Uccideresti l’uomo forte?
Un’automobile avanza a passo d’uomo tra le vie di un paesino non identificato, poi accelera. Il palcoscenico dell’azione è rurale e, tolta l’auto anacronistica che procede, si direbbe che siamo tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento, in qualche campagna mitteleuropea. Un bambino è in strada, spensierato, con un aquilone. Sua madre lo osserva sorridendo dalla finestra, ma l’automobile accelera. Poi, l’impatto. La donna si precipita fuori di casa gridando “Adolf!”, mentre la macchina da presa svela il cartello: il paese è Braunau am Inn, in Alta Austria, luogo in cui nel 1889 nacque Adolf Hitler. “Erkennt Gefahren, bevor sie entstehen”, leggiamo in sovrimpressione, prima di vedere il cadavere del bambino e sentire un’ultima volta uno straziante “Adolf!!”: “Rileva i pericoli, prima che si presentino”, dice la scritta. L’effetto, almeno per chi scrive, è un angosciante e colpevole senso di sollievo.
Dieci anni fa questo celebre spot non autorizzato della Mercedes fece molto scalpore, portando a discutere ben oltre la consueta vacuità delle polemiche cui siamo abituati, su un piano certo più filosofico (come non pensare all’altrettanto noto Uccideresti l’uomo grasso? di David Edmonds?). L’interrogativo che lo spot suscitava nello spettatore e nel fugace ma interessante dibattito che seguì, dando corpo alle ipotesi controfattuali – à la “sliding doors”, per concedersi maggior leggerezza –, era infatti serissimo: se lo sapessimo per tempo e per certo (!), che quel bambino diventerà Adolf Hitler, lo uccideremmo? O giustificheremmo un omicidio del genere? E, ammesso che questo sia possibile, si potrebbe così modificare il corso della storia, rilevando i pericoli “prima che si presentino”?
Le impronte sulla storia
“Per loro stessa natura, i ragionamenti con i ‘se’ non possono mai ricevere una risposta definitiva”, scrive lo storico Ian Kershaw in L’uomo forte. Personalità e potere nell’Europa contemporanea (Laterza 2022, traduzione di Alessandro Manna). Non si può naturalmente rispondere a questo grumo di interrogativi in qualsivoglia saggio, tantomeno in questo che – in qualche misura – per lo meno ci prova. Il raggio d’azione è ottimamente circoscritto: Kershaw, uno dei massimi esperti del nazionalsocialismo tedesco ha anche firmato, negli ultimi anni, due monumentali opere che ricostruiscono l’ultimo secolo di storia del “vecchio continente”: All’inferno e ritorno (Laterza 2016), e L’Europa nel vortice (Laterza 2020).
Ed è anche per questo che lo storico britannico con il suo nuovo lavoro allarga lo sguardo senza spingersi oltre il Novecento e i confini del continente che meglio conosce: il suo corposo studio è dichiaratamente eurocentrico, e individua undici uomini (appariranno tutti oltre) e una donna (Margaret Thatcher) “il cui operato ebbe notevole rilevanza anche – aspetto tutt’altro che secondario – oltre i confini dei rispettivi paesi”. L’uomo forte dunque, ripercorrendo queste dodici biografie di sei dittatori, cinque leader democratici e uno strano ibrido come fu Michail Gorbačëv, indubbiamente “salito al potere grazie a un sistema dittatoriale”, e diventato, “in un certo senso”, democratico in seguito, cerca di rispondere a un dilemma di non poco conto, che prosegue il filo del ragionamento di quelli da cui siamo partiti.
E cioè: gli esseri umani, vale a dire i singoli individui, “fanno” la storia o lasciano solo una loro personale “impronta”? Per mutuare quanto si chiede Kershaw in relazione a Francisco Franco, è dunque “l’individuo a determinare il corso della storia […], oppure questa [è] plasmata da più ampie e impersonali strutture e dinamiche politiche, economiche e culturali”?
Nel concreto, per fare qualche esempio in scia ai suoi interrogativi, su queste dodici figure in gran parte “prodotto, in un modo o nell’altro, della natura drammaticamente distruttiva e trasformatrice della prima metà del secolo [scorso]”: sarebbe esistito il fascismo senza Benito Mussolini? Ci sarebbe stata una seconda guerra mondiale senza Hitler? La Gran Bretagna avrebbe resistito all’onda nera senza Winston Churchill? Come sarebbe stato il comunismo senza Stalin (o Lenin, o Tito)? E sarebbe evaporato comunque senza Gorbačëv e la sua “inestinguibile sete di riforme”?
O ancora: avrebbe trionfato il neoliberismo senza Thatcher? Fu Helmut Kohl a traghettare la Germania verso l’unificazione o si trovò semplicemente a gestire un processo in corso a prescindere da lui? È “la questione del ruolo dell’individuo nella storia”, nelle parole dello stesso Kershaw, che in alcuni casi arriva a sottolineare come – ci tornerò brevemente su – questo fu “caratterizzato in modo così netto” come ancora lo si interpreta sovente nel corso della storia stessa; il riferimento alla denuncia dei crimini di Stalin al XX congresso del Pcus, nel 1956, è certamente paradigmatica. “Ogni cosa finiva per dipendere dall’arbitrio di un solo uomo”, sostenne con una buona dose di cinismo e strumentalità Nikita Chruščëv – il che, nel caso specifico, è anche piuttosto aderente al vero, e milioni di cadaveri sovietici e non solo – portano l’agghiacciante “marchio di fabbrica” (termine ricorrente nel saggio di Kershaw) di Iosif Džugašvili, da noi conosciuto appunto come Stalin, “uomo d’acciaio”.
[Un’osservazione a questo proposito: è da rilevare come la maggior parte dei leader carismatici del Novecento siano passati alla storia con il nome da loro adottato – o accettato con tracotanza – e che non corrisponde a quello prescelto all’anagrafe, certificando una “costruzione” del personaggio le cui ombre si proiettano sui lunghi decenni a venire: Vladimir Il'ič Ul’janov, per cominciare, poi appunto Stalin, Tito e, volendo allargare il campo visivo, il Duce, il Führer, il Caudillo/Generalissimo, la “Lady di Ferro”, tutti appellativi che ancora oggi noi regolarmente utilizziamo nei nostri scritti, spesso con motivazioni assai banali: evitare fastidiose ripetizioni. E intanto il mito di loro stessi continua a propagarsi, per lo meno su un piano inconscio. Fine della parentesi (auto)critica].
Nazione e potere
Pur avendo avuto un’influenza assai ampia, “oltre i confini” dei loro paesi d’origine, tolto “l’uomo forte” che apre il volume, vale a dire Lenin che contribuì significativamente a rendere il comunismo “una forza trainante in svariate aree del pianeta”, tutti i protagonisti di questo volume hanno dato totale centralità allo Stato nazione nel quale si sono trovati a operare; se non erano apertamente nazionalisti erano guidati in ogni caso da un aggressivo patriottismo, sovente condito da un forte senso del dovere e da una personalità a dir poco ingombrante, che fece mettere loro al centro (di norma dopo loro stessi) il loro paese.
Questa chiusa lapidaria su Churchill ne è un ottimo esempio: “Egli incarna la memoria pubblica di una storia epica: quella di una grandezza ormai perduta, a cui seguì una lunga e irreversibile fase di declino nazionale. Una visione che non ha certo aiutato questa potenza europea di medie dimensioni [la Gran Bretagna] ad accettare il proprio posto nel mondo moderno”.
Parola di uno storico britannico, che non si lascia sfuggire la tentazione dell’ipotesi controfattuale, prima di indagare diffusamente l’alternativa più verosimile, e cioè se nel maggio del 1940 fosse divenuto primo ministro il meno testardo Lord Halifax, in luogo di Churchill: “Se fosse morto prima del 1939, Churchill sarebbe forse stato ricordato come ‘colui che aveva preparato la marina britannica alla prima guerra mondiale’ [così il suo biografo Andrew Roberts], o, forse, più probabilmente, come colui che aveva causato il disastro dei Dardanelli”.
Le vite private sono praticamente assenti, di norma totalmente sacrificate, all’epoca dei fatti, sull’altare dell’affermazione di sé e della propria nazione: tra i pochi barlumi di umanità, colpisce in particolare la parabola finale di Kohl la cui vita politica, che lo “aveva consumato totalmente”, alla fine “divorò anche la sua famiglia”. “Per il resto – scrive Kershaw sul finale – non c’è alcun bisogno di sottolineare che ciascun leader qui preso in esame aveva uno spiccato gusto del potere e che, una volta raggiuntolo, fu estremamente riluttante a lasciarlo”. Oltre agli spietati Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin e Franco – in rigoroso ordine di apparizione, con un inconfutabile aggettivo che li accorpa tutti – spicca la “costante brama di potere” di Iosip Broz Tito, così definita da uno dei suoi colonnelli che poi gli voltò le spalle, Milovan Đilas, come “l’arroganza del potere” di Margaret Thatcher che arrivò a convincerla, “in maniera delirante, di essere invincibile”: “La sua convinzione che solo una leadership forte, necessaria per attuare un cambiamento politico radicale, fosse in grado di invertire l’inesorabile declino di una nazione dal grande passato, era in sintonia con quello che già pensavano in tanti”, e fu la base per la costruzione della figura e della mitologia della “Lady di Ferro”. I casi liminari sono quelli credo più interessanti e meno rilevati, come ad esempio il “conservatorismo autoritario” del lungo cancellierato di Konrad Adenauer, o la “sete inestinguibile di potere” di Kohl: nessuno dei componenti di questa “squadra” era esente dal fascino che sprigiona il pugno di ferro.
La fine dei “grandi uomini”?
Tutti questi protagonisti del Novecento – per lo più maschi bianchi morti –, “istintivamente autoritari, pronti e determinati a comandare”, dedicarono il loro acume in larga misura a costruire il mito di loro stessi (fa ancora parzialmente eccezione Lenin, la cui figura divenne “totemica” soprattutto quando non era più in vita, forgiando anche il culto della personalità del suo successore, Stalin). Ed è un dato che spicca per i primi due terzi del secolo: se è alquanto noto che così fecero Mussolini e Hitler, così come il loro omologo spagnolo (in seguito alla vittoria della guerra civile spagnola “la fabbricazione del culto di Franco si fece febbrile”, rileva Kershaw), il giudizio dello storico anche su leader democratici, su tutti Charles de Gaulle, è piuttosto tranchant.
Oltre a essere il “principale artefice” del mito di sé stesso de Gaulle fu a suo avviso, infatti, “l’ultimo di una serie di leader politici europei che si consideravano dei ‘grandi uomini’; e la “leadership carismatica” perse slancio vitale con l’affermarsi del pluralismo democratico, delle libertà civili e dei diritti umani. Forse questo lo si può derubricare a wishful thinking, a essere onesti, come peraltro ammette lo stesso Kershaw in altri momenti della sua disamina.
Va rilevato, infatti, che sebbene il libro si fermi deliberatamente sullo scorcio finale del Novecento, nelle Conclusioni non si manchi di rilevare come la linea di tendenza della stretta attualità sia assai preoccupante: “quanto più la democrazia sembra funzionare in modo inadeguato, tanto più cresce la richiesta di una leadership forte. […] Le tentazioni dell’autoritarismo sono in agguato quando le democrazie sono in difficoltà. Sono state proprio simili tentazioni a distruggere le democrazie in passato, come dimostrano alcuni casi di studio presentati in questo libro. E potrebbero farlo nuovamente”.
Peraltro proprio nelle ultime pagine del libro, che ho letto mentre a Brasilia andava in scena un’ipotesi di golpe in scia al Capitol Hill statunitense e alla costante e in apparenza inarrestabile erosione della democrazia worldwide, si sostiene qual è il vero “banco di prova dei leader democratici” degni di questo nome (Donald Trump e Jair Bolsonaro, con ogni evidenza, non lo sono). E cioè: “sono pronti ad andarsene quando vengono sconfitti o se non possono più contare sulla loro base di consenso?”. Facendo l’esempio dell’Ungheria di Viktor Orbán e della Polonia di “Diritto e Giustizia” (sic), lo storico britannico rivela come si tratti di casi in cui “dei politici eletti democraticamente, sorretti da un ampio sostegno popolare, stanno distruggendo la democrazia stessa”. E si tratta, di norma, di regimi amici di quei “nipoti di Mussolini” – per citare il titolo di un importante saggio di David Broder in uscita per Pluto Press tra un paio di mesi – che in Italia hanno preso da poco il potere.
La periferia del discorso
Per finire, à propos. Un dato curioso, considerati anche i tempi d’uscita – il libro è andato in stampa nell’estate del 2022 per Allen Lane, con il titolo Personalità e potere. Costruttori e distruttori dell’Europa moderna – è che ben sei dei suoi dodici protagonisti sono “russi” (se comprendiamo il georgiano Stalin) o tedeschi: in entrambi i casi che partorirono le due dittature più terrificanti del secolo scorso è come se Kershaw avesse voluto ribilanciare i due peggiori criminali della prima metà del Novecento, Hitler e Stalin, con figure con tendenze certo autoritarie, in linea con la sua ipotesi interpretativa, ma sicuramente da annoverare più facilmente tra i costruttori, e non tra i distruttori; l’operazione funziona soprattutto grazie alla presenza di Gorbačëv per l’Urss e di Adenauer e Kohl per la Germania.
Per il caso italiano, invece, non c’è traccia di questo ribilanciamento, anzi. Non avrebbe probabilmente sfigurato un Alcide De Gasperi, al fianco dei vari Churchill, de Gaulle e Adenauer, sarebbe stato assai problematico inserire una figura come quella di Ferruccio Parri, vera nemesi dell’“uomo forte” in salsa italica e della personalità autoritaria in senso più lato; per fortuna ci è stata risparmiata la corporeità invadente di Silvio Berlusconi (c’è un cenno alla sua “figura burlesca” in chiusura del capitolo su Mussolini), dal momento che il saggio si ferma al crollo dell’Urss e alla fase apicale, tuttora in corso e tutt’altro che priva di ostacoli, del lungo processo di integrazione europea.
Per il caso italiano, tolte un paio di pagine che fanno cenno allo “zoccolo duro di reazionari simpatizzanti del fascismo”, consegnando alla storia con eccessivo ottimismo l’ombra “confusa e sbiadita” di Mussolini, L’uomo forte non dà nemmeno conto della tempesta postfascista che negli ultimi mesi ha stravolto il paese e che dopo tre quarti di secolo ha (ri)conquistato gli scranni del potere, e non era in ogni caso parte del suo progetto intellettuale.
Rimangono però conficcate, a riverberare nella mente di un lettore preoccupato dalla strettissima attualità, le parole con cui il biografo di Hitler definisce un concetto – che ritorna ciclicamente nei suoi lavori – fondamentale per capire tutti i leader autoritari, in atto o in nuce. Kershaw definisce così quel bambino non investito dall’auto della storia controfattuale, che pochi anni dopo portò l’Europa alla distruzione: “Il suo ossigeno era la crisi. Senza la crisi, in effetti, era in grado di far presa solo sulle frange più radicali della politica”. Senza la crisi (del 1929, in quel caso) “il suo magnetismo sarebbe svanito nel nulla; molto probabilmente sarebbe scomparso dalla scena politica, tornando a essere quel personaggio irrilevante che era stato un tempo”.
Ed è quello che auguriamo, rinnovando il wishful thinking dell’autore, a tutti gli uomini e le donne “forti” del passato e del presente: che tornino irrilevanti, perché la democrazia non ha bisogno di loro.