Guido Ballo: idea per un ritratto
Come sempre, i centenari sono un’occasione per ripensare al lavoro e alla vita di qualcuno che si è distinto nel lavoro, nelle idee o nelle azioni. Sono il momento giusto per mettere dei punti fermi e ripercorrere, con l’obiettività della distanza storica, umana e temporale, fatti, idee, emozioni e risistemare ciò che negli anni è stato dimenticato, frainteso o semplicemente distorto. In questo, la storia che sto per scrivere forse non fa eccezione, ma la sua particolarità sta nei suoi due protagonisti, che sono davvero fuori dal comune, così come il loro lungo sodalizio umano e professionale: Guido Ballo e Lucio Fontana.
Guido Ballo con Mario Radice (in piedi) negli anni 80
Fontana aveva quarantasei anni, Ballo trentatre quando si erano conosciuti nel 1947. Fontana era appena rientrato da un lungo soggiorno di sette anni in Argentina e come bagaglio per l’Italia si era portato il Manifesto Blanco, ovvero le idee che era andato maturando con i ragazzi della scuola Altamira di Buenos Aires e che nel dicembre di quello stesso anno avrebbero trovato la giusta elaborazione nel Primo manifesto dello Spazialismo. Ballo ricorderà più volte il loro primo incontro: “Sono stato suo amico fin dal momento in cui ritornò a Milano dall’Argentina, nel ’47: frequentavo il suo studio, prima nei pressi di corso Sempione, poi in Monforte, in una stanza che dava in un parco interno, della Milano antica”1.
Guido Ballo era nato il 12 aprile del 1914 alle pendici dell’Etna, ad Adrano. Si era laureato in Filosofia all’Università di Palermo e poco prima della guerra si era trasferito a Milano dove aveva sposato Risa Bianchi e aveva cominciato il suo lungo cammino nel mondo dell’arte, che lo avrebbe portato a insegnare, per oltre quarant’anni, al Liceo Artistico e all’Accademia di Brera (dove arriverà a dirigere l’Istituto di Storia dell’Arte), ma anche all’Accademia Albertina e all’Università di Torino.
Guido Ballo con Pierre Restany negli anni 70
Antifascista, aveva preso parte alla Resistenza e poi frequentato nel dopoguerra la cerchia di Elio Vittorini. La sua militanza nella critica d’arte comincerà nel 1949 sulle pagine dell’“Avanti!” e proseguirà poi sul “Corriere della Sera”, oltre che su numerose riviste internazionali. Tra i più acuti testimoni della vita culturale italiana, in particolare dell’arte degli anni Cinquanta e Sessanta, Ballo sarà tra i primi a riconoscere oltre che Fontana, anche il lavoro di Scanavino, Baj, Arnaldo e Giò Pomodoro, Tadini, Pozzati, Aricò e poi ancora di Novelli, Alik Cavaliere, Gianni Colombo, Consagra, Dorazio, Turcato, Santomaso, Azuma e Sottsass. Li ricorderà tutti quando nel 1964, ne La linea dell’arte italiana dal futurismo alle opere moltiplicate, ricostruirà puntualmente il percorso dell’arte italiana del Novecento. L’altro suo importante studio, in cui sintetizzerà le linee guida del suo pensiero, sarà Occhio critico, nelle due uscite del 1966 e del 1968. Fondamentali saranno pure gli studi su Boccioni, su de Pisis, sulle origini dell’astrattismo e ovviamente su Fontana, che sfoceranno in pubblicazioni e mostre di grande successo (in particolare le rassegne curate al Palazzo Reale di Milano).
Eppure, gli esordi di Ballo sono legati alla poesia. Al ginnasio aveva avuto come professore il poeta Vann’Antò, che gli aveva trasmesso l’amore e la passione per una scrittura che non abbandonerà mai, anzi coltiverà con costanza e soddisfazione. Se ne ha riscontro già dalla sua prima raccolta, Delitto e Annunciazione, pubblicata da Schwarz nel 1954, fino al volume che comprende gran parte della sua produzione, Il muro ha un suono. Poesie 1940-1990, edito da Scheiwiller nel 1994. Inoltre, nel 1960 fonderà e dirigerà, con Roberto Sanesi e Luciano Cherchi, la rivista letteraria “Poesia e Critica”.
Guido Ballo all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, per i suoi novant’anni con (da sinistra verso destra) Piero Quaglino, Fernando De Filippi, Concetto Pozzati e Dario Trento
Ma torniamo al suo rapporto con Fontana. I primi articoli che gli scrive, su “Omnibus” e su “Settimo giorno”, agli inizi degli anni cinquanta, sono tutti dedicati alle ceramiche che l’amico aveva fatto ad Albisola. Non mancherà poi di recensire su “Avanti!” la personale al Naviglio del novembre del 1957, ma sarà alla Biennale del 1958 che il sodalizio si confermerà in tutta la sua forza.
Ballo era alla sua seconda esperienza in laguna (l’edizione prima aveva presentato la personale di Gino Meloni, mentre dal 1960 al 1968 ne sarebbe stato costantemente tra i curatori e più volte vi sarebbe tornato anche negli anni successivi), Fontana invece era ormai un veterano: alla Biennale c’era già stato nel 1930, nel 1948, nel 1950 e ancora nel 1954 con una personale di venti opere. Per quella del 1958, con un allestimento curato da Carlo Scarpa, Ballo aveva scelto delle sculture su gambo, alcuni dipinti dei cicli dei “gessi” e degli “inchiostri”, alcuni Concetti spaziali, oltre a qualche testimonianza degli anni trenta e quaranta, insomma una trentina di sculture in tutto. E nello scritto che le accompagnava aveva parlato dell’“estrosa urgenza di rompere ogni schema”, ma anche del “candido, rinnovato stupore poetico” e della visionarietà dell’arte di Fontana (che per Ballo è comune a tutta l’arte astratta)2 in una “mobilità emotiva degli spazi, all’urgenza di un’espressività affidata non a uno spazio volumetrico, chiuso, ma di linee e superfici, con interni richiami di vuoto, senza il peso, quasi, della materia” nel “bisogno di superare la scultura come forma chiusa, di tendere al colore nella sua espressività varia”3. Per una volta Ballo aveva accantonato l’uomo, su cui aveva (e avrebbe) invece insistito in tanti altri scritti, per concentrarsi sui mezzi che lo scultore usa per comunicare “un’arte di suggestione, di totale partecipazione emotiva”4. Dell’uomo parlerà diffusamente nel 1970, quando scriverà la bella e esaustiva monografia da cui è stato tratto il testo che accompagna quest’articolo, consapevole che “per pochi altri artisti, come per Lucio Fontana, è necessario accostare l’uomo, conoscerlo nella sua vitalità e anche nelle apparenti contraddizioni, nelle sue ansie segrete, in modo da poter comprendere meglio l’opera: vita e arte, insomma, nel caso di Fontana non possono staccarsi5.
Guido Ballo con la moglie Risa (alla sua sinistra) e Adriana Cavaliere (alla sua destra) alla fine degli anni 70
Questa del resto era una delle sue idee più ricorrenti: l’arte è inseparabile dall’uomo che l’ha prodotta. Ci sono pagine dedicate agli artisti che partono proprio da qui, dal loro carattere, dal loro essere. Pagine memorabili, come queste su Fontana dove, prima ancora di analizzarne l’opera, Ballo si preoccupa di farci sapere com’era come uomo: “era un uomo che lottava duramente per un’idea, con un fondo di affettività che lo rendeva aggressivo”, “era scaltro, non era il candido sentimentale che molti hanno voluto indicarci”, ottimista, generoso, tenace, sensibile e dissacratore. Gli aggettivi potrebbero continuare all’infinito, ma il ritratto che Ballo ne ha fatto ce lo rende meno distante, anzi ce lo mostra proprio come se anche noi avessimo avuto la fortuna di aver conversato con lui nello studio di corso Monforte, di averlo visto al lavoro, di averlo incontrato.
Guido Ballo a Verona nel 1971
Il secondo perno del suo pensiero era la funzione lirica dell’arte: “Che è purificatrice. Ma il lirismo diventa pieno quando non venga ricercato nel modo più diretto; quando non intenda essere soltanto «puro», ma risolva con pienezza altri fattori non lirici. Basti pensare a quegli artisti più vicini al nostro gusto moderno: agli arcaici, ai cosiddetti Primitivi, ai pittori del primo Rinascimento, solo per fare qualche esempio"6. Ai suoi occhi l’arte non ha altra ragione che quella poetica. Non è più questione di forma o di materia, di rappresentazione del vero o di racconto fantastico, ma di liricità: un mondo tutto interiore, emotivo, vitale, “una totalità senza confini”7 che contempla lo stupore e il sogno, il silenzio e l’assoluto e che nasca dalla vita. L’altro elemento ricorrente è il primitivismo, da leggersi come richiamo alle origini, come legame indissolubile con le proprie radici e con l’ambiente in cui l’opera nasce e si sviluppa. È da intendere anche come la ricerca degli antecedenti, delle ragioni di partenza di ogni manifestazione artistica. E su questo Ballo insisterà più volte, come condizione sine qua non per comprendere qualsiasi espressione dell’arte, anzi del pensiero.
Lorella Giudici
Guido Ballo, alla sua sinistra la moglie Risa e alla sua destra Mariarosa Toscani Ballo e Oliviero Toscani, all’inaugurazione della mostra Ballo + Ballo al PAC, Milano, 2009.
Oltre a quelli citati, sono numerosi gli interventi critici di Ballo su Fontana. Tra gli altri si ricordano: Albisola e Fontana, “Omnibus”, Milano, 4 giugno 1950; Le ceramiche moderne, “Settimo Giorno”, Milano, 28 maggio 1952; Lucio Fontana et le Spatialisme, “Cimaise”, n. 48, Parigi, aprile-giugno 1960, pp. 12-25; Fontana, Galleria Malborough, Roma 1964; Fontana, “Corriere della Sera”, Milano, 7 settembre 1969; Lucio Fontana, Palazzo Reale, Milano, 19 aprile-21 giugno 1972; Lucio Fontana, Galleria Zarathustra, Milano, gennaio-febbraio 1977; La donazione Fontana al Palazzo Reale di Milano, “Studio Marconi”, nn. 8-9, Milano, 1 febbraio 1979; Lucio Fontana, Sala Comunale d’Arte Contemporanea, Rimini, 30 giugno-30 settembre 1982; Fontana, Allemandi e C., Torino 1984; Lucio Fontana, Villa Mirabello, Varese, 9 maggio-31 agosto 1985, Edizioni Lativa, Varese.
Note
1 Guido Ballo, Lucio Fontana, catalogo della mostra, Sala Comunale d’Arte Contemporanea, Rimini, 30 giugno-30 settembre 1982, p. 14.
2 “Ho sempre sostenuto con la massima convinzione che tutta l’arte astratta, nata da spinta contenutistica, quindi interiore, è visionaria”. Cfr. Guido Ballo, Fontana, Allemandi e C., Torino 1984, p. 8.
3 Guido Ballo, catalogo della XIX Biennale di Venezia, Venezia 1958, pp. 19-20.
4 Ibid., p. 20.
5 Guido Ballo, Fontana, Allemandi e C., Torino 1984, p. 7.
6 Guido Ballo, Quattromila quadri sono sempre troppi, “Omnibus”, Milano, 2 luglio 1952, p. 26.
7 Sono parole che Ballo usa quando racconta delle sculture di Arnaldo Pomodoro alla XXXII Biennale del 1964 (p. 72), ma gli esempi potrebbero essere altri.
Lucio Fontana
L’uomo: idea per un ritratto
di Guido Ballo
Da molti anni ormai mi sono accorto che per comprendere in profondità il linguaggio di un artista non basta fermarsi all’analisi del linguaggio stesso, o alle sole premesse degli incontri culturali, che pure sono necessari per un esame non generico; occorre soprattutto ricostruire, con testimonianze, documentazioni, analisi obiettive, la personalità psichica dell’artista in modo da vederne la intima rispondenza alle sue ricerche o ai risultati estetici.
I dati per la ricostruzione di un ritratto aiuteranno alla comprensione e all’esame del linguaggio, almeno quanto i più complessi e sottili riferimenti culturali: ma per certa critica sembra che questo diventi arbitrario o inutile, perché tutto deve risultare dal linguaggio stesso. Dadaismo e Surrealismo, con la spinta automatica e l’aperto sconfinamento nelle zone dell’inconscio, ci hanno se non altro indicato la continua interferenza tra componente psichica e fatto estetico, tra psicologia e arte. Quando poi, sulla via dell’automatismo, si giunge all’arte gestuale – Spazialismo italiano, action painting americana, happening – e alla nuova esigenza contaminatrice della Pop Art, alle varie ricerche di «non intervento» e perfino, per certi aspetti, anche all’Optical, che pure sembra una distaccata sperimentazione da presupposti astratti sullo sviluppo della pura percezione visiva, non è più possibile fermarsi soltanto all’esame del linguaggio senza l’analisi delle varie componenti psichiche: perché tutto diventa, o tende a diventare, manifestazione più o meno segreta di vita irrazionale. Bisogna dunque risalire alla indole, al temperamento, alla complessa personalità dell’individuo: esaminarne i possibili contrasti, le reazioni, le aspirazioni, in un ritratto psichico, documentato in ogni aspetto.
Perché il difetto fondamentale di certo atteggiamento critico del nostro tempo è proprio questo: ricercare i rapporti culturali in astratto, senza esaminare fino a che punto rispondano a una scelta, a una particolare aspirazione dell’artista; esaminare anche i vari aspetti del linguaggio stesso con un’analisi che spesso diventa gioco esibito, dimenticando - e anzi trascurando volutamente - l’uomo, i suoi complessi, i suoi umori, i suoi contrasti, che invece illuminano il farsi dell’espressione: da qui si può risalire infatti ai riferimenti culturali, che diventano attivi, perché rispondenti, nei casi veri, alle possibilità di scelta, alle tendenze più profonde dell’artista, e ovviamente a tutto l’insieme di strumenti e di rapporti sociali.
Già nel volume su Boccioni ho impostato tutta l’analisi su questa ricerca di rispondenza all’uomo: c’è un capitolo, che s’intitola appunto «L’uomo: il contrasto delle forze psichiche», in cui ho cercato di ricostruire, attraverso lettere, diari, pagine autografe, la complessa personalità dell’artista, che appariva molto diverso dal mito che la critica più corrente ne aveva fatto. Si illuminavano le sue ricerche e i risultati espressivi da angoli visuali nuovi. Ma quasi nessuno, nelle numerose recensioni, parve accorgersi di questa particolare indagine e notò l’esigenza di portare l’esame critico sulle interferenze psichiche. Eppure oggi non è possibile continuare con una critica che troppo spesso diventa compiacimento oratorio: bisogna ritornare ai documenti, ai dati psichici, in funzione di ritratti, con la massima obiettività, e da qui condurre l’indagine linguistica, estendendola anche all’esame dei presupposti sociali.
Nel caso di Fontana non c’è abbondanza di lettere, di scritti autografi: non scrisse, come Boccioni, diari. Ci sono però le lettere al padre, al fratello Zino, a qualche amico e alcune note sull’arte; per molti anni ci siamo incontrati, abbiamo parlato a lungo insieme, ci sono altre testimonianze precise: per cui si può tentare un ritratto psichico, che superi il facile, generico mito in cui è stato da tempo fissato.
Fontana è apparso, per la sua indole estroflessa, un ottimista bonario, pronto sempre a dire di sì: era invece un uomo che lottava duramente per una idea, con un fondo di affettività che lo rendeva aggressivo più di quanto non s’immagini: mentre era aperto in modo generoso a tutte le idee nuove, disprezzava i mediocri; soprattutto, chi si faceva avanti, nel campo dell’arte, per i continui compromessi o sotterfugi. «Ora vedremo come si comporterà la zavorra », scrive nel ’36; e in una lettera al padre, del ’33: «Riuscire di qualità e non da pusillanimi. Da strasciato sì - si finisce col smascherarsi».
Eppure, a suo modo, era scaltro, non era il candido sentimentale che molti hanno voluto indicarci. Pur essendo leale, era scaltrito dalla dura esperienza, e soprattutto dall’istinto. Stava accanto ai giovani per generosità, ma anche perché sentiva che soltanto dai giovani poteva venire un rinnovamento, che gli permettesse un nuovo clima di ricerche e di soddisfazioni: la sua apertura non era calcolata, ma a un certo momento Fontana diventò l’uomo attorno a cui i giovani potevano respirare, incoraggiati, un’aria nuova. Lui sapeva di sostenere, socialmente, questa «parte», e ne accentuava il carattere con un gioco di teatralità sottile, che può spiegare, tra l’altro, il valore da lui dato al «gesto» anche nel linguaggio: apparire prestigioso. Certamente, il fondo psichico non poteva che essere una spinta di generosità. Fontana non sapeva neanche che cosa fosse l’invidia, il rancore represso, l’astio: se aveva da dire qualche cosa, la gridava nella lotta senza mezzi termini. Il senso dunque di teatralità sottile è un abito sociale, spesso con vene d’ironia, o comunque di gioco tra la gente: senza escludere affatto la sincerità, la partecipazione affettiva, il dialogo più diretto e vero.
In tale atteggiamento, come del resto in ogni sua azione, era guidato da un istinto che si potrebbe definire primitivo, a cui rispondeva ogni suo gesto: era un istinto finissimo, che bruciava la cultura e gli faceva saltare i gradini, portandolo per pura intuizione alla sommità.
In questo senso, pur essendo volto all’avvenire, era un uomo antico: i suoi sentimenti erano semplici, amava l’elementarità.
Non a caso non volle guidare mai una macchina, e nella sua arte del resto il tecnicismo offerto dalle industrie moderne è escluso: la premessa è manuale. Ma proprio l’istinto, che lo lega alla terra, agli elementi primari, alla vita nella sua urgenza terrena, e quindi ai sentimenti più corposi e semplici, facendogli odiare le complicazioni, le morbosità, alla fine gli fa esaltare l’indeterminato, lo spazio che supera la quarta dimensione del movimento e suggerisce l’indefinito, il mistero, il suggestivo. Al fratello Zino in Argentina faceva fotografare migliaia di volte le nuvole: amava la spazialità delle nuvole, il loro andare, il potere di immaginazione che esse suscitano in noi.
Come tutti gli istintivi di fiuto sottile, voleva però apparire dialettico, preso da problemi mentali: ha il complesso della filosofia, della cultura: chiama le sue opere «Concetti», vuole scrivere manifesti, vuole chiarire tutto con le parole, non soltanto con le opere visive. Ma ad un tratto, quando parla, quando discute, è pronto a inveire, a mandare tutti i discorsi in aria, per affermare con atto di fede le sue intuizioni: e sono queste intuizioni, anche se espresse con frasi spezzate, con storture ortografiche, o con ingenuità evidenti, in discorsi non sempre rigorosi, a risultare alla fine illuminanti, perché la spinta è di origine poetica. Fontana in realtà è stato un uomo geniale, che concretava, nelle sue ricerche, le intuizioni con la più sorprendente abilità manuale. Questa abilità delle mani - e non la freddezza di una dialettica mentale - è l’altro aspetto che sta alla base, insieme al calore dell’istinto, di ogni suo movimento, di ogni sua azione. Le mani sono prestigiose: e lui lo sa benissimo. Per questo può permettersi le più spregiudicate libertà. È una libertà però conquistata da una disciplina di mestiere altissimo: per liberarsi da questo mestiere, cerca poi di romperlo, di distruggerlo.
Qui la sua dialettica è vera: può fare un buco, un taglio, uno strappo, ma la preparazione della superficie, le distanze, l’energia gestuale trovano sempre una rispondenza nell’abilità della mano, nell’impegno di un lavoro eseguito nel modo più perfetto. Quando esegue una scultura a gran fuoco, rinnova il prestigio tecnico degli smalti, del tocco con un’abilità che è già fantasia: per questo lo vidi un giorno alla galleria del Naviglio, appena ritornato dall’Argentina nel dopoguerra, quando tutti parlavano dell’abilità di Picasso anche per la ceramica, scagliarsi contro Picasso, che proprio in ceramica «non aveva rinnovato niente». Prendeva un piatto: «Sono semplici ingobbi, altro che novità».
Tale dominio della materia Fontana l’ha conquistato con un lungo, assiduo esercizio: e anche nella vita di tutti i giorni lottava sempre con accanimento. Si pensa troppo spesso a Fontana come a un uomo dotato, incline a una certa facilità esecutiva, quasi tutto gli venisse fuori dalle mani come per magìa o per miracolo: certamente semplificava le cose, volto alla sintesi, per quell’istinto cui ho accennato, e per una notevole dose di « buon senso», anche se tale termine, nel caso di Fontana, può apparire improprio; ma è da intendere come equilibrio, suggerito dall’esperienza: la sua è stata una lotta continua, più segreta di quanto non volesse far intendere, pronto com’era sempre alla battuta scherzosa, con gli amici, a una certa apparenza ottimista.
La volontà, anzi, in lui si trasformava in caparbietà, fino a diventare idea fissa: gli permetteva di non disperdersi, di agire in modo profondo, anche se per i vari esperimenti, che però si svolgevano attorno a uno stesso tema fondamentale, sembrava avviarsi in molte direzioni contemporaneamente, con esuberanza. In effetti le sue ricerche, nei vari periodi, non sono mai dispersive: agli inizi, quando vuole dominare la forma, guarda con occhio avido esempi diversi, e fa alcune sculture in cui piani e volumi sono semplificati con essenzialità per bloccare le forme chiuse; poi la sua ricerca si volge ad effetti materici, già informali, e a un singolare astrattismo emotivo, che anche nelle figurazioni gli fa aprire la forma, che si affida al tocco dinamico: questa fase, dapprima in materie gessose, sfocia nell’attività della scultura a gran fuoco. Ormai la ricerca diventa di ambientazione spaziale: e nel dopoguerra, tutto il suo Spazialismo, nelle diverse varianti, che non escludono l’attività anche figurativa affidata al tocco più estroso, si concreta in una ricerca: andare oltre la parete, far sentire l’indeterminato, il divenire dell’esistenza, l’energia del gesto, restando però preso, nel fondo, dalla presenza della superficie.
L’idea fissa, caparbia, non lo abbandona: la sua volontà tende al farsi, senza tentennamenti. Ma questa sicurezza è accentuata, oltre che dall’istinto, dalla assoluta fiducia nelle mani: la libertà della sua fantasia deriva, come dicevo, dalla coscienza di un pieno dominio della materia. Ha cominciato nello studio del padre a sentire il valore del mestiere artigianale come vera premessa ai risultati espressivi. Studia poi come capomastro: non ha dunque una formazione umanistica, che solleciti la fantasia come puro atto mentale (da qui una specie di complesso, cui ho accennato, verso «i concetti»), ma l’aderenza al mestiere, ai fatti anche pratici. Quando frequenta Brera, Wildt gli dà l’esempio di un altro accanito colloquio con la materia, di un prestigio manuale fino all’esasperazione. Da solo poi si libera, esegue migliaia di disegni, sempre più corsivi, si affida alle mani per rendere il naturale, l’indeterminato, o per cogliere il carattere delle cose vitali.
Alcune lettere al padre sono indicative di questa lotta continua. «lo lotto si può dire colla fame ma questo non ti deve preoccupare - io sono contento - sono convinto che un giorno trionferò - e più grande sarà la mia soddisfazione... Il mio metodo è più duro ma più onesto è lotta come nella trincea» (15-12-’33). «Difficilmente potrai approvare quello che faccio ora - la mia scultura è astratta - tu protesterai come sempre - però credo che a quest’ora avrai imparato a conoscere la mia fede in arte - ò sempre combattuto una dura battaglia - non ò mai voluto raccogliere allori troppo facili - oggi forse incomincio a raccoglierne invece i frutti» (29-1-’35). «Ò letto e meditata la tua lettera - i tuoi consigli come sempre sono veri e giusti - anch’io capisco che ormai la mia età è giunta al punto di smetterla con acrobazie e ideali e pensare al sodo - ma la mia passione per l’arte è così grande e sincera che non mi lascia mai tranquillo - e influisce enormemente sulla mia vita senza lasciarmi né pace né tranquillità - e purtroppo anche presentemente io vivo nell’incertezza se queste mie continue rinunzie a un benessere mi porteranno un beneficio - e s’io potrò un giorno essere contento della mia opera. Ad ogni modo sono certo e anche tu lo devi riconoscere che un artista sano - "di pura coscienza artistica" - à sempre avuto la vita difficile. Però per tranquillizzarti non credere ch’io abbia proprio la testa nelle nuvole - questo esperimento di Parigi - mi accorgo ogni giorno più - è per me importantissimo, ed, è per questo che per me in questo momento le privazioni e la vita dura sono accolte con gioia - lavoro moltissimo da Sèvres - e spero almeno farò l’impossibile per fare una mostra a Parigi - poi credo mi deciderò per l’Argentina» (24-10-’37). Da queste frasi appare l’indole ottimista di Fontana, ma attraverso la lotta, l’impegno di un lavoro continuo, la sua volontà che lo fa insistere nell’attuare un’idea allucinante, quasi da visionario.
Si rivela anche il rapporto di stima e di affetto verso il padre (altre volte gli scriveva per fargli «auguri affettuosissimi... che tu vada incontro alla felicità che ti meriti») ma senza sottomissioni ad altre idee sull’arte, diverse dalle sue: non si tratta del solito contrasto fra padre e figlio, ma di fede nella sua concezione artistica. Eppure, quando ritorna in Argentina, l’influsso del padre si fa sentire. Le lettere alla madre, a cui voleva bene anche se non era la sua vera madre, sono rare, affettuose, senza discussioni su problemi di arte. Se mai è indotto, inconsciamente, a parlare dello stato di salute: verso il padre ha un tono virile, parla di lotte da uomo a uomo, con la madre è più intimo, scherza, ma racconta i suoi mali. «Carissima mamma - ò ricevuto il tuo regalo e sono dispiacente doverti ringraziare così in ritardo e questa volta perché sono stato occupatissimo. Finalmente ò terminato questo lavoro colossale e fra pochi giorni vi sarà l’inaugurazione. La direzione della triennale è bastante soddisfatta ora vedremo le critiche... vedi che solo il lavoro materiale è stato brutale - tanto è vero che in questa ultima settimana lavoravo facendo iniezioni per rafforzare il cuore - il dottore mi disse che era un poco di debolezza cardiaca prodotta dall’influenza trascurata e eccessivo lavoro - una settimana di riposo assoluto e un po’ di gloria - e starò benissimo» (25-5-’36).
Questo tono scherzoso, ottimista, è un altro atteggiamento di Fontana, che lo ha reso in certo senso popolare, ma fissandolo dentro schemi: in realtà, pur tendendo allo scherzo , all’ironia bonaria, Fontana nascondeva spesso, con una sorta di istintivo pudore, i timori, le segrete aspirazioni. Pur essendo forte di animo temeva infatti il dolore, le delusioni: la sua affettività ne restava scossa. È questo un aspetto del suo carattere che molti non sospettano. In arte, amava lo splendore, la gioia, la vivacità: ma molte sue opere sono cupe, fanno sentire coi neri, gli strappi, i tagli, i buchi, il mistero inafferrabile dell’esistenza. «Il mio simpatico gattino è morto proprio a pochi minuti dal mio arrivo - scrive nel ’37 alla zia Giuseppina - non terrò più bestie anche loro sanno darci dei dolori». E più tardi, nel dicembre del ’64, al fratello Zino: «lo la solita menata lo sai, sono 66 presto! e contro quelli non ci sono pillole che valgano - non ti dico cosa succederà andando avanti».
Fiore, da Guido Ballo, Il muro ha un suono. Poesie 1940 – 1990, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano, 1994
Aveva dei momenti in cui tutto il suo ottimismo sembrava finire a un tratto: diventava scuro in viso, gli occhi rivelavano un taglio di smarrimento sospeso, mentre si volgevano: io l’ho visto spesso così. Sentiva, in silenzio, ogni gesto, ogni atto veramente provvisorio, senza significato. Ma reagiva presto, riprendendo l’abito più ironico: e ritrovava nel lavoro la ragione di vita.
Una certa spavalderia, con cui ricopriva questo fondo d’inquietudine, accentuava certamente il suo fascino: amava vestire e presentarsi come un antico signore, pur negli abiti di oggi, lontano da ogni atteggiamento di falso romanticismo; con la sua figura virile, schietta, e nello stesso tempo gentile, esercitava un vivissimo fascino sulle donne. Ma alla fine era sempre legato, come dicevo, agli affetti primari, con una particolare fedeltà, anche quando poteva apparire disinvoltamente libero.
Era in realtà libero dai legami artificiosi, mercantili. Un giorno, discorrendo con Carlo Cardazzo, gli chiesi come mai, lui che gli era tanto amico e che aveva lanciato al Naviglio lo Spazialismo, non fosse il mercante di Fontana, con un contratto chiaro. Mi rispose serissimo, togliendosi la pipa di bocca: «Non è possibile essere mercante di Fontana, il vero mercante di se stesso è lui».
Dapprima questa battuta mi parve piuttosto strana: Lucio, in quegli anni, non aveva ancora avuto un grosso premio, e neanche un vero, grande successo: regalava quadri e sculture a tutti gli amici, anche ai giovani artisti che non conosceva, ma che gli chiedevano di essere aiutati: le sue opere non avevano raggiunto prezzi alti: che mercante poteva essere di se stesso? Era, se mai, un artista libero. Poi compresi meglio ciò che intendeva dirmi Cardazzo, il quale era anche lui un intuitivo e sapeva conoscere le persone: più che mercante di se stesso, Fontana sfuggiva a ogni mercante perché ormai, da solo, sapeva portare avanti e far diventare quasi mitica, leggendaria, la sua figura di uomo e di artista, aperto, generoso verso i giovani. In questo senso era anche scaltro. Ma pagava di persona: questo non bisogna dimenticarlo. Il vero successo giunse soltanto negli ultimi anni: e fu un successo sudatissimo.
Ero con lui alla Biennale veneziana del ’66, mentre preparava la sala: voleva mettere un solo quadro, in un ambiente ellittico. «Conta l’idea, un taglio, un gesto». Fingeva di non tenerci al grande premio, passò invece dei giorni in una tensione bruciante: era scuro in viso, teso; non aveva mai usato sotterfugi, né compromessi, e anche ora appariva allo scoperto. Altro che mercante di se stesso. Un uomo che con la sua morte ha lasciato, nell’ambiente non soltanto milanese, un grande vuoto: per l’esempio morale di ricerca, di lotta aperta.
Del resto, conversare con lui nello studio di corso Monforte, davanti al giardino, era molto bello, oppure vederlo al lavoro. Mi diceva: «Credono che fare un taglio o un buco sia facile. Non è vero, scarto tanta di quella roba. L’idea deve attuarsi precisa». Era, questa, la sua vera poetica: che riscattava il gesto nell’assoluta perfezione di una idea, concretata in uno spazio. L’indeterminato così diventava un effetto espressivo: percepito con pura intuizione ed estrema abilità nella tecnica. lo, personalmente, amo ricordarlo mentre gli leggevano in una sala una poesia dedicata a lui: aveva gli occhi lucidi, con stupore poetico.
Testo tratto da Guido Ballo, Fontana: idea per un ritratto, ILTE, Torino 1970, pp. 25-46.