Da Manzoni a Andreotti e Di Maio / I forni della politica
“Al forno! al forno!, si grida”: la carestia imperversa nella Milano dei Promessi sposi e il romanzo mette in scena i modi in cui nasce, si sviluppa, esplode e si esaurisce l’onda di una rabbia e di un moto popolari. Nutrono la rabbia sentimenti non diversi da quelli che, quando maturano politicamente e diventano un’ideologia, hanno una loro qualificazione specifica, nel discorso politico. La famiglia lessicale di tale qualificazione era naturalmente ignota ad Alessandro Manzoni. Venne infatti alla luce dopo la sua morte; in italiano, or sono circa cento anni, per influsso di tendenze politico-culturali extra-nazionali: populismo, populista. E non è nemmeno detto che parole siffatte sarebbero piaciute a Manzoni. È anzi ragionevole il contrario. La lacuna non gli impedì del resto di tracciare per metonimia un’analisi acuta e rivelatrice di un prodromo esemplare e di farlo senza sdottoreggiare ma in pagine narrative che si ha quasi l’impressione di profanare, se, nell’attuale temperie di editors e scuole di scrittura creativa, si ha l’impudenza di dirle superbe.
Eccone, quasi a casaccio, un passaggio: “La sera avanti quel giorno in cui Renzo arrivò a Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendio. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intorbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca”.
Il giorno successivo, in virtù di “ragionamenti” e di “storie”, l’acqua in cui nuotano gli “appassionati” ha già raggiunto, a parere dei “furbi”, il livello d’intorbidamento adeguato perché i primi passino, spontaneamente (ci mancherebbe così non fosse), dalle parole ai fatti: “Nella strada chiamata la Corsia de’ servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche, così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono. A quella parte s’avventò la gente”.
“Al forno! al forno!”, appunto, ed è suggestivo osservare come la parola forno risuoni oggi frequente nel discorso pubblico, quasi fosse un indizio arcano e rivelatore. La fase politica nazionale è infatti caratterizzata da una marcata presenza del populismo, dicono gli intenditori di tali faccende, proclamandosi capaci di distinguerne persino guise diverse. Qui non ci si lancerà nell’arduo esercizio. Del resto, oggi, quando forno ricorre, non lo fa perché si prospetta un assalto a un suo riferimento.
Il fatto curioso è però che forno ricorra: “Chiuderò un forno”. Curioso è che che vi abbia preso il ruolo di un topos, di una metafora avviata a diventare una catacresi estemporanea e, ragionevolmente, solo passeggera, “tormentone” che, nelle sue varianti, ribolle oggi furiosamente nel discorso pubblico ma, come la rabbia, farà presto a sbollire.
Se ne trova in ogni caso confortata un’idea: tra forno, figurato o no, e moto di furia popolare corrono forse fili nascosti; il secondo parte e il primo capita ne venga trascinato e compaia nella parola di chi ha forse soffiato sul fuoco per cuocerci la sua focaccia. Nel ribellismo, insomma, può ancora esserci una rivolta per il pane (di qualcuno), cui forno faccia da emblema.
Ma forno non si presta solo a simili suggestioni. Fuori di esse, c’è altro da dire, alla luce del briciolo di consapevolezza diacronica disponibile a chi verga queste pagine. “Politica dei due forni” fu infatti definita, per figura, quella che avrebbe dovuto perseguire la Democrazia Cristiana, a parere di suoi autorevoli esponenti, e che essa in una certa misura perseguì. S’era in una fase tarda della cosiddetta Prima Repubblica. Nel ruolo di partner di governo del partito di maggioranza relativa, si proponevano tanto il Partito Socialista, quanto il Partito Comunista, in vivace concorrenza reciproca: ennesimo fenomeno d’una frattura consumatasi a Livorno, nel gennaio del 1921.
Secondo l’indirizzo tattico della “politica dei due forni”, l’uno e l’altro erano da considerare forni presso i quali la Democrazia Cristiana si provvedeva o avrebbe dovuto provvedersi del necessario a fare ciò che aveva fatto sin dal 1948: assicurare a se stessa una preponderanza, nel governo della nazione, che andava al di là del suo effettivo peso tra gli elettori e le elettrici, trasformando la sua maggioranza relativa in una maggioranza assoluta.
La circostanza di una Democrazia Cristiana idealmente votata a servirsi all’uopo e senza pregiudizio ora di una forza politica, ora di un’altra, senza mai assicurarne nessuna, quanto al possesso esclusivo della funzione, non era del resto una novità di quella fase. Dopo l’opzione necessariamente “atlantica” del periodo più acuto della Guerra fredda, si può dire essa vigesse nell’alternativa (anche solo ipotetica) tra soluzione centrista e di centro-sinistra, per la composizione del governo. La seconda fu messa in atto, come si sa, ai primi tepori degli anni Sessanta, quando al Partito Socialista fu dato progressivo accesso a quella “stanza dei bottoni” (così l’aveva definita Pietro Nenni, con generosa immaginazione), da cui veniva contemporaneamente escluso il Partito Liberale.
Ne seguì che, al successivo prodursi della menzionata concorrenza tra Socialisti e Comunisti e in prospettiva già storiografica, qualcuno (forse Giulio Andreotti) suggerì (forse ammiccando) di estendere à rebours la designazione di “politica dei due forni”, divenuta contestualmente corrente, al modo con cui la Democrazia Cristiana era già da decenni riuscita nel suo intento. Ne rivendicava a se medesimo l’ideazione, del resto, e ne lamentava, eventualmente e nell’occasione, un’applicazione non rigorosa da parte degli “amici” di partito inclini a privilegiare per principio i Comunisti. Insomma, la “politica dei due forni” vedeva, da un lato, due forni in concorrenza, dall’altro, una furba cliente e prospettava l’insieme dal punto di vista di quest’ultima.
Oggi lo si sa: a Berlino, il muro maestro di un ormai vecchio ordine mondiale era prossimo ad andare giù e si trattava così degli ultimi fuochi anche di quel panorama politico nazionale e della connessa “politica dei due forni” democristiana. Uno dei due forni era del resto vicino a essere chiuso d’imperio, per via di vicende che ebbero momenti simili a quelli descritti nelle pagine manzoniane sopra ricordate. Con quel forno e sempre per le stesse vicende, si sarebbe inabissata la pluridecennale cliente. Tra i gestori dell’altro forno, nell’occasione festanti per l’apparente fine del locale regime di concorrenza, la festa oscurò una piena consapevolezza d’essere anch’essi (e forse prima di chiunque altro) finiti sotto i detriti prodotti dal menzionato crollo e di avere avuto solo la fortuna, piuttosto dubbia, di non esserne ipso facto rimasti vittime.
La vicenda politica che li ha successivamente interessati si è così rivelata lunga ed estenuante e la loro sorte, fra quelle degli attori dei tre ruoli nella vecchia commedia, è stata forse la più cruda e impietosa. Il loro destino non si è infatti definito seccamente per l’intervento di agenti esterni alla politica o che, per meglio dire e adoperando l’aurea definizione di Carl von Clausewitz, della politica costituiscono una continuazione con altri mezzi. Ha proceduto invece come lenta consunzione, nell’annaspare tipico, quasi un’asfissia, della perdita progressiva della ragione d’esistere.
Ciò rammentato, forno, come figura, è di nuovo comparso in questi giorni nel discorso politico nazionale: lo si è detto poco sopra. La sua comparsa potrebbe allora parere un ritorno: “Il forno resterà aperto ancora per qualche giorno”; “Il forno è ancora caldo; “Il forno è ormai chiuso”; “Si è aperto un secondo forno”, si sente dire da protagonisti e commentatori. Il quadro è radicalmente mutato, però, e il ritorno di forno è soltanto esteriore: formale, si direbbe in linguistica, non funzionale. Esso testimonia di una tendenza a orecchiare, forse a scimmiottare, parole e attitudini di una scena politica che fu. E dice che tale scena politica è oggi utilizzata come palinsesto: un supporto sul quale scrivere un nuovo testo, dopo averne raschiato il vecchio.
Nella nuova commedia o (oggi si usa dire) nella nuova narrazione, ci sono anzitutto due forni metaforici per due metaforici clienti, non una cliente e due forni disponibili. Attrici o attori cui sono affidati i rispettivi ruoli si trovano poi in un rapporto bizzarramente rovesciato, rispetto al passato. Prende infatti il ruolo di tenutaria del forno, anzi di due forni, la forza politica che detiene la maggioranza relativa. Afferma di aspirare, in tal modo, alla funzione di asse del sistema di governo, quella assolta nel vecchio sistema politico dalla Democrazia Cristiana. Tuttavia, nella sua “politica dei due forni” e come partito di maggioranza relativa, questa s’era assegnato il ruolo di metaforica cliente: in quel contesto, un ruolo contrattualmente forte. Due forze politiche minori sarebbero invece chiamate a interpretare adesso tale ruolo e a farlo inoltre in reciproca alternativa, in funzione di uno dei due forni, il primo orientato, si dice, a destra, il secondo a sinistra. Chi detiene la maggioranza relativa dice che fornirà così il servizio di un governo.
Che il potenziale cliente sia un pollo è principio-cardine dell’attuale temperie non solo economica, ma anche sociale e civile, si dirà. È vero. Può tuttavia ancora darsi il caso che non lo sia e, sia o no un pollo (di destra o di sinistra, poco importa), resta certo faccenda non da poco, per chi si offre (e, a ben vedere, da una posizione contrattualmente debole), fare passare il cliente dall’asettica potenza a un atto che potrebbe rivelarsi impuro.