Geoffrey Batchen. Un desiderio Ardente

18 Dicembre 2015

«Fotografia è il nome di un problema piuttosto che di una cosa. Scrivere una storia delle origini degna di questo problema – una storia per la fotografia piuttosto che una storia delle fotografie: questa è la sfida che abbiamo di fronte.» Con queste parole Geoffrey Batchen conclude la prefazione all'edizione italiana del suo celebre saggio del 1997 Un desiderio ardente. Alle origini della fotografia, pubblicato nel nostro paese solo alla fine del 2014 grazie alla casa editrice Johan & Levi, con una traduzione ad opera di Marta e Elio Grazioli.

 

William F. Talbot, Linen

 

La sfida è quella di ripensare la questione delle origini – e quindi l'identità della fotografia – non chiedendosi semplicemente chi sia l'inventore del medium, ma come e in quale contesto nasca il desiderio di fotografare, che si manifesta in diversi autori già molto prima della sua ideazione. Il testo si conclude con un Epitaffio che indaga lo status della fotografia con l'avvento del digitale e la sua natura artificiosa. In una crisi sia epistemologica sia tecnologica, in cui il fotografo, completamente indifferente, sembra ormai incapace di trovare qualcosa di nuovo da fotografare (Paul Virilio, Estetica della Sparizione, 1980), è necessario e inevitabile che si affermi un altro modo di vedere e di essere, conforme a un nuovo modo di percepire il reale. Il dibattito sulle immagini non riguarda quindi solo il futuro della fotografia, ma anche la natura del suo passato e del suo presente. Da qui deriva la necessità di definirne l'origine, processo che per Derrida pone inevitabilmente le basi di una gerarchia che privilegia il primo elemento su quelli che seguono, portando a una lettura univoca di un complesso contesto estetico, sociale e culturale.

 

A partire dagli anni '70 il mondo artistico anglo-americano pubblica diversi testi che definiscono le basi per un'antropologia culturale della fotografia. Da un'analisi delle posizioni formaliste (John Szarkowski, Clement Greenberg), che pongono l'accento sulla sua specificità mediale, e di quelle postmoderne (John Tagg, Allan Sekula, Victor Burgin, Louis Althusser), per le quali il significato è interamente determinato dal contesto, risulta che l'identità del mezzo è una conseguenza o della natura o della cultura. Si semplifica così un problema ben più articolato, già evidente dall'etimo stesso del termine fotografia, coniato da Hercules Florence nel 1834, secondo il quale è un prodotto sia della natura (foto: luce, sole, Dio), sia della cultura (grafia: scrittura, storia, genere umano). L'idea stessa di oggettività meccanica non è così condivisa nemmeno dagli stessi autori delle origini, perché ad essere ambiguo è il rapporto tra realtà e finzione.

 

Louis Daguerre

 

Il desiderio di fotografare è sentito da un'ampia cerchia di persone in paesi diversi già negli ultimi anni del Settecento, sebbene l'unico a godere dei benefici economici dell'invenzione sia Louis-Jacques-Mandé Daguerre – già inventore del Diorama  nel 1822 –, che annuncia per primo in pubblico la propria scoperta presso l'Académie de Sciences il 7 gennaio 1839. Tra questi protofotografi, oltre a Nicéphore Niépce, che secondo Helmut Gernsheim sarebbe il vero inventore della fotografia, si possono annoverare Elizabeth Fulhame (Inghilterra, 1794), Tom Wedgwood (Inghilterra, 1800 crica), Samuel Morse (USA, 1821), Hercules Florence (Francia/Brasile, 1832), Henry Fox Talbot (Inghilterra, 1833), Hippolyte Bayard (Francia, 1837) e molti altri.

Geoffrey Batchen passa in rassegna alcune immagini emblematiche rispetto al rapporto ambiguo tra oggettivo e soggettivo, natura e artificio, con suggestioni affascinanti. Tra queste vi è La fanciulla corinzia di Joseph Wright of Derby (1783-84). Il dipinto si riferisce al mito di Plinio il Vecchio – tornato in voga nel Settecento – sulla figlia del vasaio Butade, che tratteggia su un muro l'ombra dell'amante in partenza per ricordarsi di lui. All'origine del ritratto, e di conseguenza della sua automatizzazione, vi è la necessità di sostituire una mancanza o una perdita; è un modo per sopperire a un imminente oblio. La stessa fotografia viene inventata in un momento storico – quello della Rivoluzione Industriale – in cui il mondo inizia a cambiare a velocità sempre maggiori: serve a compensare la perdita d'identità del mondo e la sua sparizione.

 

William F. Talbot, Botanical Specimen

 

Anche Niépce, se inizialmente chiama il procedimento da lui messo a punto eliografia, ovvero scrittura con il sole (e quindi oggettiva), preferisce in un secondo momento points de vue, termine di derivazione pittorica e quindi legato alla soggettività. In riferimento a questo "scacco matto" alla presunta oggettività del mezzo, persino la versione più nota della celebre Veduta dalla sua finestra di Gras (1827) – realizzata in bitume di Giudea su lastra di stagno – è una riproduzione di un'eliografia (un acquerello su stampa alla gelatina di argento): l'immagine diffusa ovunque come la prima fotografia, come l'origine del medium, è in realtà un dipinto tratto da un disegno.

 

Sempre in relazione alla questione dell'oggettività, Batchen cita il testo Before Photography (1981; trad. it Prima della fotografia: la pittura e l'invenzione della fotografia, Bollati Boringhieri 1989) di Peter Galassi, secondo cui le origini della fotografia risiedono nell'invenzione quattrocentesca della prospettiva lineare, che permette una rappresentazione bidimensionale dello spazio partendo da un determinato punto di origine: l'occhio di un singolo osservatore umano.  Nell'Ottocento avviene però una rottura sistemica nella storia della visione: la camera oscura, con le sue posizioni fisse e l'identificazione tra percezione e oggetto, cessa di essere un paradigma di verità, perché troppo poco flessibile rispetto alle rapide mutazioni del reale. L’atto di osservare è sempre più legato alla corporeità, a un rapporto inscindibile tra visione e temporalità. La fotografia sembra rispondere a questa sfida: per Talbot è l'arte di fissare un'ombra, appaga il desiderio impossibile di coniugare transitorietà e fissità. In questo senso il soggetto primario di ogni fotografia è il tempo stesso e, rifacendosi all'illuminante saggio Le tecniche dell'osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo di Jonathan Crary (1990), la percezione cambia con le trasformazioni del discorso della visione.

 

In questo dibattito impossibile e irrisolto tra idea e invenzione, se nessuno è stato designato come vero inventore della fotografia, allora la sua storia – per dirla con Michel Foucault – diventa una storia delle sue condizioni di possibilità.

 

Hippolyte Baiard, Garden

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