Haidt: quelli che... il digitale

17 Settembre 2024

Il primo brano del settimo album di Enzo Jannacci ‘Quelli che’, pubblicato nel 1975 si apriva con l’icastico monologo La Televisiun, che recita: “La televisiun la g'ha na forsa de leun. La televisiun la g'ha paura de nisun. La televisiun la t'endormenta cume un cuiun.” Come sempre gli artisti – e Jannacci lo era – percepiscono con rabdomantica chiarezza anticipatrice le tensioni e le criticità che animano la società. In questi pochi versi la televisione, il medium per eccellenza di quegli anni, veniva percepita come una potente arma di distrazione di massa, fino al punto di riconoscerla come causa di un collettivo sognante rimbambimento.

Anche oggi, quasi cinquanta anni dopo, discutiamo dei media, oggi digitali, che, con la loro articolazione nel web e nei social, da più parti vengono indicati come i principali responsabili dei tanti problemi che affliggono la nostra società. Ad ogni tragico fatto di cronaca, come ad esempio la recente strage di Paderno Dugnano dove un adolescente ha sterminato con un coltello la propria famiglia, l’indice viene puntato sui social media.

Nel corso della storia, l'emergere di nuove tecnologie che alterano la rappresentazione e la riproduzione del mondo ha sempre suscitato aspre critiche e previsioni di un'imminente rovina. Da Platone in poi, varie tecnologie cognitive come l'alfabetizzazione, la poesia, la fotografia, il cinema, la televisione, Internet e gli smartphone sono state diffamate per il loro impatto negativo sugli individui e sulla società. Tuttavia, queste nuove tecnologie cognitive hanno progressivamente ampliato le capacità umane di espressione creativa. Sebbene alcuni siano propensi a liquidare le preoccupazioni legate all'adozione delle tecnologie digitali come ansie convenzionali derivanti da atteggiamenti conservatori nei confronti del progresso e dell'innovazione, è comunque difficile ignorare il potenziale di cambiamenti senza precedenti nelle nostre vite e nelle nostre società determinato dall'avvento di queste nuove tecnologie digitali.

In effetti, l'attuale dibattito pubblico sulla mediasfera digitale e sul suo impatto sulla vita e sulle società umane, riacutizzatosi dopo il recente boom della cosiddetta Intelligenza Artificiale, è in qualche modo polarizzato da un lato da un acritico tecno-entusiasmo, e dall'altro, dalla nostalgia per i buoni vecchi tempi analogici. Questa polarizzazione diventa ancora più evidente quando si discute del rapporto tra l'uso pervasivo dei media digitali e il benessere mentale, soprattutto nel caso delle generazioni più giovani, i cosiddetti "nativi digitali".

Nell'attuale dibattito pubblico l'atteggiamento prevalente nei confronti delle tecnologie digitali in relazione alla salute mentale è negativo, soprattutto per le generazioni più giovani. Un recente libro dello psicologo americano Jonathan Haidt, The Anxious Generation (2024), dedicato all'analisi dell'effetto dell'uso precoce e diffuso delle tecnologie digitali tra gli individui della generazione Z (persone nate dopo il 1995), incarna questo atteggiamento negativo con frasi come la seguente: "La generazione Z è diventata la prima nella storia ad attraversare la pubertà con un portale in tasca che li ha allontanati dalle persone vicine e li ha portati in un universo alternativo eccitante, coinvolgente, instabile e come dimostrerò inadatto a bambini e adolescenti" (p. 19); e ancora, "La prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con gli smartphone (e l'intero Internet) in mano è diventata più ansiosa, depressa, autolesionista e suicida" (p. 74). 

Questa visione apocalittica si basa apparentemente su ricerche empiriche che mostrerebbero un aumento repentino e costante di episodi di autolesionismo e suicidio tra gli adolescenti, a partire dal 2010, quando Apple ha introdotto la fotocamera frontale nell'iPhone e quando i social media hanno preso il sopravvento. Secondo Haidt, sostituendo il gioco fisico e la socializzazione in persona, gli smartphone e i social media avrebbero letteralmente ‘ricablato’ l'infanzia e cambiato lo sviluppo umano su una scala quasi inimmaginabile.

Poiché le grandi affermazioni richiedono grandi prove, a che punto siamo? Sostenere che l'uso delle tecnologie digitali e i problemi di salute mentale degli adolescenti stiano aumentando insieme è solo correlativo, nella migliore delle ipotesi, senza dimostrare una reale relazione causale tra i due fenomeni. In una recente recensione del libro di Haidt apparsa su Nature lo scorso marzo, Candice Odgers scrive: "Centinaia di ricercatori, me compresa, hanno cercato il tipo di grandi effetti suggeriti da Haidt. I nostri sforzi hanno prodotto un mix di assenza o di marginale associazione. La maggior parte dei dati è correlativa. Quando si riscontrano associazioni nel tempo, non suggeriscono che l'uso dei social media predice o causa la depressione, ma che i giovani che hanno già problemi di salute mentale usano queste piattaforme più spesso o in modi diversi dai loro coetanei sani" (2004, p. 29). In effetti, numerose meta-analisi e revisioni sistematiche della letteratura convergono sullo stesso messaggio. Odgers riferisce che l'Adolescent Brain Cognitive Development study, il più grande studio a lungo termine sullo sviluppo cerebrale degli adolescenti negli Stati Uniti, non ha trovato prove di cambiamenti associati all'uso della tecnologia digitale. Orbin e colleghi (2019) dell'Università di Oxford hanno pubblicato uno studio su un'ampia coorte di 12.672 giovani di età compresa tra i 10 e i 15 anni, dimostrando che l'uso dei social media non è, di per sé, un forte predittore della soddisfazione di vita nella popolazione adolescenziale. Uno dei più grandi studi meta-analitici sull'argomento è stato pubblicato da Jeff Hancock e colleghi (2022) del Media Lab dell'Università di Stanford. Ha riguardato i 226 studi scientifici disponibili pubblicati a partire dal 2006 sulla relazione tra la quantità di tempo trascorsa sui social media e il benessere psicologico, coinvolgendo più di 270.000 giovani. I risultati hanno mostrato effetti significativi molto ridotti, con un compromesso tra l'aumento della depressione e dell'ansia da una parte, e il miglioramento del benessere sociale dall’altra.

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Un altro ampio studio condotto in Norvegia ha recentemente analizzato la relazione tra l'uso dei social media, le abilità sociali e le amicizie offline in una coorte di 1007 individui di 10-18 anni (Steinsbekk e colleghi, 2024). I risultati hanno mostrato che l'aumento dell'uso dei social media prediceva un maggior tempo trascorso con gli amici offline, ma non era correlato a futuri cambiamenti nelle abilità sociali. L'età e il sesso non risultano influenzare queste associazioni; l'aumento dell'uso dei social media ha mostrato un calo delle abilità sociali solo tra gli adolescenti con sintomi di ansia sociale elevati. Gli autori di questo studio concludono che l'uso dei social media non può né danneggiare né giovare allo sviluppo delle abilità sociali e può promuovere, piuttosto che sostituire, l'interazione offline in presenza con gli amici durante l'adolescenza. Tuttavia, l'aumento dell'uso dei social media può rappresentare un rischio per la riduzione delle abilità sociali nei soggetti socialmente ansiosi.

È vero che i tassi di suicidio sono aumentati costantemente negli ultimi 20 anni nella maggior parte dei Paesi occidentali e che i suicidi, gli episodi di autolesionismo, la depressione e l'ansia sono aumentati soprattutto tra gli adolescenti. In effetti, Twenge e colleghi (2019) hanno proposto una relazione causale con il tempo trascorso sullo schermo. Altri ricercatori, tuttavia, citano l'accesso alle armi, l'esposizione alla violenza, la discriminazione sociale e il razzismo, il sessismo e l'abuso sessuale, l'epidemia di oppioidi, le difficoltà economiche e l'isolamento sociale come fattori principali che vi contribuiscono (cfr. Martínez-Alése colleghi, 2022). Prima di accettare come verità rivelata le affermazioni apocalittiche contenute nel libro di Haidt abbiamo bisogno di più studi longitudinali di controllo su larga scala.

La scienza non dovrebbe essere prescrittiva, poiché il suo ruolo principale è quello di far luce sui fenomeni piuttosto che giudicarli. Il dibattito contemporaneo sulle tecnologie digitali opta troppo spesso per pregiudizi e giudizi stereotipati, siano essi acriticamente negativi o positivi, invece di basarsi su ciò che può essere accertato empiricamente dalla ricerca. Sappiamo ancora poco su come i media digitali influenzino le persone e le loro relazioni sociali: abbiamo quindi bisogno di più ricerca. Inoltre, le tecnologie digitali sono solo un aspetto che caratterizza le società occidentali contemporanee. Prima di dare la colpa alla tecnologia digitale, dovremmo forse considerare il fatto che il suo uso specifico è dettato e condizionato dal modello di società in cui la stessa tecnologia viene prodotta e utilizzata. Il nostro modello capitalistico occidentale parla più di individui che di gruppi, elogia la competizione a scapito della solidarietà, portando le persone a una lotta sempre più ansiosa per l'autopromozione. Il calo della natalità produce sempre più famiglie con figli unici, in cui i genitori sviluppano nei loro confronti atteggiamenti timorosi e iperprotettivi a scapito dello sviluppo del senso di autonomia e responsabilità. A ciò si aggiunge un discorso politico pubblico che per meri fini elettorali spesso promuove un frustrante senso di paura e ansia tra i cittadini, sfruttato cinicamente per ottenere un consenso più ampio e consolidare il potere. Tutti questi fattori si sommano e molto probabilmente influiscono sulla salute mentale delle persone. La cattiveria umana, oggetto principale delle notizie che ci raggiungono quotidianamente nasce forse anche dall’essere prigionieri (‘captivi’ significa proprio questo) della paura che viene instillata scientemente per aumentare consensi elettorali. Un sommario sguardo al mondo delle altre specie animali dimostra come nella maggior parte dei casi l’aggressività e la violenza siano scatenate dalla paura.

Dobbiamo anche tenere presente che le visioni inquietanti sui media digitali potrebbero essere integrate da scenari più speranzosi che lasciano ampio spazio allo sviluppo creativo di nuovi modi di vivere mediati digitalmente. Mauro Carbone e Graziano Lingua hanno scritto di recente che “Nella narrazione verbale e iconica insieme praticata sui social media, gli utenti evidenziano così un reale bisogno di stabilire legami sociali, e la loro esperienza di individualità frammentata si rivela funzionale alla costruzione di nuove identità che compongono e ricompongono le relazioni rese possibili dall'ambiente digitale." (2023, p. 173).

Come suggeriscono queste parole, siamo entrati in una nuova dimensione della socialità che porta con sé nuove forme di soggettivazione, per cui dobbiamo aspettarci, soprattutto per le giovani generazioni, un cambiamento radicale nel bene e nel male della qualità e della quantità delle relazioni interpersonali intrattenute nella vita quotidiana. È possibile che questo avrà – secondo molti già ha – implicazioni per il benessere mentale delle persone. Se ammettiamo una visione della psicopatologia in termini di "disadattamento interpersonale" (cfr. Bolis e colleghi, 2023), allora le nuove forme di interazioni sociali favorite dal paesaggio mediatico digitale dovrebbero essere sempre più al centro della ricerca empirica, dove le neuroscienze sociali possono fornire un contributo importante. Nell'esplorare le complessità dell'era digitale, è indispensabile esaminare criticamente il ruolo delle nuove tecnologie nel plasmare la vita sociale e il discorso politico. Solo comprendendo meglio l'interazione tra contenuti, contesto emotivo, metodi di diffusione e condivisibilità all'interno della mediasfera digitale, potremo sviluppare strategie per mitigare i potenziali effetti negativi della delle nuove tecnologie e promuoverne un uso consapevole volto al miglioramento della qualità delle nostre vite (Gallese, 2024).

Leggi anche:
Elena Dal Pra | Jonathan Haidt: la generazione ansiosa
Elio Grazioli | Al di qua e al di là degli schermi

Per saperne di più

Bolis, D., Dumas, G., Schilbach, L. (2023). Interpersonal attunement in social interactions: from collective psychophysiology to inter-personalized psychiatry and beyond. Phil. Trans. R. Soc. B37820210365.

Carbone, M., Lingua, G. (2023). Towards an Anthropology of Screens. Showing and Hiding, Exposing and Protecting. Pallgrave Macmillan.

Gallese, V. (2024). Digital visions: The experience of self and others in the age of the digital revolution. International Review of Psychiatry, 1–11.

Haidt, J. (2024). Anxious Generation How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illnes. London: Penguin Publising House.

Martínez-Alés, G., Jiang, T., Keyes, K. M. & Gradus, J. L. (2022). The recent rise of suicide mortality in the United States. Annu. Rev. Publ. Health 43, 99–116.

Odgers, C.S. (2024). The great rewiring unplugged. Is social media really behind an epidemic of teenage mental illness? Nature, 628, 29-30.

Orben, A., Dienlin, T., Przybylski, A. K. (2019). Social media’s enduring effect on adolescent life satisfaction. Proc. Natl Acad. Sci. USA 116, 10226–10228.

Steinsbekk, S., Bjørklund, O., Valkenburg, P., Nesi, J., & Wichstrøm, L. (2024). The new social landscape: Relationships among social media use, social skills, and offline friendships from age 10–18 years. Computers in Human Behavior, 156, 108235.

Twenge, J. M., Joiner, T. E., Rogers, M. L., Martin, G. N. (2018). Increases in depressive symptoms, suicide-related outcomes, and suicide rates among U.S. adolescents after 2010 and links to increased new media screen time. Clinical Psychological Science, 6, 3–17.

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