e questo movimento impercettibile e fluido un protagonista della scena.
Quali teste vengono “tagliate” in scena? Nel manifesto sembra spiccare quella di Maria Antonietta.
Frosini: Su questo non rispondiamo, bisogna aspettare di vederlo.
Timpano: Però possiamo parlare dell’illustrazione ideata per noi da Valentina Pastorino, in cui un volto di donna stilizzato, la faccetta bianca cadaverica di una Marie Antoinette decapitata, trionfa al centro dell’immagine, inscritta in una decorazione tra il rococò e l’art déco, in cui solo al secondo sguardo si notano tra i disegni appunto delle brioche e un 89 scritto in cifre.
Allora ci sono le brioche! Ecco, perché Ottantanove è in lettere e non in numeri?
Timpano: Perché il titolo in numeri non ci piaceva.
Frosini: Perché scritto in lettere ha qualcosa di insieme bambinesco e imponente.
Timpano: Perché il titolo del romanzo di Hugo sulla rivoluzione è Novantatré, scritto in lettere.
Frosini: Perché scritto in numeri ci richiamava subito in maniera non ambigua l’anno, settecentesco o novecentesco che fosse.
Timpano: Perché scritto così sul manifesto ci fa proprio un bell’effetto.
Frosini: Perché uno si chiede perché lo hanno scritto in lettere e non in numeri.
Cosa non abbiamo capito dai due ‘89 e, con Ottantanove, capiremo? Cosa, invece, continueremo a non capire?
Frosini: Cosa abbiamo capito o non capito non lo so. Forse con Ottantanove possiamo percepire che le radici di quello che siamo, di quello che pensiamo e di come vediamo il mondo sono lontane, intricate, dense e complesse, insomma che il nostro mondo e la nostra visione della realtà non sono nate stamattina.
Timpano: E forse riusciamo a vedere questi due ‘89 in un quadro d’insieme e a capire adesso che cosa ha significato il “nostro” ‘89, quello del secolo scorso. Forse.
L’ultima immagine raffigura il manifesto dello spettacolo realizzato da Valentina Pastorino.