Filosofia della pantofola

19 Marzo 2024

Il termine ‘pantofolaio’ è stato a lungo, se non un insulto personale, uno stigma sociale. Non riferito al fabbricante di babbucce, naturalmente, ma per il secondo significato della parola che troviamo in tutti i dizionari: pigro, immobilista, abitudinario e dunque, per conseguenza, indolente, sciatto, spento, noioso. Lo si usava, per esempio, per chi preferiva un film alla discoteca, un libro a una partita di calcio, un pomeriggio davanti alla televisione piuttosto che una scarpinata in montagna. Qualcuno, insomma, che sceglieva la vita casalinga rispetto a quella all’aperto e, con questo, detestava la laboriosità, il sodo impegno lavorativo. Uno sfaccendato programmatico, un nullafacente, un ostinato parassita.

La povera, comoda, consolante pantofola – simbolo involontario di tutto questo – diventava così un oggetto stantio, antiestetico, negazione d’ogni erotismo. Accessorio timidamente casalingo, questa scarpetta morbida e pelosa sapeva di antico, di antidiluviano, anzi di vecchio: così come chi, Oblomov senza saperlo, più o meno privatamente la indossava. I suoi sinonimi fanno inorridire: pianella, ciabatta, babbuccia… Che orrore: è l’appiattimento, la tristezza, il lasciarsi andare della persona anziana che, nel grigiore del tinello di casa, mette in fila le delusioni accumulate nel corso di un’esistenza comunque assai poco tumultuosa. 

Orrore? Beh, forse è il caso di misurare le parole, di riorientarle aprendo gli occhi. Di orrori, in giro, ce ne sono tanti e di ben altra dimensione e gravità. Sono ritornate – amplificate e moltiplicate – le guerre, le violenze, le carestie, le epidemie, i disastri, gli abomini, i genocidi e chi più ne ha più ne metta: come fanno i media, che inanellano brutture a ritmo incessante. Anzi, per meglio dire, non è che tutto ciò sia ritornato; pensarlo presupporrebbe che ce ne eravamo liberati. Quel che è venuto meno è piuttosto l’illusione – tanto ingenua quanto persistente – che le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e del mondo intero avrebbero potuto portare progresso e pace. Così, non abbiamo paura dei disastri individuali e collettivi.

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Abbiamo paura di provare paura, perché sappiamo di non aver nulla che possa eliminarlo, questo sgomento, trasformandolo in preoccupazione permanente, in ansia generalizzata e continua, in sentimento cupo che allontana ogni possibile soluzione. Il mondo stesso ci invita a coltivare panico a lunga gittata. Greta Thunberg, nel 2019 a Davos, lo ha detto molto chiaramente: “Non voglio la vostra speranza, non voglio il vostro ottimismo, voglio farvi percepire la paura, la paura che mi accompagna ogni giorno”. 

L’unica via d’uscita, potremmo dire, è allora l’entrata, il ritiro a casa, il rintanarsi fra quattro mura, il rifugio nella quotidianità casalinga. La pandemia, da questo punto di vista, non ha inventato nulla di nuovo: ha fatto diventare dovere sociale quel che era un volere individuale preesistente, insegnando tutt’al più – e così torna l’infraordinario che, come al solito, tutto spiega – a lavarci per bene le mani. Detto in altri termini – come spiega il filosofo francese Pascal Bruckner in La sacra pantofola (Guanda, pp. 165, € 18) – siamo diventati tutti convinti pantofolai, eroi del trantran domestico, avventurieri della ripetizione a lunga durata, di una vita senza traumi e senza suspence (si pensi, per capirci, all’ultimo film di Wim Wenders). E torna dunque, invertita di senso, la piccola pantofola: “In questo ritorno a se stessi, l’accappatoio, la coperta e le pantofole ritrovano la loro importanza. Che cos’è una pantofola? Il proseguimento pacifico della scarpa e dello stivale, la trasformazione del piede che esplora in piede che dorme: il mezzo di locomozione è divenuto uno strumento di sosta. È un guscio, una nicchia di rotondità e di sollievo. Il piede alato, avvolto nel feltro e nella lana, accetta di riposare ad libitum in questa imbottitura di calore. Come stupirsi che durante la pandemia il mercato delle pantofole sia esploso, provocando scarsità e problemi di approvvigionamento?”.

Bruckner ricorda a questo proposito il celebre mito platonico della caverna, dove le persone incatenate con la schiena verso l’uscita prendono per cose vere le ombre proiettate nel muro che hanno di fronte, diventando metafore d’ogni possibile errore, conoscitivo e metafisico. Oggi, per Bruckner, il mito s’è capovolto perché abbiamo attrezzato le nostre attuali caverne, le nostre case, d’ogni possibile comfort, facendo della clausura un sicuro mezzo di protezione fisica e mentale. La caverna è diventata il luogo della vita autentica, pura e vera, mentre il di fuori, coi suoi riflessi a flusso continuo nei nostri schermi, è il segno indiscutibile di violenze e vite selvatiche, grossolane, orride. 

Del resto, la storia della vita privata come spazio della intimità e dell’autenticità è relativamente breve: nasce, ricorda l’autore, nel XVIII secolo, e c’è chi – da De Maistre a Melville, da Kafka a Wolf, da Bachelard a Perec – l’ha esaltata con dovizia di particolari. Sentiamo il solito Kant: “La casa, il domicilio è il solo argine contro l’orrore del nulla, della notte e dell’insondabile: racchiude fra le sue mura tutto ciò che l’umanità ha pazientemente raccolto nel corso dei secoli. La libertà si sviluppa nella stabilità e nel chiuso, non certo all’aperto e all’infinito. Essere a casa propria significa riconoscere la lentezza della vita e il piacere della meditazione immobile”. 

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Kant: un perfetto pantofolaio… anticipatore di quel che oggi è diventata la norma. In questo non lontano da Flaubert: “Bisogna chiudere porte e finestre, rannicchiarsi in sé come porcospini, accendere un gran fuoco nel camino quando cala il freddo, evocare nel proprio cuore una grande Idea”. I pantofolai d’oggi hanno insomma un pedigree niente male. Ma anche alcune recenti scappatoie. Una, ricorda Bruckner, è il turismo, l’avventura preorganizzata che ci dà occasione di conoscere un mondo che conoscevamo già perché da altri prima di noi mille volte conosciuto, esploriamo il già esplorato, cerchiamo l’incontaminato nella contaminazione. Siamo dovunque a casa nostra. Un’altra è lo smartphone, che ci consegna un mondo a domicilio grazie al display che portiamo ovunque, e, paradosso costitutivo, non abbiamo dunque bisogno di andarlo a cercare, di modo che l’ovunque è ancora una volta dentro casa. La società, si sa, sta nei social, frequentabili comodamente fra le mura domestiche. 

Questa ricerca del comfort a tutti i costi ha, ricorda Bruckner, un rovescio della medaglia: la camera diviene cella, la tana sepoltura, la casa luogo di reclusione. Per schivare una tale ambivalenza, la soluzione proposta da Bruckner è altrettanto ambigua: socchiudere porte e finestre per intravedere il più possibile la varietà del mondo, per far entrare in casa quella esteriorità che dà alla vita – comunque in pantofole – iniezioni di senso.

L’analisi è impeccabile, lucida, impietosa. Eppure forse da rivedere, o almeno da continuare, da approfondire, non foss’altro perché risalente a qualche anno fa, quando la pandemia era un fenomeno recentissimo e per certi versi ancora in corso. Per farlo, ci aiuta proprio il mondo delle pantofole, oggi in gran subbuglio. La moda, si sa, intercetta le trasformazioni in atto e detta le tendenze prossime future, talvolta interpreta il sentire collettivo e lo ritraduce coi propri mezzi e ai propri fini. Che ne ha fatto delle mises casalinghe? Ha disegnato nuovi pigiami e nuove vestaglie, magari recuperando quelle lanose giacche da casa che indossavano, a coprire camicia e cravatta, i nostri nonni nei lunghi pomeriggi invernali? Certo, le coperte sono diventati capi d’abbigliamento (la popstar Billie Eilish è salita sul red carpet in pigiama e coperta). Ma non più di tanto. Semmai, ha lavorato proprio sulle pantofole, moltiplicandone i modelli e, come sempre, reinventandone il contesto d’uso. Se la ciabatta è il simbolo infelice del nostro presente, perché non farne un oggetto giocoso, euforico, ironico, ossia, appunto, modaiolo? 

Ed ecco che, seguendo la legge dei contrari tipica d’ogni moda, a combattere le decolleté in pelle, tacco a spillo e fibbietta sono apparse da qualche anno le cosiddette friulane (grazie Bianca), specie di babbucce rasoterra in velluto, silenziose ed eleganti, che, garantendo il passo felpato d’un gattone prossimo alle fusa, fanno tanto radical chic. È l’idea del comfortable di tendenza, evidente spia di una persona che rivendica l’agio domestico e coccoloso di contro all’eleganza sparata di chi vuol prestamente sedurre il primo che passa (attenzione: è un’esagerazione scherzosa). Niente sesso, siamo in pantofole. Ma non si tratta dell’unico caso di pantofolismo alla moda. Fra i mille esempi possibili (grazie Matteo), spiccano le ciabatte imbottite di pelliccia con tanto di marchio nella fibbia, gli stivaletti in camoscio foderati di lana, gli stivaloni di gomma stile Teletubbies, per non parlare del gran ritorno delle Crocs – aborrite ma evergreen –, ora decorate con borchie in metallo ora, azzardando un completo capitombolo semantico, con tanto di tacco sottilissimo. Potremmo continuare. 

L’indicazione è abbastanza chiara. Abituati, per non dire costretti, a stare in casa, ne abbiamo assunto le sembianze, anche e soprattutto nel vestiario e negli accessori. Usandoli però, con la dovuta traduzione beffarda, a mo’ di outfit per scorrazzare – superfighi – dovunque in città, come tenendo in memoria, ma aborrendoli sfacciatamente, i confinamenti da pandemia, la pigrizia forzata, l’esser stati pantofolai per necessità sanitaria e sociale. Piuttosto che portare il mondo dentro, abbiamo portato la casa fuori.

La sacra pantofola ritorna, allora, non più come tragedia ma come farsa. Occorrerà rifletterci, non sembra solo una trovata dell’ultim’ora. 

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