I morti fanno i furbi

30 Dicembre 2014

I morti, se interpellati, fanno i furbi. Schivano le domande, sghignazzano, alterano la voce, girano intorno alle questioni, si fermano sul più bello mettendo paura con i loro trucchi convincenti: simulano cortocircuiti e manomissioni, spostano oggetti, producono suoni, guastano la frutta nelle alzate, sanno riprodurre gli odori, rubano. Succede spesso di assistere a questi fenomeni a chi è alle prime armi con la tavola ouija, perché a loro piace prendersi gioco degli inesperti. Non è cattiveria, tutto il contrario: sono a disagio e si infastidiscono, soprattutto se li si interroga ignorando le norme della buona creanza ultraterrena.

 

Tuttavia, non si tratta di dispetti o provocazioni nel caso degli spiriti che appaiono alle giovani protagoniste del racconto che apre e dà il titolo a Quando parlavamo con i morti (caravan edizioni, traduzione di Simona Cossentino e Serena Magi), di Mariana Enriquez, autrice finora inedita in Italia. Nel loro caso è più appropriato parlare di reticenze e diffidenza, di pudore: provano a dare spiegazioni circa la modalità del loro trapasso e, non potendo fare altro che scavare nella dolorosa storia recente di un’intera nazione, si mostrano poco affabili e sospettosi. Del resto chi è morto per delazione non può mostrarsi amichevole, nemmeno nei confronti di un gruppo di ragazzine estranee ai fatti, la cui curiosità per i nomi sulle pagine del rapporto Nunca Más si mescola alla mania per i fascicoli collezionabili sull’occulto e alla passione per la musica metal.

 

 

Forma narrativa autosufficiente, tuttavia, nelle pagine della scrittrice e giornalista argentina, il racconto vede potenziata quella sua “unità d’effetto”, di cui già scriveva Edgar Allan Poe, nell’interazione fra le parti che compongono un inquietante trittico dell’orrore ambientato in una Buenos Aires che fa i conti con i traumi della memoria sociale devastata dal senso di colpa collettivo.

 

Si immagini una radio che trasmetta “dalla nuca, sotto il cranio” (p. 11): il Processo di riorganizzazione nazionale, concretizzatosi nell’efferata dittatura di Jorge Videla, lascia una scia pestilente di dolore sommesso che s’insinua nelle teste di un’intera generazione come lo sfrigolìo della succitata radio. È una generazione di orfani che avvertono l’urgenza di ristabilire un vincolo filiale, benché ciò possa implicare continui tentativi falliti di dialogare con i fantasmi.

 

In questo bel libriccino, la predilezione di Enriquez per il genere horror ha un timbro tutto suo: non dà luogo a episodi truculenti e a personaggi sanguinari, ma a tre storie popolate da giovani – adolescenti, bambini, ragazze – a cui, per qualche motivo, è stato sottratto il diritto di esserlo. Fin dalle prime righe del secondo racconto, “Le cose che abbiamo perso nel fuoco”, il piglio si fa anche più sicuro, dando in questo modo solidità all’insieme, preludendo cioè a una forte coerenza tematica, rispettata nelle pagine successive, che poggia sui conosciuti, ma non certo facili da ottenere, meccanismi narrativi di normalizzazione dell’orrore per i quali proprio dal dominio del visibile e del quotidiano viene la percezione del disagio, quando non della paura. Mariana Enriquez colloca l’orrore dove è storicamente sempre stato: in famiglia, negli spazi domestici, nelle case, i cui corridoi sono un intrico di negazione e rimozione. L’orrore domestico è spesso marcato dalla violenza di genere: le donne protagoniste del secondo racconto si danno fuoco da sole ma non per uccidersi, per “mostrare le nostre cicatrici” (p. 34). Discendenti di una lunga tradizione letteraria, nipoti dirette di Catherine Earnshaw, si automortificano agendo sul proprio corpo come la protagonista di Cime tempestose nell’illusione di ritornare a esercitare quel controllo negato da secoli. Non ci sono orchi, né lupi mannari o folletti maligni, solo il sinistro scricchiolìo del nostro senso della realtà, fortemente turbato dall’esercizio di un autolesionismo, per così dire, militante: “La gente pensava che le donne stessero proteggendo i mariti, che ne avessero ancora paura, che fossero sotto shock e non potessero dire la verità; non fu facile accettare l’idea dei roghi” (p. 31).

 

È una strategia testuale precisa ed efficace, in cui l’elemento perturbante è il rumore lieve del senso di colpa collettivo. Nel caso dell’ultimo racconto, “Bambini che tornano”, giovani creature identiche a quelle scomparse tempo addietro, per le quali pare dunque che lo scorrere del tempo si sia bloccato, popolano la città di Buenos Aires: “I bambini che mancavano dalle loro case cominciarono a ricomparire, ma non in posti qualsiasi: ricomparivano in quattro grandi parchi della città, Chacabuco, Avellaneda, Sarmiento e Rivadavia. Se ne stavano lì, di notte dormivano uno accanto all’altro, e non sembrava che avessero intenzione di andare da nessuna parte. C’erano anche dei neonati, probabilmente vittime di sequestro da parte di un genitore, o magari si trattava di bimbi rapiti in ospedale, nei reparti di maternità” (p. 74).

 

Chi sono questi esseri identici ma del tutto diversi dalle creature amate? Non si tratta certo di un’invasione di ultracorpi: il dramma, anche in questo caso, è tutto di questo mondo. L’immagine rovesciata di questi ragazzini, il loro negativo, è una collettività che, regredendo nella paura, ha nascosto la testa sotto la sabbia, forse per non vedere i corpi lanciati dagli aerei venire a galla e giacere sulla spiaggia.

Un impalpabile velo di sospetto cala su una collettività, la classe media argentina, vittima del processo di autoinfantilizzazione che ha vissuto durante e immediatamente dopo la dittatura. Eludendo sapientemente la prospettiva verticale circa l’esercizio del terrore da parte di uno Stato inteso come responsabile esclusivo delle pratiche criminali, queste pagine paiono voler dire invece che non c’è stato e non ci sarà spazio per l’autoassoluzione di chi non ha visto né sentito niente.

 

I mostri, i nostri mostri, ci aspettano sempre, rannicchiati sotto una delle panchine malconce del parco dove ci piace passeggiare.

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