Eredi / Giorgio Agamben. La vita che prende forma
Nella prefazione redatta per la pubblicazione di Sade, Fourier, Loyola Roland Barthes suggerisce un peculiare paradigma di che cosa significhi “ritornare a un autore”. In questa breve premessa al lettore egli non si limita a illustrare la necessità di un’analisi delle opere di Sade, Fourier e Loyola, ma intende innanzitutto chiarire la scelta di accostarne i tratti in un unico testo: sebbene ciascuno dei saggi raccolti fosse stato scritto e pubblicato autonomamente, Barthes li ha sempre immaginati riuniti in un’opera che ne sancisse l’intima vicinanza. Al di là delle risonanze che legano i tre autori – e che mantengono indubbiamente portata centrale – è dunque un elemento di altro ordine a dotarci di un criterio preliminare. Sembra che alcuni riferimenti non possano che stare assieme, dispiegarsi su una superficie comune, poiché ciascuno di essi, nel corso del tempo, ha acquisito la facoltà di coesistere con la vita di colui che scrive. Non con il suo pensiero, né con gli scritti che, di volta in volta, si disponeva a redigere, piuttosto con quella piega dell’esistenza che Barthes riporta ad un «ordine fantasmatico». Una dimensione inestricabile dalla propria “quotidianità”, in cui una vita prima dell’opera – prima che questa consegua la sua autonomia storica – convive con il predisporsi alla vita di alcune opere, grazie alla capacità dei loro autori di «sciamare» da una vita all’altra.
È forse un’analoga indicazione di «coesistenza», così come la intendeva il semiologo francese, a dover orientare chi avvicini la lettura dell’ultima pubblicazione di Riccardo Panattoni, Giorgio Agamben. La vita che prende forma. Tale accostamento permette infatti di approssimare due aspetti centrali del testo che, sebbene permeabili l’uno all’altro, forniscono una precisazione sia di metodo che di contenuto. Prima di tutto l’originalità dell’approccio proposto a un pensiero fecondo, poliedrico come quello di Giorgio Agamben. In linea con lo spirito della collana Eredi, Panattoni prende le distanze da un principio ordinatore di tipo storicistico: l’analisi che si andrà delineando non mira a situare Agamben nella più vasta cornice della tradizione, né restituirà del suo pensiero una sintesi, un quadro d’insieme. Si tratterà piuttosto di fare di una certa prossimità, della tensione che lega colui che scrive a colui di cui scrive, la condizione imprescindibile del movimento di ricerca. “Tenere vicino un autore”, quando si è autori a propria volta, implica che la scrittura abbandoni il proprio statuto monologico e s’istituisca come campo: un “dialogo” in cui ciascuna voce si mantiene inassegnabile.
Ma sarà necessario, altresì, che lo statuto del dialogo ne esca sovvertito, che intervenga uno spostamento dal privilegio conferito all’autore quale “tema” dell’opera. Accettare di confondere la propria voce con quella di un altro significa innanzitutto accondiscendere al suo sciamare, accogliere il fatto che questi non sosti su di sé troppo a lungo e trascini con sé altri autori, altri riferimenti, che partecipano con lui del medesimo ordine fantasmatico. Si tratta sempre, come Panattoni specifica nella nota introduttiva, di pensatori il cui tratto comune è la contemporaneità – tra gli altri Gilles Deleuze, Maurice Blanchot, Roland Barthes e Jacques Lacan – a patto d’intendere tale condizione come suggerito dallo stesso Agamben. Al di là del mero riferimento temporale, “contemporaneo” è infatti chi, affermando l’insistenza di un tempo singolare, interrompe il «flusso inerte» della cronologia, e lascia che in essa trapeli qualcosa della sua stessa vita. Al pari di un autore che amiamo, egli non coesiste tanto alle opere del proprio tempo, quanto all’insorgenza del tempo proprio di una singolarità.
Di certo la nostra, ma anche quella di altri che parimenti abbiamo amato: come se il destino dell’autore cui si desidera “ritornare” fosse quello di coincidere con la superficie di questa vita comune, di misurarne l’estensione, e darle così forma.
Esattamente sul crinale di questo “dare forma alla vita”, il paradigma di un’esistenza simultanea inaugura una direttrice intensiva, e diviene il contenuto vero e proprio del testo. Che la vita implichi forme di convivenza, infatti, non significa solamente che ad essa sia sottintesa la relazione con altre soggettività, ma in primo luogo che la vita, ogni vita, coesiste rispetto a se stessa. La riflessione agambeniana sulla forma-di-vita viene ripercorsa dall’autore sul tracciato di quest’inaggirabile disgiunzione: una vita immancabilmente presa tra una storia individuale e una matrice impersonale, tra ciò di cui può testimoniare la sintesi dei suoi atti e l’insistenza di un non-vissuto, tra l’esigenza che l’opera esprime e il lavorio di una fondamentale inoperosità. «Un momento di esitazione» persevera al cuore della vita come dell’opera; un intervallo sospensivo la cui incidenza è tuttavia strutturale, poiché afferma a un tempo la loro irriducibile scissione e un punto di tangenza. Se infatti da un lato è proprio l’ineffabile eredità di un non-vissuto – questa sfasatura tra sé e sé, tra vita e opera – a determinare i nostri ritorni sintomatici, dall’altro solo in quest’anacronismo “disgiunzione” e “sintesi” possono rivelarsi immanenti. Là dove qualcosa resiste all’unità della forma, non per rifiuto o trasgressione, ma poiché vita e opera eccedono l’atto quanto la sostanza, ne tradiscono instancabilmente i termini: ciò che di comune le attraversa è piuttosto un divenire l’una la forma dell’altra, il medesimo “punto d’insorgenza”.
Non è dunque un caso che Panattoni si soffermi a più riprese sul tema del sentimento amoroso. D’altro canto la natura mediale di ciò che prende forma non può che partecipare di una tensione che all’amore si rivela prossima; dare forma a un corpo, o un ordine, fantasmatico. L’unico in grado di rendere conto del divenire-corpo che la vita esprime nel suo momento aurorale. Né reale né immaginario, né attuale né astratto, il fantasma è piuttosto immagine della loro indiscernibilità. Un’immagine affatto particolare, archetipica quanto alla sua origine, contingente nel proprio manifestarsi, e rispetto alla quale «non sarà più data altra esistenza se non il viverle accanto, in una convivenza che non potrà farsi altro che la propria opera: una vita».
Riccardo Panattoni, Giorgio Agamben. La vita che prende forma, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 173.
Elena De Silvestri.