Spazi aperti
Recentemente sono stati presentati i 40 progetti che concorrono alla fase finale per aggiudicarsi il premio cheFare. Sono stati selezionati perché sperimentano modalità inedite di fare cultura, di proporla e di farla fruire. Sono stati valutati positivamente il carattere innovativo, la capacità di costruire reti e sinergie, la sostenibilità sociale ed economica, la potenzialità di riprodursi nel tempo e nello spazio senza snaturarsi. Sul bando di cheFare si legge: “La cultura in Italia ha bisogno di nuove spinte e proposte, pena la decadenza culturale, morale e umana del nostro paese”. Ma perché è così importante la cultura nella società contemporanea? E di che tipo di cultura c’è bisogno?
C’è bisogno di cultura per avere democrazia, e c’è bisogno di un tipo di cultura in grado di creare spazi pubblici, o meglio un nuovo spazio pubblico, come una città aperta, meticcia e accogliente.
La città è il riflesso della società moderna, diceva il filosofo tedesco Simmel nei primi anni del ‘900, e come tale è il centro della produzione della cultura, che diventa addirittura “ipertrofica”, tanti sono gli stimoli e l’estrema eterogeneità che la contraddistinguono. E così, sulla stessa scia, nel 1938 Wirth, uno dei primi sociologi urbani della storia, definisce la città come as a relatively large, dense and permanent settlement of heterogeneous individuals. In seguito Jacobs, attivista e grande studiosa delle città, e Sennett, sociologo ed esploratore delle società urbane, raccontano nei loro scritti la capacità delle città di concentrare una gran varietà di persone diverse tra loro che, proprio perché si trovano ad agire nello spazio pubblico della città, hanno la capacità di creare e innovare, pensare e agire.
Se la metropoli di inizio ‘900 è, nella visione di Simmel, il ritratto della modernità, allo stesso modo nella lettura di Featherstone, geografo inglese, la città di fine millennio interpreta la cultura postmoderna meglio di qualsiasi altro artefatto umano: è un luogo contraddistinto da due dinamiche opposte per cui, da un lato, il convenzionale, l’eccezionale, il diverso, l’altro, lo strano e il volgare sono incoraggiati a coesistere e a ibridarsi; dall’altro vengono ripetutamente separati da forze antitetiche. L’ambiente urbano viene concepito come uno spazio in cui culture diverse si incontrano, si scontrano, si incrociano e si separano, in un gioco di scambio che contribuisce a una definizione più elaborata dei criteri estetici e dei gusti culturali della post-modernità.
La città è dunque il luogo della produzione culturale: un ambiente particolarmente fertile in termini di produzione di conoscenza, idee, estetiche, stili, arte, design, innovazione, scienza, proprio grazie alla concentrazione di individui, gruppi, eventi, istituzioni, visioni, organizzazioni. Ma la città è anche lo specchio della cultura dominante e un prodotto culturale in sé, e incorpora la cultura che di volta in volta la produce: lo spazio urbano si modifica seguendo schemi di trasformazione propri dell’epoca che la costruisce. Così, osservando le città globali vediamo nuovi quartieri che sorgono sugli scheletri di fabbriche abbandonate; luoghi di leisure e da consumare; aree che vengono riqualificate e “ripulite” spesso a spese delle popolazioni che le occupavano; vistosi grattacieli a rappresentare i nuovi simboli del potere finanziario; e così via.
Questi esempi tracciano i confini di un processo di trasformazione fisica della città che ha profonde conseguenze in termini di disintegrazione e disgregazione del tessuto sociale urbano e che mette in crisi il modello di città costruito sullo spazio pubblico e sull’incontro. Le dinamiche di globalizzazione e monetarizzazione della vita urbana portano a una progressiva erosione dello spazio pubblico e di socialità, rinforzando invece processi opposti quali individualismo, privatizzazioni e frantumazioni del tessuto sociale.
Zukin, sociologa urbana americana, è forse la principale interprete della critica a questo cambiamento: la studiosa lo legge attraverso la trasformazione dello spazio pubblico, inteso, alla Habermas, come lo spazio della sfera pubblica, e osserva come esso sia sempre più usato in maniera strumentale da forze economiche globali. Non è più lo spazio della cultura e dell’arte fini a se stesse, ma della cultura finalizzata al profitto; non più ambito dello scambio o dell’incontro, ma momento di consumo; non più spazio aperto, ma luogo in cui viene selezionato chi vi accede. Le città e lo spazio pubblico urbano vengono trasformati da due processi intrecciati: dalla crescente culturalizzazione dell’economia e dalla progressiva mercificazione della cultura, passando attraverso processi di immaterializzazione dell'economia e nuovi modelli di consumo e di gentrification.
Sebbene arte e cultura siano stati da sempre utilizzati al fine di rinnovare l'ambiente urbano e per promuovere lo sviluppo di nuovi quartieri, oggi questa sistematica appropriazione strumentale della cultura da parte di forze economiche viene portata verso limiti estremi. Inoltre, la crescente polarizzazione della società e la crisi economica corrente, inaspriscono le condizioni di vita, e mettono in pericolo tutto quel sistema di relazioni e quella fitta rete di capitale sociale, culturale e ambientale di cui le città italiane sono particolarmente dotate. Così la sfera pubblica della cultura viene progressivamente trasformata, e perde significato e funzione: non più luogo di incontro e di scambio, ma ornamento estetico e simbolo di potere economico. Quale significato ha dunque oggi la cultura in Italia, e chi o cosa rappresenta lo spazio pubblico della città contemporanea?
Una parziale risposta a questi quesiti, ma anche una resistenza contro dinamiche di privatizzazione (nel senso indicato più sopra) viene proposta da quelle pratiche culturali che reagiscono alle forze più disgregatrici della città e che propongono una cultura di grande valore, che non solo va riconosciuto, ma anche supportato e protetto. Le 40 proposte selezionate da cheFare costituiscono dunque un buon antidoto alla snaturalizzazione dello spazio pubblico: esse rappresentano una forma di difesa della sfera pubblica e una base importante per costruire coesione, integrazione e inclusione sociale.
Se la città non produce più spazio pubblico nelle sue piazze, allora sono altri i luoghi votati alla coesione sociale, all’incontro e all’innovazione: luoghi virtuali o fisici, teatri, associazioni, istituzioni culturali, biblioteche e così via che, grazie alla loro naturale apertura, forniscono momenti dedicati alla socialità, all’integrazione ma anche alla produzione e ibridazione artistica. È proprio nello spazio della cultura che è possibile inserire pratiche di riappropriazione, di cittadinanza e di integrazione: all’interno di questi nuovi luoghi di socialità si creano infatti comunità di persone e di pratiche compatte e solidali, aperte allo scambio con il territorio e con altri soggetti che, nella loro dimensione artistica, sono in grado di rappresentare, da un lato, un forte stimolo all’incontro e alla coesione sociale e, dall’altro, un fronte di contrasto a quelle dinamiche atomistiche che stanno investendo la società urbana contemporanea.