Fuori sede
Le scuole hanno chiuso: per alcuni sono arrivati gli esami e in certi casi il pensiero va già all’università, magari da frequentare “fuori sede”, in città italiane diverse da quelle di residenza, o “addirittura” in altri Paesi.
Generalmente è una situazione - quest’ultima - che entusiasma le future matricole, e un po’ meno i genitori delle stesse. Vuoi per l’aspetto economico, non indifferente, vuoi per timori d’altra natura, diciamo relazionali. Ecco, se proprio ci si volesse fare del male, la lettura adatta per l’estate è Io sono Charlotte Simmons (2004) di Tom Wolfe. Dove si narra del primo, travagliatissimo anno alla Dupont University della protagonista, che proviene da un paesino del North Carolina ove… “I Simmons non avevano mai dato una festa a casa loro in County Road 1709 e persino quella, per la madre di Charlotte, non era da considerare una festa. Essendo una fedele seguace di una congregazione del Nord, la Chiesa del Vangelo di Cristo, pensava che i party fossero stati inventati da gente oziosa, con più soldi che carattere” (Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons, Mondadori, Milano 2006, pp. 30).
Tutt’altro è lo scenario dell’università, sin dalla sua architettura, con la Phipps Opera House disegnata da Eero Saarinen e l’intervento del paesaggista Charles Gillette; le opere disseminate nel campus, dalla scultura di San Cristoforo di Jules Dalou all’affresco di Annigoni (deliziosa la mescolanza di dettagli veri, verosimili e d’invenzione che imbastisce Tom Wolfe, mettendo alla prova di continuo la sospensione dell’incredulità del lettore); e la spietatezza giovanile che si acuisce con l’età, e passa dall’istintività animalesca alla sempre più preponderante componente sociale e classista (“Mimi era una ragazzona bionda con un sacco di capelli, il tipo che alla Dupont chiamano un Monet, ossia una che a dieci metri di distanza fa un gran figurone, ma da vicino delude”, p. 231).
Senza dimenticare l’alto tasso di radical chic che infesta anche e soprattutto il corpo insegnante (da ricordare: Tom Wolfe è colui che l’espressione ‘radical chic’ l’ha inventata):
“Entrambi erano appassionati difensori delle minoranze, soprattutto degli afroamericani, ma anche degli ebrei. Entrambi consideravano Israele il Paese più importante al mondo, sebbene nessuno dei due ambisse a viverci. Entrambi solidarizzavano istintivamente con i più deboli e detestavano la violenza della polizia. Entrambi erano fermi sostenitori del multiculturalismo nelle università. Entrambi erano favorevoli all’aborto, non tanto perché persone vicine a loro vi sarebbero ricorse, ma perché legalizzandolo si contribuiva a ridimensionare lo spirito cristiano, ormai vuoto di significato e inefficace, con i suoi assurdi e ottusi divieti. Per lo stesso motivo, entrambi sostenevano i diritti degli omosessuali, delle donne, dei transessuali, delle volpi, degli orsi, dei lupi, dei pesci spada, dei merluzzi, dell’ozono, degli stagni, delle betulle e delle querce, appoggiavano il controllo sulla vendita delle armi, l’arte contemporanea e il Partito democratico. Erano entrambi contro la caccia e, di conseguenza, non amavano i boschi, i campi, i sentieri di montagna, le scalate, la vela, la pesca e gli spazi aperti in generale, eccetto i campi da golf e le spiagge”.
(Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons, op. cit., p. 590).
Passerà molte prove, e dure, Charlotte Simmons, ma ne uscirà a testa alta. Ovviamente nessun genitore si augura che i propri figli ne passino di simili, ma sì che le superino con lo slancio di Charlotte:
“Superò il Mercer Gate ed entrò nel cortile sentendosi a due metri da terra. Le luci alle finestre le sembravano le lanterne cinesi di un quadro di Sargent. In tutto il Little Yard, soltanto lei conosceva quel quadro di Sargent. Mentre attraversava leggera il cortile, ricordò anche in che punto della pagina si trovava l’immagine del quadro, e la pagina era quella di destra, ma le sfuggì dove l’avesse visto. Soltanto lei conosceva quel quadro di Sargent. In tutta la Dupont, solo lei era Charlotte Simmons”.
(Tom Wolfe, Io sono Charlotte Simmons, op. cit., p. 399).
Tom Wolfe in versione Simpson