Forlì / Paesi e città

9 Luglio 2011

 

Forlì è una delle tante città di provincia italiane che, nel tempo, ha mantenuto una continuità con le forme della politica e del vivere civile dell’epoca dei comuni. È stata, sino a non molti anni fa, ghibellina, non solo per la grande prevalenza nel suo tessuto sociale delle forze laiche, quelle comuniste-socialiste e quella repubblicana, ma anche per l’atteggiamento di fondo dei suoi abitanti, interessati in primo luogo a realizzare progetti chiari e autosufficienti. La prima virtù per un forlivese, e per la Romagna in genere, è la concretezza, seguita dalla capacità di fare meglio del diretto avversario. È da queste parti che la dimensione della gara, per esempio della corsa in bicicletta o in moto, acquisisce una valenza assoluta, diventa un modo di vita: non la sfida nascosta e logorante implicita nell’attuale sistema finanziario-informatico, ma quella aperta di chi vuole costruire e far vedere i risultati della sua opera.

 

Naturalmente, i forlivesi hanno dato sempre il loro contributo ai tentativi di rinnovamento, nel bene e nel male. Al centro della piazza principale c’è la statua di uno dei triumviri della Repubblica romana, Aurelio Saffi, ma, inutile nasconderlo, a pochi chilometri da Forlì c’è la Predappio di Mussolini: anche le loro sono state sfide. Allo stesso modo, almeno per metafora, sembra eccessivo, sproporzionato l’altissimo campanile della chiesa cittadina più antica, San Mercuriale, che convive con i segni dei poteri signorili, come il palazzo degli Ordelaffi, o del regime del Duce, munifico con la città quasi natia, tanto da costruire un monumento alla Vittoria del ’15 – ’18 che a molti sembra sfacciatamente fallico. Esibizionismi architettonici, gare di pietra, esagerazioni di chi, a casa sua, fa quel che vuole.

 

È in realtà come questa, insomma, che sono emersi i tanti umori spesso repressi in altre città d’Italia: com’era un po’ in Veneto o in Lombardia, fino a quando dominava l’ideologia bianca, accomodante. Ma non per questo Forlì non risente dei tanti compromessi che pure in una zona rossa sono stati politicamente necessari. Così anche adesso un’area risanata (a costo elevatissimo), vicino al nuovo polo museale di San Domenico, risulta una specie di landa di cemento ondulato, un parcheggio ancora una volta eccessivo, purtroppo inutilmente e bruttamente. Per fortuna, fatti pochi passi ci si immerge nelle piccole strade che scorrono fra palazzi di mattoni rossi - caldi simpatici e a volte goffi – e si torna a vivere in un tempo tranquillo, quello di chi, davvero mattone dopo mattone, ha ‘tirato su’ la sua esistenza.

 

Ma qual è l’anima di una città come questa? Che cosa vi riconosce chi ci è nato e ci ha abitato e ha fatto parte del suo sistema come concittadino? Forse il tratto più tipico è quello del poter fare meglio, del poter andare avanti persino con poco. Ricordo tante occasioni in cui ho sentito dire, magari in dialetto: “Si comincia così, poi si vedrà di fare dell’altro”. Queste città la cui storia non sembra ancora sufficiente, che desiderano di più, sono state ricche di potenzialità e di scommesse, almeno sino agli anni Novanta del secolo scorso. Dopo, pure qui è subentrata una sclerosi dell’immaginario: progetti, che potevano essere innovativi, sono stati considerati perdenti e accantonati, mentre la specificità del rinnovamento perdeva consistenza. Occorre essere piacevoli, non originali, efficienti, non arditi.

 

Adesso è più difficile sentire di partecipare a uno sforzo verso il miglioramento. Le feste religiose, come quella dedicata alla Madonna del Fuoco il 4 febbraio, o quelle laiche, per ricordare i tanti forlivesi impegnati nel Risorgimento e nella Resistenza, significano ben poco rispetto ai riti standardizzati del benessere diffuso. Forse, dopo la rapida fine della civiltà contadina, che pure durava da migliaia di anni, ci si avvia alla scomparsa della civiltà provinciale, in quanto fabbrica di soluzioni anticonformiste. Il rosso, non solo dei mattoni, è più pallido, il verde della ‘rella’, l’edera repubblicana, è stato trasmesso ad altro partito. Resta il bianco un po’ maculato della statua di Saffi, dall’atteggiamento pensoso.

 

Forse quello che occorre, per la città e per il Paese, è proprio una nuova scommessa su come, concretamente, si possa vivere insieme. Non la paura dei centri storici invasi dagli extracomunitari, non la mera repressione, ma una progettualità interculturale che superi i limiti del passato e accolga finalmente anche civiltà sinora tenute ai margini. La sfida, ora, è trovare stimoli per convincersi che si potrà ancora “fare dell’altro”.

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