Ghost out of the machine

4 Marzo 2013

Viviamo in una macchina,

e l’interno è divenuto uguale all’esterno

[…] Ora tutto porta scritto un prezzo, tutto ciò che è isolato nel chiarore del

padiglione, ciascuno rinchiuso nella sua perduta anima.

Rilke

 

L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi.

Derrida, Spettri di Marx

 

 

Alla giovane e ricchissima moglie, che diletta la propria noia scrivendo pessime poesie, il ventottenne investitore globale Eric Packer – protagonista di Cosmopolis di Don DeLillo (2003) e David Cronenberg (2012) – spiega che se può passare tutte le sue giornate chiuso nella propria automobile è solo perché s’è curato di farla insonorizzare. Nel ristrutturare la sua limousine, trasformandola in ufficio semovente pesantemente blindato, tutto foderato di schermi cablati ai mercati (il che “formava una videoscultura, bella ed eterea”)[i] e col pavimento in marmo di Carrara (“estratto dalle cave in cui Michelangelo, mezzo millennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata”)[ii], l’ha anche rivestita di sughero – così appunto insonorizzandola a perfezione. Il mondo esterno è in questo modo del tutto forcluso dall’attenzione di Eric, il quale si muove del resto in uno spazio urbano architettonicamente congegnato “per accelerare il futuro”: le torri delle banche, “edifici […] alti, lisci, astratti”, simboleggiavano e anzi “erano la fine del mondo esterno”[iii]. La traduttrice italiana di DeLillo, Silvia Pareschi, non ha potuto rendere il calembour usato da Eric – speculatore spietato ma assai competente in fatto d’arte, musica e poesia – “I had the car prousted”: s’è sepolto vivo nella limousine, cioè, come appunto Proust, a suo tempo, nella famigerata stanza di sughero. (Il suo nome, packer, allude proprio alla sua attitudine a foderare, impacchettare, rendere impenetrabile la propria esistenza.)

 

Più in generale la vita cablata di Eric, la sua attività di trader globale a bordo dell’iper-accessoriata “prousted limousine”, nega che si dia un esterno: quando l’automobile viene accerchiata dai dimostranti, i quali si ribellano contro la macchina economico-politica che li sta strangolando, l’assoluta impenetrabilità della limousine simboleggia in modo plastico – è il caso di dire – la loro impotenza a manomettere realmente il sistema che li opprime. Impotenti a cambiare il mondo, ma non a interpretarlo: se è vero che sui cartelli che inalberano c’è sì scritto “Uno spettro si aggira per il mondo” – ma solo per proseguire, rovesciando e così aggiornando l’incipit del Manifesto: “Lo spettro del capitalismo[iv]. Uno dei consiglieri che si alternano a bordo dell’ufficio semovente, la “filosofa” Vija Kinski, così si rivolge a Eric: “– Tu sai cosa produce il capitalismo. Secondo Marx e Engels. – I suoi seppellitori, – disse lui. – Ma questi non sono i seppellitori. Questo non è altro che il libero mercato. Questa gente è un’invenzione del libero mercato. Non esistono fuori dal mercato. Non possono starne fuori. Non esiste un fuori”[v].

 

Nello spin-off del romanzo del 2003 da poco pubblicato da DeLillo (il racconto Hammer and Sickle, uscito su “Harper’s magazine” nel dicembre 2010), il teorema appare sarcasticamente ribadito dalle ruminazioni di Jerold Bradway, un altro speculatore recluso in un carcere a bassa intensità (o di “Custodia attenuata”) per qualche innominato reato finanziario, un uomo che da sempre sogna di diventare “uno spettro” e al quale tocca contemplare incredulo la televisione che trasmette coretti isterici inneggianti a “Stalin Chruščëv Castro Mao – Lenin Brežnev Engels”; ma che alla fine rimane tutta la notte a contemplare lo sfrecciare sull’autostrada di impenetrabili automobili-monadi, “i guidatori laggiù che scrutavano, il rumore e la fretta, l’incalzante senso di necessità”: “respirando”, come suona lancinante l’explicit, “le esalazioni della libera impresa per sempre”[vi]

 

Cosmopolis non è dunque affatto “marxista”[vii], come ha invece scritto Libération del film di Cronenberg[viii]: per il semplice motivo che è oltre il marxismo (molto al di là del neo-marxismo post-derridiano acerbamente parodiato dal linguaggio, dai tic culturali di Vija Kinski). È l’opera compiutamente transmarxista, e con ciò se si vuole ipermarxista: la prima spietatamente clinica, in ogni caso, nei confronti dell’ipermondo in cui viviamo. E che traduce in termini visionari l’immagine del mondo – desolata e, insieme, terribilmente cool – che, nella filosofia di oggi, si deve principalmente a Peter Sloterdijk, nel percorso che porta al Mondo dentro il capitale[ix]. Cos’è la “città mondo”[x], rimpicciolita sugli schermi della prousted limousine di Eric, se non la “Babilonia orizzontale” in cui “l’essere uomo diviene una questione di potere d’acquisto”, quella in cui “il denaro si è imposto da tempo come alternativa operativamente efficace a Dio”[xi]? Per tempo Jean-Luc Nancy aveva del resto definito proprio in questi termini la fine del mondo: quella in cui ha trionfato la “‘mondializzazione’ che non lascia più un ‘fuori’ – e di conseguenza neanche un ‘dentro’ –, né su questa terra, né al di fuori di essa, né in questo universo, né fuori di esso”. Se il senso implica un movimento in rapporto a qualcosa che è altro da sé, un “(rap)portarsi a questo ‘fuori’”, la morte del fuori implica la morte del senso e letteralmente, dunque, la fine del mondo (se mondo vuol dire “essere-a, vuol dire rapporto, relazione, indirizzo, invio, donazione, presentazione a”)[xii]

 

Di tale natura è il falso movimento inscenato da DeLillo e Cronenberg (“Come poteva muovere un passo in una direzione se tutte le direzioni si equivalevano?”)[xiii]. L’intera narrazione, dell’uno e dell’altro, è compressa nello spazio-tempo di una città (uno spazio laconico ipermoderno che è New York come qualsiasi altra megalopoli cablata nella “città mondo”) e di una giornata. Una giornata-tipo nella quale Eric incontra una serie di suoi consulenti, viene visitato da un medico, il dottor Ingram (che gli rivela d’essere affetto da una “prostata asimmetrica”)[xiv], fa sesso con una sua guardia del corpo e con la sua esperta d’arte, e decide di dedicare la giornata alla traversata dello spazio urbano verso il sobborgo dov’è cresciuto, Hell’s Kitchen, dove c’è ancora il vecchio barbiere dal quale lo portava suo padre da piccolo. (Le prime battute del film sono di Torval, il capo dei body guards, “Dove?” – e la risposta di Eric: “ad aggiustare il taglio”.)

 

Oltre che a capovolgere esattamente il manifesto del pensiero politico moderno, Cosmopolis provvede così a rovesciare, non meno sarcasticamente, il manifesto della letteratura moderna, Ulysses. Nell’interminabile appropinquarsi allo spettro paterno, Eric affronta sì le ambagi, le digressioni, le mille ritardanti tentazioni dell’eroe omerico e joyciano: ma mentre Leopold e Stephen, in quelle more, facevano appunto esperienza del mondo, dei suoi mille aspetti e delle sue mille favelle[xv], durante il suo percorso il personaggio di DeLillo, e Cronenberg, trova solo puntuali conferme al proprio teorema.

 

Con un’eccezione. Come detto, Eric ama l’arte. In particolare ama Rothko, i cui Black paintings possono ben essere visti quali equivalenti degli schermi oscurati coi quali, a bordo della propria auto, cancella l’Esterno[xvi]. Del resto Vija Kinski usa una metafora eloquente per descrivere la sublime, inscalfibile astrazione che connota questo mondo: “La ricchezza è diventata fine a se stessa […]. Il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa. Il denaro parla a se stesso”[xvii]. Ma durante l’incontro con la sua esperta d’arte nonché occasionale amante, Didi Fancher, Eric per la prima volta fa esperienza del suo limite. Lei gli propone di acquistare finalmente il suo Rothko, un quadro “luminoso”; ma lui le dice che quella a cui punta è la “cappella” (quella appunto rivestita da quattordici Black paintings, che si trova a Houston in Texas). Didi ribatte: “– Scusa se sono pedante. Ma la cappella Rothko appartiene al mondo. – È mia se la compero. […] Quanto vogliono? – Non vogliono vendere la cappella. E io non voglio dare lezione di abnegazione e responsabilità sociale. Perché non credo affatto che tu sia rozzo come sembri”[xviii]. Più avanti ribadirà, Didi: “Una parte di te è ricettiva ai misteri”[xix].

 

La conclusione della parabola di Eric darà ragione a Didi. Continuando a scommettere contro lo yen (divenuto nel film, aggiornato ai conflitti economici più recenti, lo yuan cinese), sempre nell’arco di questa giornata Eric trae “piacere […] dall’andare in rovina”[xx]; sperpererà anche il patrimonio di sua moglie. Non solo. Messo invano in guardia dal solerte Torval, che gli parla di una “minaccia attendibile”[xxi], non solo si avvicina sempre più all’origine di tale minaccia, ma per disfarsi della sua protezione non esita a uccidere a sangue freddo lo stesso Torval (“voleva che accadesse quel che doveva accadere”)[xxii]. Esce finalmente dall’auto, Eric, per dirigersi a piedi in un edificio diroccato, sulla West Side Highway, dove sa che si nasconde colui che lo vuole uccidere: un suo ex dipendente, Benno Levin alias Richard Sheets (rivelare la sua identità è per lui il segno di una sconfitta, “così inevitabile che non aveva senso resistere”)[xxiii]. I due si confrontano a lungo; scoprono d’essere affetti dalla medesima irregolarità, dalla stessa imperfezione della “prostata asimmetrica”. A un certo punto, come in un rituale, lo stesso Eric indica a Benno la strada: sparandosi un colpo di pistola in una mano. La fine non finisce: “Questa non è la fine. Lui è morto dentro il cristallo dell’orologio ma è ancora vivo nello spazio originario, in attesa che risuoni lo sparo”[xxiv].

 

Il film di Cronenberg è stato accusato di non aggiungere niente al testo di DeLillo, al quale resta in effetti assai fedele – soprattutto nei glaciali, sensazionali dialoghi. Ma, a tacer d’altro, l’aggiunta di senso fondamentale che produce è, con economia espressiva ineguagliabile, confinata a un singolo fotogramma. L’ultimo. Finalmente Benno avvicina la pistola al cranio di Eric, sta per premere il grilletto. Ma lo sparo, come nel testo di DeLillo, non viene mostrato. (Analogamente in precedenza, dopo aver fatto sesso con la body-guard Kendra, Eric le chiede di stordirlo con il manganello elettrico – “Prendi la mira e spara. Voglio tutti i volt che ci sono in quell’arma. Fallo. Spara. Adesso”: non viene narrata l’azione, che anticipa la voluttà d’autodistruzione del finale, ma sì le sue conseguenze: “Il voltaggio gli aveva trasformato i muscoli in gelatina per dieci o quindici minuti”)[xxv]. A quel punto Cronenberg accende, splendida e accecante, la conseguenza. L’ultima immagine, sulla quale scorrono i titoli di coda, è appunto un dipinto di Rothko. Luminosissimo.

 

In Falce e martello, Jerold Bradway chiede al compagno di cella Norman Bloch, che in libertà era un grande collezionista, delle grandi opere d’arte che aveva appese alle sue pareti: “Quelle ti facevano vivere più a lungo?”. E aggiunge: “Si dice che la grande arte sia immortale. Io dico che c’è qualcosa di mortale invece. Ti fa intravedere la morte”[xxvi].

 

È questo, in effetti, il vero limite incontrato da Eric Packer in Cosmopolis. La morte, quella che ticchetta implacabile nell’orologio del corpo asimmetrico, è l’unica minaccia che non può essere forclusa dal rumore bianco del capitale immateriale. Allo stesso modo, non potendosene appropriare nel modo in cui ha impacchettato tutto il resto, cioè acquistandolo, Rothko ha mostrato a Eric come a noi tutti il mistero o, diciamo più laicamente, l’eccedenza che sempre – in DeLillo come in Cronenberg – è rappresentata dall’arte. Nel mondo che ha ucciso ogni distinzione fra esterno e interno, nella città mondo in cui “non esiste un fuori”, l’arte si rivela la più scandalosa delle eccezioni. Il tutto-fuori, l’assolutamente Aperto che, nella sua ambivalenza micidiale, rappresenta tanto la minaccia più attendibile che l’unica possibile salvezza.    

 

 

Questo articolo è uscito sul numero 27 di alfabeta2, in edicola e in libreria in questi giorni.

 

 


[i] Don DeLillo, Cosmopolis [2003], trad. it. di Silvia Pareschi, Einaudi 2003, p. 32.

[ii] Ivi, p. 21.

[iii] Ivi, p. 33.

[iv] Ivi, p. 83.

[v] Ivi, p. 78.

[vi] Don DeLillo, Falce e martello, in Id., L’angelo Esmeralda [2011], trad. it. di Federica Aceto, Einaudi 2013, pp. 178-9.

[vii] Non certo al modo, comunque, dei film prodotti in serie da quei poteri che i «marxisti» dovrebbero combattere: stando almeno al paradosso enunciato da Paolo Bertetto (Perché i film americani sono interessanti? Perché sono marxisti, in alfabeta2, 25, gennaio 2013).

[viii] Gérard Lefort, Apocalypse Nerd, Libération, 25 maggio 2012.

[ix] E tanto meglio se, come ha scritto Gabriele Pedullà (recensendo La mano che prende e la mano che dà su alfabeta2, 26, febbraio 2013), sia questi un pensatore ormai organicamente consegnatosi alla destra politica.

[x] Don DeLillo, Cosmopolis, cit., p. 76.

[xi]  Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale [2005], trad. it. di Silvia Rodeschini, introduzione di Gianluca Bonaiuti, Meltemi 2006, p. 42 e p. 263. È, naturalmente, «la divinità visibile» dei Grundrisse.

[xii]  Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo [1993], a cura di Federico Ferrari, Lanfranchi 1997, pp. 16-17.

[xiii]  Don DeLillo, Cosmopolis, cit., p. 155.

[xiv]  Ivi, p. 48.

[xv] Tanto che Franco Moretti ha potuto esemplificare proprio su Ulysses, sul suo infinito poliglottismo, il proprio concetto di Opere mondo (cfr. il saggio omonimo, Einaudi 1994).

[xvi] Lo ha fatto Francesco Forlani su «Nazione indiana».

[xvii] Don DeLillo, Cosmopolis, cit., p. 67.

[xviii] Ivi, p. 26.

[xix] Ivi, p. 28.

[xx] Ivi, p. 116.

[xxi] Ivi, p. 19.

[xxii] Ivi, p. 126.

[xxiii] Ivi, p. 164.

[xxiv] Ivi, p. 180.

[xxv] Ivi, pp. 98-99.

[xxvi] Id., Falce e martello, cit., p. 169.

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