25 aprile: l'Asse o la Liberazione?
Infine è arrivata, la prima Festa della Liberazione con i postfascisti al governo: mai era accaduto in oltre tre quarti di secolo di storia dell’Italia repubblicana. Il senso comune storico – causa ed effetto di questa marea nera montante – appare ormai largamente inquinato dalle banalizzazioni e, soprattutto, dalle distorsioni e dalle mistificazioni di decenni di arrembante revisionismo che hanno portato la storia e la memoria dell’antifascismo e della Resistenza a doversi difendere da reiterati attacchi. Ora anche dai più alti gradini delle istituzioni italiane. Tra gli ultimi rigurgiti di questa offensiva sempre più sfacciata l’irriverente sarcasmo del presidente del Senato, Ignazio Benito Maria La Russa, puntualmente rintuzzato dall’insorgere della rete e dagli storici di professione, e i cui “argomenti”, rapidamente sbriciolabili da chiunque, sono stati pazientemente confutati uno per uno anche da un comunicato dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. La sostanza? Via Rasella fu un legittimo atto di guerra; e “il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento”. E poi, ancora nel comunicato, troviamo quattro punti decisivi che ci ricordano di quel terribile ordine già eseguito quando fu annunciata la criminale ritorsione delle Fosse Ardeatine:
- È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione anti-partigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.
- Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione anti-partigiana.
- A seguito dell'attacco i Tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l'aiuto della Questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22,55 del 24 marzo 1944.
- Per tale atto il Questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall'Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.
Atto di guerra, dunque, nell’alveo più ampio di una battaglia innanzitutto valoriale. “Non prendevamo nemmeno in considerazione l’idea di fucilare qualcuno villanamente”, leggiamo nell’autobiografico “resoconto veritiero” (“romanzo” e “non-romanzo”) I piccoli maestri di Luigi Meneghello: “dovevamo giustificarci ogni più modesta esplosione, ogni più piccola morte”, “non spaventare senza bisogno, non assassinare senza spiegazioni”; e questo specifico punto di vista immortalato dalla letteratura lo si trova già nelle celebri pagine finali di Un uomo un partigiano di Roberto Battaglia (1945), primo storico della lotta di liberazione, e nel fondamentale Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991) di Claudio Pavone: “l’impegno in vista di fini positivi non cancellò mai completamente nella violenza resistenziale il carattere difensivo. La scelta di uccidere veniva dopo, era una conseguenza della scelta fondamentale di contrapporsi alla violenza dell’altro. La violenza resistenziale poteva dunque essere ricondotta, in senso ampio, sotto la categoria della legittima difesa, implicante la possibilità di essere a propria volta uccisi”.
Guerra alla guerra
La Resistenza fu nei fatti guerra di guerriglia; si tradusse in una serie ininterrotta di legittimi atti di guerra riconducibili appunto alla categoria della altrettanto legittima difesa, considerando inoltre la feroce guerra ai civili che, da Boves alle Fosse Ardeatine, da Civitella in Val di Chiana a Sant’Anna di Stazzema, da Monte Sole (alias San Martino, alias Marzabotto) a San Martino di Lupari, vide i nazifascisti macchiarsi di crimini efferati rimasti in gran parte impuniti, assassinando uomini inermi, donne e bambini in quella che può essere letta come un’unica, ininterrotta, strage con un picco nell’estate 1944 (luglio-settembre) che vide oltre 7.000 vittime. Invito chiunque a farsi “un giro” sul portale Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia, per non parlare di pagine raccapriccianti che le hanno precedute e di molto, come il genocidio in Cirenaica, il massacro di Addis Abeba e quello di Debre Libanos, e in generale la lunga scia di sangue provocata (anche) da ordinari e volonterosissimi carnefici del Duce, come anche il nuovo libro di Eric Gobetti contribuisce a mostrare inequivocabilmente, in oltre vent’anni di guerra sostanzialmente senza soluzione di continuità, dalla “quarta sponda” libica fin nel 1922 alla primavera del 1945 nel territorio italiano a nord della Linea Gotica.
Ma, come si usa dire, non c’è più sordo di chi non vuol sentire – a proposito di luoghi comuni. E fascista è chi il fascista fa, per parafrasare il Forrest Gump del celeberrimo “Stupid is as stupid does”. Non ci deve sorprendere che i nipoti di Mussolini – così definiti nel brillante saggio di David Broder uscito il mese scorso per Pluto Press – verticalizzino l’offensiva antiantifascista e antiresistenziale degli ultimi decenni, una volta che, prese le redini del potere, tentano anche goffamente di imbastire una strategia pubblica per prendersi – riprendersi, se si pensa al ventennio – l’egemonia culturale. Che già di per sé è una mossa assai problematica, come ha rilevato sinteticamente Mattia De Bernardis sulle pagine di “Domani”, “Che una parte politica sia tentata di dettare linee e ri-orientare gerarchie nell’ambito culturale, dopo che le ultime vittorie elettorali le avrebbero concesso un chiaro mandato per smantellare finalmente l’egemonia culturale della sinistra in Italia, l’abbiamo capito. Che l’egemonia culturale della sinistra in Italia si smantelli facendo spoil system nelle (poche) istituzioni culturali ancora vive e non elaborando, appunto, cultura, mi pare un grossolano errore – ancorché comprensibile, vista la facilità della prima opzione rispetto alla seconda”.
Restando sulle celebrazioni di questi giorni, tuttavia, non si rilevano né l’una nell’altra opzione: la “loro” è una coazione a ripetere, che seguendo il mantra “Anche i partigiani però…” getta sistematicamente fango su quella straordinaria stagione di volontarismo democratico, unica nella storia italiana del Novecento (invero preceduta da un altrettanto significativo prequel, il “Risorgimento atlantico” degli internazionalisti ottocenteschi).
Generi, generazioni e nazionalità in armi
Fu un volontarismo, quello resistenziale, che coinvolse una nutritissima minoranza; eppure oggi come non mai è ribaltato, nel senso comune, il significato profondo di quei venti mesi in cui migliaia, poi decine di migliaia e infine centinaia di migliaia di giovani decisero di prendere le armi per rifondare radicalmente un paese, affiancati/e da migliaia di stranieri – probabilmente non meno di quindicimila –, e in cui milioni di italiane/i sostennero nelle campagne, sui monti e nelle città il partigianato italiano per sconfiggere il fascismo e l’occupante nazionalsocialista. Ancora Meneghello (e il suo “libro vero della Resistenza” secondo Primo Levi) in I piccoli maestri:
“perché, se non avevamo un nostro fronte interno, avevamo però qualche cosa di meglio: l’alleanza clandestina ma naturale di un gran numero di famiglie e di persone. I professionisti veri e propri erano indubbiamente pochi; ma il margine dell’adesione e della compromissione degli altri era enorme. Per lo più era gente che non si sarebbe mai sognata di mettersi a fare la Resistenza per conto suo; ma per i ragazzi che la facevano, erano disposti a molte cose. Ci ospitavano, ci nutrivano, ci fornivano le biciclette, ci recapitavano i messaggi, tenevano in casa depositi e archivi, e magari anche la trasmittente clandestina, e addirittura l’operatore della trasmittente clandestina; e provvedevano perfino a chiamare, secondo il bisogno, un radiotecnico di fiducia per la trasmittente, o il medico di famiglia per l’operatore”.
E poco prima: “Ci considerano le loro forze armate”, pensava l’autore. “Dev’essere la prima volta che questo succede, nella storia italiana. Peccato che ogni tanto ci troviamo piuttosto disarmati”. Già, e lo siamo – metaforicamente parlando – di nuovo.
Celebrare l’Asse o la Liberazione?
Perché pare che oggi, per molti, quell’Europa nera fosse meglio di loro, di questi piccoli e grandi maestri di storia e di vita. Rimasticando la retorica missina, il gorgoglio anti-antifascista della “memoria grigia”, il qualunquismo benaltrista che orbita da decenni intorno a ciò che il 25 aprile dovremmo festeggiare, questa “nuova egemonia” non fa che santificare le forze dell’Asse, quell’ideologia e quelle pratiche che devastarono un continente e produssero decine di milioni di morti, e intere nazioni in macerie; basti pensare alla famigerata legge che in molti/e denunciammo, quella Giornata della memoria e del sacrificio degli alpini nella lugubre data del 26 gennaio, che schiacciava così la memoria della Shoah tra una celebrazione della guerra nazifascista e il martirologio del confine orientale, cavallo di battaglia del fascismo 2.0 e 3.0 e dell’estrema destra ora di governo. Oggi, con la complicità imperdonabile di chi ha contribuito a normalizzarla (il “centrodestra”!!) annacquandone i connotati oscurantisti, eversivi e nostalgici, ce la troviamo al potere. Ma le parole che usano, con microscopici scarti, sono fondamentalmente sempre le stesse.
Quasi un lustro fa, in occasione del centenario del 4 novembre 1918, quando l’attuale presidente[ssa] del Consiglio non era che una deputata, con l’immancabile mantra “Non passa lo straniero” attaccava all’epoca il 25 aprile, riciclando ad libitum la solita vecchia e originalissima argomentazione: sarebbe “divisivo”. Oggi vale ancora di più quanto già allora era chiarissimo, e da tempo immemore ripetiamo: il 25 aprile è divisivo, e chi lo nega; lo è per i fascisti. Se la storia della Resistenza italiana è stata più importante di quella delle altre resistenze europee, suggeriva Ferruccio Parri nel 1964, è stato per la “capacità che essa ha avuto partendo politicamente divisa di arrivare alla fine unita”, e di sfilare compatta alla Liberazione. Ed è questa “la forza che ha portato alla Costituzione”. Una Costituzione che è un concreto riconoscimento reciproco di tutte le forze che hanno combattuto i nazifascisti. E cioè, sia ribadito, gli spietati nazisti e i loro feroci vassalli fascisti, che oggi come ieri cantano “non passa lo straniero”, ma che quando stranieri erano gli occupanti “germanici”, come si diceva all’epoca, con buona pace del loro nazionalismo costantemente rinnovato li affiancavano – e molto volentieri – nelle stragi di civili (italiani), nelle cacce all’uomo e nelle deportazioni di oppositori politici (prevalentemente italiani) ed ebrei (prevalentemente italiani). Una Costituzione che è forgiata nella lotta e nell’impegno delle forze politiche che hanno vinto l’oppressione liberando le grandi città del nord – e nell’ultimo mese di guerra ben 125 città – prima dell’arrivo degli Alleati, insorgendo e presentandosi all’appuntamento con la Storia con un esercito unitario rappresentativo di tutte le anime dell’antifascismo. Forze politiche – dagli azionisti ai liberali, dai democristiani ai comunisti, dagli “autonomi” ai socialisti –, sostenute da numerosi stranieri, che rappresentavano e rappresentano tutti gli italiani. Tranne, appunto, i fascisti. Il 25 aprile noi celebriamo questa unità, fragile e in gran parte dimenticata. Da ritrovare, da coltivare.
Fascisti o non fascisti, egemonia o non egemonia, converrebbe ricordare insistentemente chi erano i loro nonni, più o meno ordinari, più o meno criminali, e che se oggi questi/e possono parlare e persino essere eletti/e è perché qualcun altro, gli stessi che sbeffeggiano ormai quotidianamente, ha lottato anche per loro.