Collezionisti di storia / I francobolli di Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli
Rispetto ad altre forme di collezionismo iscritte nelle opere d’arte, la filatelia ha uno statuto ambivalente. Al pari di ogni collezionista quello di francobolli è un malinconico (se non altro perché, come ogni collezione, anche la sua è costitutivamente destinata allo scacco dell’incompletezza e della morte, come il puzzle di vita del Bartlebooth di Perec nella Vita, istruzioni per l’uso).
Eppure permane sempre in lui un tratto espansivo, che deriva dalla radice infantile di ogni collezione di francobolli, «mossa insieme dalla passione per l’esotismo e da quella per la sistematicità della serie». Così scriveva il Calvino di Collezione di sabbia commentando l’opera di Donald Evans (pittore americano morto trentenne nel ’77, e specializzatosi nella pittura – a matite e acquarelli – di francobolli d’invenzione scrupolosamente ascritti, appunto per serie, a paesi e periodi storici altrettanto immaginari). Sicché «questo preteso introverso era un uomo nient’affatto ripiegato su se stesso ma proiettato sul fuori, sulle cose del mondo, scelte e riconosciute e nominate una per una con delicatezza e precisione amorosa». La filatelia non è che un metodo illusoriamente abbreviato, a misura d’infanzia appunto, con cui ci s’illude di appropriarsi di uno scibile umano racchiuso entro proporzioni in apparenza gestibili. Collezionare francobolli equivale a pretendere di catalogare il mondo, in formato ridotto: a partire dalle sue categorie fondanti, la storia e la geografia.
Molti artisti degli ultimi decenni hanno provato a esercitare questo controllo del mondo miniaturizzato, in scala. Ad Alighiero Boetti, per esempio, colori e forme dei francobolli (rigorosamente scelti fra i più ordinari e “seriali” possibili) consentivano combinazioni matematiche, serie inesauribili, multiformi gradazioni di colore (opportunamente “sporcate” dall’irregolarità dei timbri postali). Ma la mail art – che ha conosciuto il suo periodo d’oro al displuvio del situazionismo, fra anni Settanta e Ottanta – vive oggi una condizione paradossale. Nata come messa fra parentesi dell’autore individuale, per sostanziarsi di circuiti relazionali e networks creativi, è oggi esautorata – come in generale la posta cartacea – dal network globale che è la Rete. E sopravvive allora, ricondotta alla sua matrice malinconicamente individualista, solo come ossessione privata, liturgia famigliare, memoria di repertori luttuosamente conclusi (l’ascetismo associato al nomadismo, celebrato già in Evans da Bruce Chatwin; ma lo stesso Boetti – ha testimoniato la figlia Agata – concepiva le sue lettere come un modo introvertito e compensatorio, quasi à la Raymond Roussel, di “vedere” il mondo: «se la gente non viaggia, le lettere lo fanno al loro posto»).
È un caso eloquente che due artisti pressoché coetanei (nati rispettivamente nel ’64 e nel ’67) ma fra loro diversissimi, Elisabetta Di Maggio e Flavio Favelli, abbiano esposto lavori che proprio i francobolli impiegano come materiale. Di Di Maggio Greetings from Venice (a cura di Chiara Bertola, fino al 25 novembre) è un’installazione collocata al quarto piano (o Event Pavillion) del Fondaco dei Tedeschi, nel quale a Venezia a lungo ha avuto sede il Palazzo delle Poste ma ha dovuto subire, qualche anno fa, la riconversione in centro commerciale di lusso; di Favelli Serie Imperiale (Italian Council 2017, a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi, dal 24 marzo al 3 giugno) si compone di due pitture murali di grande formato (due metri e mezzo circa d’altezza), collocate nella Casa del Popolo e nell’ex Minicoop (spazio commerciale dismesso e prossimo all’abbattimento) di Bazzano, in provincia di Bologna (le due pitture, alla fine della mostra, verranno “strappate” e trasferite su tela, mentre i “buchi” resteranno “otturati” da due «anti-dipinti», come li chiama Favelli: stuccature e rattoppi su intonaco).
Non si possono immaginare procedimenti più distanti: Di Maggio impiega francobolli di tutte le epoche e di tutti i paesi, in numero esorbitante (centomila sono quelli giustapposti sul pavimento del Fondaco, con la collaborazione degli studenti del Liceo Marco Polo), materialmente disponendoli su una superficie orizzontale. L’esito è un mosaico multicolore e festoso, che allude ovviamente a quelli della Basilica di San Marco: e il percorso che facciamo su di esso, infatti, conduce a un belvedere, sulla città-giocattolo, che induce i turisti a mettersi in coda a serpentone. Di contro, Favelli usa solo l’immagine di due singoli francobolli, della stessa serie che dà il titolo del suo lavoro (uscita fra il 1929 e il ’42), e li colloca in verticale, a parete: due facce di Vittorio Emanuele III, il re formato-francobollo, qui ingrandite a dismisura, ci osservano intimidatorie; il suo volto imperscrutabile è reso ancora più enigmatico, sin quasi all’irriconoscibilità, dalle sovra-scritte a pesanti caratteri neri, del territorio di Zara occupato dalla Wehrmacht, e rossi, della Repubblica Sociale Italiana. L’esito è severo, laconico, dalla cupezza quasi minacciosa.
Già le sedi dei rispettivi interventi la dicono lunga sulla distanza fra i due temperamenti, prima che fra le loro opere. Lo scenario di Bazzano, dimesso e pressoché dismesso, allude a una storia opacizzata e “rientrata”, sconfitta e denegata, che ci appare come un revenant persecutorio; il décor squillante di colori e cartellini di prezzi del centro commerciale, che per raggiungere il lavoro di Venezia tocca attraversare (un po’ come il serpentone in autogrill, per guadagnare la zona dei bagni), dice di un presente assoluto e ostentatamente spensierato. Il titolo di Favelli è tetramente suprematista e rinvia a una storia tragica, quello di Di Maggio ironizza sull’exploitation a stereotipo turistico di un territorio non meno carico di storia.
Ma il sorriso eginetico di Betta non è meno crudele del cipiglio corrucciato di Flavio. A un esame più attento, infatti, i loro lavori mostrano un elemento decisivo in comune. Entrambi ragionano sullo spessore del tempo mediante pratiche di sovrapposizione e palinsesto, immagini dialettiche. Le sovra-scritte sui francobolli, come ben sanno i filatelici, sono sigle provvisorie di passaggi storici repentini, brutali, quasi sempre tragici. Dicono di occupazioni, spodestamenti, sfollamenti. E i passaggi successivi del progetto di Favelli, lo strappo e l’otturazione, riproducono ex post e appunto in scala, come in una macchina del tempo, la violenza di quella storia. Mentre il mosaico di Di Maggio, dalla minuziosità maniacale che come suo solito capovolge in ossessione sacrificale ogni sospetto di decorativismo, a sua volta “scava” il pavimento del centro commerciale «creando un fittizio cantiere archeologico in cui si è scoperto un immaginario pavimento nato negli interstizi di quello spazio», come scrive Chiara Bertola: l’anima “postale”, fatta di un lavoro materiale come il suo stratificatosi nei decenni, è un passato che, anche in questo caso, riemerge a contraggenio, diplopia e sovrimpressione d’una storia preterita e rimossa. E che costringe, chi voglia apprezzarne da vicino l’arazzo sterminato di tempi e luoghi che lo compone, a inchinarsi: a quella storia.
Una versione più breve di questo articolo è uscita su «Alias» il 27 maggio