Il fascismo giorno per giorno

16 Ottobre 2022

Giustamente Giovanni Scirocco ha scelto come esergo l’affermazione di Angelo Tasca che compare nel 1938 nelle conclusioni alla prima edizione (francese) del suo libro Nascita e avvento del Fascismo; frase che poi Tasca riprende nella presentazione alla prima edizione italiana della monografia, nel 1950. In un qualche modo quell’affermazione, si potrebbe dire, è «il sugo della storia».

Proprio per cogliere appieno il senso di quel pensiero propongo di riprendere per esteso il brano in cui compare.

Scrive Tasca:

Una teoria del fascismo non potrebbe quindi emergere che dallo studio di tutte le forme di fascismo, larvate o aperte, represse o trionfanti, giacché vi son più specie di fascismo, ciascuna delle quali implica tendenze molteplici e talora contraddittorie, che possono evolvere sino a mutare alcuni dei loro tratti fondamentali. Definire il fascismo significa sorprenderlo in questo divenire, cogliere la sua “differenza specifica” in un paese dato e una data epoca. Il fascismo non è un soggetto di cui basti ricercare gli attributi, ma la risultante di tutta una situazione dalla quale non può essere disgiunto. Gli errori dei partiti operai, per esempio, fan parte della “definizione” del fascismo al medesimo titolo che l’utilizzazione sua per conto delle classi dominanti.

Si potrebbe pensare che questo comunque sia a oggi un dato acquisito. Ne dubito. Le conseguenze di questa conclusione rappresentano una sfida che la storiografia ha impiegato molto tempo a fare propria – almeno una generazione – mentre la politica ha vissuto sempre con molta incertezza questa richiesta.

Per comprendere meglio queste difficoltà voglio ancora fare un passo un indietro. 

Nell’ottobre 1943 in uno dei suoi primi scritti del suo soggiorno a Capri, Croce, su richiesta del “New York Times”, scrive sul fascismo. A differenza di una “vulgata” odierna che ce lo presenta ormai congelato alla diagnosi del fascismo come “parentesi” e come “malattia”, Benedetto Croce propone alcune questioni che avranno un lungo corso nella ricerca storica.

In quel testo scritto nell’immediato, ma non “di getto”, Croce chiarisce varie cose: il fascismo non ebbe il merito di impedire la vittoria del comunismo in Italia, bensì fu, come aveva scritto Tasca, una “controrivoluzione ‘postuma’ e preventiva”; un segmento rilevante della sua realtà sociale e politica era stato rappresentato dalla rivolta generazionale e dallo “stile D’Annunzio”; il suo successo denunciava l’inconsistenza politica dei socialisti italiani. E inoltre Croce sosteneva che era stato l’attivismo, il culto per l’azione, l’incapacità del mondo liberale, le incertezze dei cattolici a rendere facile non solo la vittoria, ma anche a favorirne la durata. Non ultimo, sottolineava il fatto che più che di consenso era necessario parlare di uno «smarrimento di coscienza» che non aveva risparmiato nessuna classe sociale (classe operaia inclusa), mentre l’opposizione, pur sconfitta, testimoniava non della vocazione naturale di una parte politica, ma di una scelta morale, perché “interclassista o sopraclassista”.

Ancora nel 1946, in una lettera al giovane Enzo Santarelli (datata 11 febbraio 1946), Croce nota la difficoltà della sua generazione a fare i conti con quell’esperienza, perché, scrive: “… una storia che sia storia del fascismo è ancora da scrivere e io non l’ho scritta. Non la ho scritta e non la scriverò, perché ancora odio tanto il fascismo che vieto a me stesso di pur tentare di pensarne la storia”.

Di nuovo, si potrebbe dire, è ancora Angelo Tasca a essere citato indirettamente. 

Difficoltà che spiega almeno due cose: come e perché sia operazione necessaria e utile per non costruire miti ritornare alla dimensione del farsi concreto dei fenomeni storici e politici, per coglierne le molte possibilità; ma anche dopo, a scena conclusa, per considerare ove siano venute meno le risposte o dove siano evidenti i vuoti o le mancanze.

Dunque Angelo Tasca e la necessità di ripensare un tempo in relazione non solo a una crisi, ma anche al carattere di “modello” cui quella crisi allude. Ma anche “modello” cui allude una procedura.

La proposta di Scirocco è di tenerli entrambi – la crisi specifica e il “modello”. Questo, credo, ci consente finalmente di abbandonare lo sguardo sulla congiuntura italiana tra guerra e dopoguerra come «situazione di eccezione» per aprirsi a una “storia laboratorio”.

Si tratta quindi di assumere un doppio registro: 1) mettere in evidenza i punti svolta, e di scelta. In breve, i luoghi “al bivio”; 2) individuare la formazione di un linguaggio politico (fatto di lemmi, ma anche di gesti, di immagini…) che sarà parte essenziale dell’ideologia del regime, ma che in gran parte si costruisce nella retorica negli anni del “fascismo movimento”.

In entrambi i casi il tempo del «fascismo movimento» individua un cantiere in cui si definisce il palinsesto della storia italiana del ‘900.

Dunque i punti di svolta. Partiamo da quelli percepiti.

Nell’aprile 1921 Giovanni Zibordi scrive che il fascismo “è la controrivoluzione di una rivoluzione che non ci fu” [infra, pp. 162-163]. La descrizione è azzeccata e avviene in un tempo in cui forse, ancora, è pensabile una strategia politica di risposta. Per esempio: mettere in campo una diversa strategia politica, fondata sul principio di promuovere alleanze, anche in conseguenza di una visione della partecipazione al governo del Paese o, almeno, la candidatura, con altri, a concorrere per la formazione di un governo. Quella risposta non ci sarà. Il 28 ottobre 1922 è l’effetto più eclatante di quel vuoto di politica.

Torna opportuna la riflessione di Luigi Salvatorelli con cui Scirocco chiude [infra, p. 24, n. 31]: il fatto che la scena della marcia – ossia l’ingresso dei marciatori il 31 ottobre mattina a conferimento d’incarico governativo già dato, accettato e a governo varato – sia un coup de théâtre “inutile come mezzo diretto per la conquista del potere, [ma] prezioso per consacrare il potere conquistato”.

Dunque, per certi aspetti l’esito si profila già prima dell’ottobre 1922 e riguarda un processo molto lungo iniziato, prima della crisi evidente delle giornate di ottobre 1922 – o di agosto-ottobre 1922 – ovvero il tempo compreso tra il fallimento dello sciopero legalitario e l’incarico governativo a Benito Mussolini. Processo, che ha delle tappe preliminari e che, soprattutto, individua una data che definisce e apre all’epilogo “obbligato” della crisi.

Quali sono queste tappe? La prima sta fuori dalla cronologia ma resta come un mito profondo nel primo dopo guerra: è il “maggio radioso” che vede protagonista D’Annunzio (una delle figure che passano da protagonista a attore di seconda fila della crisi dell’Italia del primo dopoguerra). Quelle giornate lasciano una traccia e costituiscono un mito politico: dicono che un nuovo soggetto sta sorgendo e, soprattutto, che la politica non è più solo “palazzo”, ma è strada e soprattutto è stile politico (ovvero slogan, gesti, in breve “teatro”, un tratto che rimarrà profondo nella storia italiana del ‘900).

La seconda sta nel tempo compreso tra Caporetto e la fine della guerra. Mussolini conia in quei giorni un termine come “trincerocrazia” [infra, p. 31], con cui opportunamente Scirocco apre il nostro viaggio verso la “marcia su Roma”.

Trincerocrazia è un testo significativo, per i termini che include, ma anche per la rabbia che contiene, una rabbia che nel primo dopoguerra diverrà un aspetto essenziale del vissuto dello squadrismo. Testo che fa da matrice al linguaggio di rivendicazione che riempie le piazze al momento della vittoria. “Arditi! Commilitoni! – dice Mussolini rivolgendosi agli arditi il 10 novembre 1918. “Io vi ho sempre difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava… Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe faranno giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia. Essa è vostra!”.

È l’inizio di una campagna di candidatura alternativa alle sinistre, o a configurare un diverso dopoguerra (la piazza nazionalista che contrasta Wilson e Bissolati alla Scala l’11 gennaio 1919 [infra, p. 41] su sollecitazione di D’Annunzio in cui Mussolini prende spazio, non è che un primo avvertimento degli scontri delle settimane successive (un altro momento fondante dell’identità è l’assalto alla sede dell’“Avanti”, il 15 aprile 1919, [infra, pp. 48-49]. E tuttavia ancora per un anno circa lo scontro non ha la dimensione della “guerra civile”.

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In quei mesi, tuttavia, lentamente la situazione si trasforma. Il primo dato più evidente è la trasformazione di un gergo. L’appellativo “cagoia” ideato da D’Annunzio per indicare Nitti inaugura uno stile che Mussolini fa presto suo. E che si estende anche ad altro.

Il Partito socialista, nella retorica di Mussolini, non è il Psi, ma è il Partito ufficiale socialista, il PUS. Il gioco dello sberleffo e del degrado dell’avversario politico che fa la sua comparsa nell’estate 1919 è definitivamente varato nel dicembre 1919 e diviene linguaggio ufficiale all’inizio della primavera 1920. Lì si consuma un passaggio.

Siamo nel maggio 1920, lo sciopero generale a Torino dell’aprile 1920 è finito senza risultati significativi. “Il Popolo d’Italia” il 27 aprile 1920 invita i lavoratori a abbandonare la casa socialista perché inaffidabile, comunque non volta a tutelare i loro interessi [infra, p. 83]. Nelle campagne lo squadrismo sta assumendo dimensioni significative. Il 24 e 25 maggio al congresso dei Fasci di combattimento che si tiene a Milano Mussolini dice che la rottura con la sinistra è definitiva. La sinistra è ora il nemico, l’“antinazione”, e si tratta di fronteggiarla.

Il primo luogo simbolico, dove trasformare l’avversario politico in nemico antinazionale – ovvero in “straniero” da sconfiggere ed eliminare – non solo politicamente ma anche fisicamente, tuttavia non è rappresentato né dallo spazio urbano della fabbrica né dalle leghe contadine nelle campagne. Più generalmente le Camere del lavoro. I fasci di combattimento e le squadre fasciste individuano quel luogo è laddove l’italianità è in pericolo. E il pericolo è nei luoghi delle terre irridente appena riconquistate. Dunque i luoghi di confine, dove l’italianità deve dimostrare di essere il “legittimo padrone di casa”. E gli altri, le altre culture, diventano “ospiti”, comunque subordinate. Ora è il confine il simbolo di quella lotta.

Confine non è la linea di frontiera. È laddove si dichiara che sia l’Italia come terreno non contrattabile perché quel luogo è “Patria”. Quel luogo sono le città o le aree multilinguistiche del paese. Chiunque persegua un obiettivo di conciliazione o di coabitazione diventa perciò il nemico, l’antinazione. Semplicemente “non è degno”. Conquistare non coincide con convincere, ma con dominare.

Il primo avvertimento avviene il 24 aprile 1921, a Bolzano quando le squadre dei Fasci di combattimento attaccano la folla accorsa in città in occasione dell’apertura della fiera cittadina. Ma la scena canonica avviene a Trieste, tre mesi dopo.

13 luglio 1920 alle 19: la folla assalta e incendia il Narodni dom, la Casa della cultura degli sloveni a Trieste a seguito del discorso di Francesco Giunta, commissario politico dei Fasci di combattimento per la Venezia Giulia. Quella è la prima scena della nuova stagione di lotta. Ora è il fascismo che avanza e il movimento socialista e sindacale ad arretrare.

Mussolini lo sancisce due mesi dopo, andando a Trieste a parlare al Politeama Rossetti (sempre a Trieste, in Piazza Unità d’Italia, esattamente 18 anni dopo, il 18 settembre 1938 proclamerà al popolo italiano che l’Italia, già razzista nei confronti dei popoli delle colonie, è ora anche ufficialmente antisemita). Mentre ancora lo sguardo di tutti è fermo su Torino nel giorno in cui finisce l’occupazione delle fabbriche, Mussolini dichiara l’inizio di una nuova stagione di cui Trieste il 13 luglio ha posto l’esempio e codificato una procedura [infra, pp. 101-102]. Due mesi dopo, il 21 novembre 1920, a Bologna la strage di Palazzo d’Accursio segna irrevocabilmente quel passaggio. Meno di un mese prima Attilio Tamaro, esponente di primo piano del movimento nazionalista, ha invocato la dittatura [infra, pp. 102-103].

Nel gennaio 1921 – negli stessi giorni in cui a Livorno avviene la scissione del Psi e nasce il Partito comunista d’Italia – Luigi Salvatorelli sottolinea come sia cominciata una nuova stagione. Il primo tempo del dopoguerra, scrive Salvatorelli, è ormai chiuso. Un nuovo tempo si è aperto, segnato dal dominio del fascismo. È il 30 gennaio 1921 [infra, pp. 134-135]. Un mese dopo, Mussolini afferma che il diritto alla violenza come riscatto e come presa in mano del futuro è la regola del nuovo tempo politico e che il fascismo ne è l’espressione. Il futuro non può che essere fascista. [infra, p. 139].

È il profilo che si definisce nei successivi diciotto mesi, segnato da quattro testi che Scirocco propone: i passaggi essenziali del primo intervento in parlamento da deputato tenuto da Mussolini il 21 giugno 1921 [infra, pp. 190-191]; il testo dell’intervento al congresso che trasforma i Fasci di combattimento in Partito nazionale fascista l’8 novembre 1921 [infra, pp. 224-225]; la sua dichiarazione dell’imminente trasformazione del fascismo in Stato, nella riunione alla sede del Pnf a Roma il 2 agosto 1922 sera, per rivendicare il diritto di intervento in nome dell’ordine, per contrastare e stroncare lo sciopero legalitario [infra, p. 262]; il riconoscimento della sconfitta definitiva del movimento socialista e sindacale da parte di Filippo Turati [infra, pp. 274-275].].

Il tempo del fascismo è ormai sancito, prima ancora che la sera del 28 ottobre il Generale Arturo Cittadini a nome del re convochi a Roma Benito Mussolini per formare il governo [infra, p. 308].

E tuttavia, proprio per certificare il passaggio irreversibile di quel momento, forse l’elemento più significativo è condensato nelle parole di Giovanni Amendola, che si collocano tra il momento della marcia e la percezione del tempo nuovo che si è aperto. Amendola scrive il 27 ottobre 1922:

…il nuovo allarme ci sembra ingiustificato. Lo Stato ha ancora forza e capacità per difendersi quando fosse veramente minacciato ed assalito. Ma nessuno che non voglia davvero la rovina della nazione può pensare ad assalirlo, sia con l’estrema violenza, sia con il corrodimento interno, perché a nessuno può giovare una eredità che si concreterebbe in un potere vuoto di senso, così sospeso, come sarebbe dopo il colpo di mano, tra l’anarchia e il fallimento. Restiamo, perciò, tranquilli. [infra, p. 300]

Poco più di sei mesi dopo, Giovanni Amendola sarà il primo a indicare nel fascismo un nuovo tipo di regime per il quale propone anche un termine nuovo – “totalitario” – per designare un sistema votato alla “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo politico e amministrativo”.

È iniziato un nuovo tempo.

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