Risorgimento a destra: smalto e appeal

8 Novembre 2022

Nel suo discorso di insediamento quale nuova presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, Giorgia Meloni non ha mancato di riservare, tra i riferimenti storici che puntellano l’identità politica sua e del suo governo, qualche breve cenno al Risorgimento; il quale, a ben guardare, emerge nel discorso di Meloni su tre livelli differenti: il primo è quello esplicito e diretto, nella frase «l’Italia, che il 17 marzo di 161 anni fa è stata unificata dai giovani eroi del Risorgimento e oggi, come allora, è dall’entusiasmo e dal coraggio dei suoi giovani che può essere risollevata». Il secondo è quello esplicito e indiretto, con il riferimento alle figure femminili del Risorgimento alle quali Meloni riconosce il valore di “antenate” nella genealogia muliebre di impegno politico, culturale, scientifico, civile di cui “Giorgia” si sente erede e che cita soltanto con il nome di battesimo: Cristina (Trivulzio di Belgioioso) e Rosalia (Montmasson Crispi).

Il terzo è quello implicito, rintracciabile in un certo lessico usato per dar corpo ai concetti di patria e di nazione, termini preferiti in assoluto dalla nuova premier per designare la nostra comunità politica e civile, rispetto a quelli normalmente più utilizzati nel discorso pubblico come “Repubblica” o “Paese”; per esempio, in frasi come (in riferimento agli Stati europei) «nazioni con storie millenarie, capaci di unirsi, portando ciascuna la propria identità come valore aggiunto»; oppure, parlando di “sovranità alimentare”, «non dipenderemo da nazioni distanti da noi per poter dare da mangiare ai nostri figli».

Come e quanto queste premesse saranno confermate lo vedremo con il tempo, ma intanto è già evidente che per l’uso pubblico del Risorgimento in questo nuovo corso politico c’è ampio spazio di manovra. E c’è dunque materiale, per gli storici, per riflettere su motivazioni, modalità e termini di questo uso pubblico, mettendolo in relazione sia con la realtà storica, sia con le altre fasi che nel tempo hanno caratterizzato la memoria e il racconto del processo fondativo dello Stato unitario italiano. Senza alcuna pretesa di esaustività, proviamo qui a fare un punto sulla questione e ad abbozzare qualche stimolo al ragionamento.

Che il Risorgimento, in questa fase politica che vede alla guida un partito che trae il nome da un verso dell’inno di Mameli (fratelli d’Italia / l’Italia s’è desta), riacquistasse smalto e appeal c’era da aspettarselo. Innanzitutto, perché qualunque discorso nazionale – e nazionalista – non può che passare da lì, per abbeverarsi alla fonte di alcuni concetti fondamentali, a partire proprio da quello di nazione. Ma poi perché attingere al Risorgimento è un modo per aggirare, a destra, la Resistenza, scavalcando l’evento fondatore della Repubblica per arrivare a un evento fondatore ancora più “originario”, e in quanto tale considerato meno divisivo; e per aggirare – mi si consenta l’ossimoro – a “sinistra”, l’imbarazzo del fascismo, grande laboratorio di nazionalismo novecentesco, rinnegato nello stesso discorso della presidente in quanto regime antidemocratico ma non certo come implicito nucleo di valori ispiratori (con contraddizioni logiche e ideologiche difficilmente eludibili, e vedremo prima o poi i nodi arrivare al pettine).

Entrambe queste proposizioni vanno meglio circostanziate. Iniziamo dal primo punto, riguardante la relazione tra Risorgimento e contenuti dell’idea di nazione: l’origine stessa del Risorgimento come oggetto storiografico è connessa alla nascita e alla definizione della nazione italiana, come comunità di appartenenza e come soggetto politico. A metà Ottocento, la parola “risorgimento”, che fino ad allora circolava in ambienti intellettuali come generico auspicio che la penisola italiana recuperasse la posizione di egemonia politica, economica e culturale che aveva nell’antichità, diventa un programma politico diffuso tra le borghesie liberali, impegnate a scardinare – ideologicamente ancora prima che fisicamente – il potere assoluto esercitato da dinastie sia autoctone che “straniere”, e ad affermare l’idea nata dalla Rivoluzione francese della sovranità popolare. 

Poiché questo programma politico a un certo punto trova la strada per tradursi in azione, e poi concretamente in istituzioni sovrane che governano un nuovo Stato-nazione, la parola passa a designare un processo storico: e in particolare il fenomeno che vede numerosi uomini politici alla guida di un movimento d’opinione, che diventa movimento insurrezionale e che trova infine nella monarchia piemontese dei Savoia l’indispensabile appoggio militare e istituzionale per raggiungere l’obiettivo dell’unità territoriale e politica della penisola.

La periodizzazione “classica” è compresa tra le date del 1815 e – più ancora che il 1861, data di nascita del Regno d’Italia – del 1870: cioè tra il Congresso di Vienna, che spartisce l’Italia di nuovo tra i sovrani assoluti dopo gli sconvolgimenti portati dalla Rivoluzione francese e dalle campagne militari di Napoleone Bonaparte; e la conquista di Roma che porta a compimento il piano di unificazione del territorio italiano immaginato da tanti patrioti. Ma se consideriamo l’intero arco temporale nel quale il concetto di nazione italiana si forma, prende rilevanza politica, si dà un preciso ambito territoriale di sovranità politica e poi progressivamente si lega a questo territorio o anche solo lo rivendica, possiamo estendere di molto questi limiti temporali, arrivando a concepire, come fa lo storico Gilles Pécout, un «lungo Risorgimento» che va dal 1770 al 1922, dall’illuminismo all’avvento del fascismo.

Ad ogni modo, sia che si applichi l’interpretazione culturale ed estesa, sia che si mantenga il focus sulla fase di costruzione politica e istituzionale nel cuore dell’Ottocento, il “risorgimento” contiene in sé fin dalle sue origini il crisma dell’uso politico della storia. Se con la creazione di uno Stato-nazione unitario l’Italia “ri-sorge”, evidentemente era già sorta prima e poi caduta. 

L’idea di fondo è che la nazione come comunità politica si innesta sulla nazione come comunità culturale, un’entità preesistente che affonda le radici in un lontano passato. Di più: proprio in virtù di questa storia millenaria, la comunità culturale che ambisce a essere una comunità politica è anche una comunità di sangue, di discendenza, che abitando da secoli su un dato territorio ha sviluppato con esso uno specifico legame; un legame che la presenza dello “straniero” in qualche forma intacca e disturba.

Tutto questo, come hanno dimostrato gli studi storici sul tema almeno da quarant’anni a questa parte, è una costruzione culturale: di fatto, il Risorgimento inventa l’Italia come nazione, almeno tanto quanto – in un perfetto percorso circolare – i patrioti che si sentono italiani inventano il Risorgimento. Intendiamoci, il fatto che sia una costruzione culturale non rende una cosa meno “vera”, nel senso di concreta e operante nella società: la nazione è una delle costruzioni culturali più “vere” della storia, tanto da dare forma al mondo che conosciamo. Per certi versi, le nazioni oggi sono anche più “vere” rispetto all’Ottocento: un secolo e mezzo di dominio politico incontrastato della forma istituzionale dello Stato-nazione ha davvero forgiato comunità nazionali con tratti culturali abbastanza omogenei all’interno e diversi rispetto all’esterno; ma si tratta appunto dell’effetto di scelte politiche e culturali e di processi storici, non della loro origine.

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Il problema, dunque, è costituito non tanto dal fatto di parlare del Risorgimento come dell’età fondativa della nostra nazione intesa come “patto politico”, cioè del nostro Stato-nazione; quanto piuttosto dal voler recuperare alcuni presupposti ideali e culturali della nazione risorgimentale, come quello delle radici millenarie e della discendenza di sangue, per proporre oggi un concetto di nazione che poteva essere comprensibile nel contesto della metà del XIX secolo, quando la “nazione italiana” ancora doveva convincere i suoi stessi supposti membri della propria esistenza, ma di cui ora non possiamo non vedere tutta l’inconsistenza.

E veniamo così al secondo punto, quello cioè che ci interroga sul senso di proporre il Risorgimento come oggetto di politiche della memoria utili per la Repubblica italiana del XXI secolo.

La questione si è posta in modo concreto e “intensivo” poco più di dieci anni fa, quando si è trattato di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, e il Risorgimento ha brevemente occupato il centro della scena memoriale nazionale dopo decenni di dignitoso oblio. Mi pare che quell’occasione, proprio perché cercava di riannodare fili ormai sottili e fragili, abbia mostrato molto chiaramente che ricordare quel passato ha senso soltanto se serve a diffondere una maggiore consapevolezza dei fenomeni storici, con tanto di chiaroscuri e contraddizioni, e dunque a mettere correttamente in prospettiva anche la nostra religione civile ed eventuali moti di orgoglio nazionale. 

Scrivendo proprio immerso in quel clima, nell’introduzione all’antologia Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini (Laterza, 2010), Alberto Mario Banti – lo storico italiano che più ha contribuito a svelare i percorsi culturali in cui si è strutturato il «discorso nazionale» italiano dall’epoca risorgimentale in poi – notava con sconforto i vari «politici, giornalisti, scrittori e intellettuali che [parlavano] del Risorgimento come se fosse un evento accaduto ieri, carico di valori da rispettare e osservare proprio come se fossero in perfetta sintonia con la nostra vita»; e invitando a recuperare la prospettiva della distanza storica che ci separa da quell’evento dettava, lapidario: «Il Risorgimento è un paese lontano: fanno le cose diversamente, laggiù».

È naturalmente troppo presto per dire se e quanto il nuovo governo si produrrà in sforzi per ricolonizzare quel «paese lontano». È interessante tuttavia sottolineare che nel suo discorso di insediamento la nuova presidente ha scelto di rappresentare il Risorgimento come un fermento giovanile e di ricordare esplicitamente, per quanto en passant, soltanto figure femminili: è certamente un modo per “svecchiare” quel mondo antico, e allo stesso tempo, per creare un fondale compatibile con il primo governo italiano guidato da una “giovane” – per i parametri contemporanei – donna, che sulle retoriche giovanilistiche ha fondato gran parte del suo personale percorso politico. Sicuramente il Risorgimento fu anche un fenomeno generazionale, animato da giovani in polemica con i “vecchi” dell’Ancien Régime, sicuramente le donne provarono – in una società che restava fortemente patriarcale e maschilista – a fare la loro parte, soprattutto negli ambienti più radicali e democratici, ben rappresentati in effetti da Cristina Trivulzio di Belgioioso e da Rose, detta Rosalia, Montmasson moglie di Crispi (il quale poi, per restare in tema di patriarcato e maschilismo, la rinnegò e la cacciò di casa per poter ufficializzare la sua nuova relazione). 

Più problematico è il raffronto con la realtà storica se si prova di tornare al Risorgimento alla ricerca di un centro di armonia e concordia nazionale, da contrapporre alla memoria divisiva della Resistenza. Il fatto è che il Risorgimento è stato un fenomeno storico altamente divisivo, così come divisiva è stata poi la costruzione della sua memoria nello spazio pubblico.

All’epoca dei fatti e come progetto politico, il Risorgimento è stato talmente divisivo che le sue due anime principali (la moderata sabaudista e la democratica garibaldina) sono arrivate letteralmente a spararsi addosso: mi riferisco ai fatti d’Aspromonte della fine di agosto 1862, quando l’esercito piemontese fa fuoco sulle camicie rosse pronte a puntare su Roma; è stato talmente divisivo da non riuscire a colmare, ma anzi da rendere più profonde le differenze tra Nord e Sud della penisola, dando origine a quella “questione meridionale” – evocata per altro da Meloni nel suo discorso – che ancora oggi non ha trovato soluzione; è stato talmente divisivo da causare l’autoesclusione dalla vita politica nazionale della compagine ampissima dei cattolici praticanti, ai quali il papa a lungo impone di non sentirsi cittadini dello Stato usurpatore della corona pontificia.

Anche la costruzione della memoria del Risorgimento è sempre stata, e fin da subito, divisiva: tra democratici (che avrebbero voluto una repubblica a suffragio universale) e moderati (ben contenti della configurazione monarchica e dell’elettorato ristretto); tra laici anticlericali e cattolici intransigenti, che ogni anno il 20 settembre, nell’anniversario della presa italiana di Roma, celebravano messe per propiziare il ritorno del papa-re a regnare sulla città eterna e sugli antichi domini della Chiesa; tra piemontesisti e borbonici, nostalgici del Regno delle Due Sicilie.

Più di recente, il Risorgimento ha diviso quanti hanno provato a dare nuova rilevanza al suo ruolo di momento fondativo del nostro patto di comunità politica e quanti invece hanno provato a svuotarlo di senso: i neoborbonici, con la loro contro-storia dell’annessione sabauda dell’Italia meridionale, fatta di barbarie e genocidi (per approfondire invito alla lettura di Pino Ippolito Armino, Il fantastico regno delle Due Sicilie. Breve catalogo delle imposture neoborboniche, Laterza 2021); ma soprattutto gli ideologi e gli attivisti della Lega Nord, fino a pochi anni fa impegnati a sabotare i simboli unificanti e cercarne di alternativi in grado di legittimare storicamente i progetti di secessione o di decentramento federale promossi dal partito, arrivando a inventare una nuova nazione alternativa, la Padania.

Sarà interessante vedere come il nuovo governo gestirà, eventualmente, questa eredità storica e le lacerazioni che la memoria più recente del Risorgimento consegna al presente, e come si posizionerà l’alleato leghista ormai ben accomodatosi nella svolta nazionalista e sovranista degli ultimi anni. In ogni caso, da qualunque parte lo si guardi, un ritorno alle origini che non storicizzi il processo fondativo dello Stato-nazione e che addirittura riproponga il retroterra culturale del Risorgimento appare una forzatura non auspicabile. Vorrebbe dire rifarsi un progetto politico elitario, maschilista, incardinato a più livelli sulla retorica del sangue – dei legami di sangue tra i “fratelli” compatrioti, ma anche del sangue versato per il compimento del programma nazionale –, ispirato a paradigmi mediatici di tipo religioso – il culto dei leader, dei “maestri” e dei vati, ma anche dei martiri, delle vittime che hanno versato il sangue per la patria –; un programma politico che declina la libertà nel recinto di una comunità omogenea ed esclusiva, creando diseguaglianze e discriminazioni.

Una comunità politica libera, democratica, aperta ed eguale come dovrebbe essere la Repubblica italiana del XXI secolo non ha alcun bisogno di guardare così lontano. Soprattutto quando ci sono la Costituzione e la storia di come è nata a continuare a ispirarci nel rinnovare il patto che ci tiene insieme. 

In copertina: Domenico Induno, Il Bollettino del giorno 14 luglio 1859 che annunziava la pace a Villafranca (1862) | Milano, Museo del Risorgimento (deposito, Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio) - Foto Saporetti, Milano.

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