Il corpo come luogo di transito
Dice Aristotele, in un celebre passo della Politica, che “lo schiavo è un oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento che ha precedenza sugli altri strumenti”. Questo statuto strumentale, che fa dello schiavo un oggetto di proprietà, ovvero un uomo che non appartiene a se stesso bensì a un altro uomo, precisa lo Stagirita, è attestato anche dalla natura, la quale “segna una differenza nel corpo fra liberi e schiavi”, dando ai primi un corpo non adatto a lavorare e ai secondi una costituzione robusta adatta a faticare.
Si tratta di uno dei casi, non rari nel macrotesto occidentale, in cui il corpo fa transitare alcuni umani dall’ambito della persona alla sfera della cosa, contravvenendo così alla divisione fra persone e cose in due zone distinte ed opposte, che sembra funzionare come un principio fondamentale della nostra tradizione filosofica e giuridica, oltre che etica, politica ed economica. Le persone sono definite soprattutto dal fatto di non essere cose e le cose dal fatto di non essere persone: ogni scivolamento dall’una all’altra zona turba il sistema di riferimento e colpisce la nostra sensibilità, soprattutto se, al contrario di Aristotele, viviamo in un tempo che esalta i diritti individuali e l’eguaglianza.
Nota tuttavia, in Le persone e le cose, Roberto Esposito come il tema del corpo, in quanto luogo di transito fra persona e cosa, proprio in epoca contemporanea si ripresenti sotto forme diverse che aprono a nuove e inquietanti problematiche. Fra queste, quella, già antica, del cadavere che trasforma il corpo in cosa, ma soprattutto quella, assai attuale, delle parti del corpo che vengono espiantate e trapiantate, a volte commercializzate. A ciò si aggiunga la polemica incandescente intorno alle questioni dell’uso degli embrioni e del cosiddetto ‘fine vita’, nonché l’ibridazione del corpo con protesi e macchine, sempre più invasive, che lo inscrivono nell’ambito tipicamente cosale della tecnica. Oggi, il corpo è persona o cosa? O, meglio, oggi come, a quanto pare, fin dall’inizio, il corpo è qualcosa che sporge dalla cornice categoriale che divide le persone dalle cose, mettendone in crisi l’assetto?
Ci ricorda Esposito in questo libro, proseguendo su un filone originale di ricerca che si conferma sempre più fruttuoso, che il dispositivo della persona, lungi dal delimitare una zona compatta e impermeabile all’irruzione della cosa, è già scisso al suo interno, come del resto annuncia il termine greco persona che significa maschera. La struttura, la frattura originaria, prevede uno scivolamento continuo dell’uno nell’altro polo. Anche la modernità post-kantiana, nella quale confluiscono il pensiero greco, il diritto romano e la concezione cristiana, non si libera da questa ambiguità strutturale che pur si ostina a ribadire l’insuperabilità del modello dicotomico e oppositivo fa persone e cose. Pur potendo osservarne le metamorfosi e denunciarle, parrebbe dunque che non si possa uscire dal modello.
Eppure, nota Esposito, come ci assicurano gli antropologi, ci sono “società in cui persone e cose fanno parte del medesimo orizzonte al punto non solo di interagire, ma di integrarsi a vicenda”. Detto altrimenti, fuori dalla storia dell’Occidente, c’è un altro modello, nel quale, per di più, è sintomaticamente l’angolo di visuale del corpo a reggere l’impianto che unisce cose e persone invece di sancire, per principio, la loro divisione categoriale. Non si tratta ovviamente, per Esposito, di abbracciare questo modello alternativo liquidando l’Occidente e le sue ossessioni. Si tratta piuttosto di insistere sul tema del corpo per coglierne gli effetti, non solo transitivi, ma operativamente eversivi rispetto alla logica binaria che predica la divisione fra cose e persone.
Di qui l’interesse per le biotecnologie che permettono al corpo di contravvenire al suo statuto di monade individuale, includendo in sé organi provenienti da altri corpi e materiali inorganici. E di qui – dal punto di vista di una rivisitazione della biopolitica su cui Esposito lavora da tempo – l’interesse per quel che, sulla scorta di Toni Negri, chiamiamo moltitudini: ingenti masse che si accalcano nelle piazze di mezzo mondo, i cui “corpi si muovono all’unisono, con il medesimo ritmo, in un’unica onda emotiva”. Esterno tanto alla semantica della persona quanto a quella della cosa, oltre che incompatibile con il sistema della rappresentanza, conclude Esposito, “il corpo vivente di moltitudini sempre più vaste chiede alla politica, al diritto e alla filosofia un rinnovamento dei loro lessici”. Le persone e le cose, insieme alla produzione dell’autore degli ultimi decenni, si pone del resto già come un continuo esercizio di risposta a tale richiesta di rinnovamento lessicale e concettuale. E non poche, nel panorama nazionale e internazionale, sono le prospettive che, realmente o virtualmente, dialogano con l’impostazione di questa risposta.
Puntando sul dialogo virtuale, è allora interessante mettere alla prova il filtro di Esposito per rivisitare alcuni percorsi teorici del pensiero femminista, il quale, pur essendo un fenomeno vasto e frastagliato, ha proprio nel nodo problematico del corpo un elemento di cruciale convergenza. Alla luce degli argomenti affrontati ne Le persone e le cose, si può senz’altro incominciare menzionando Donna Haraway, che, a metà degli anni Ottanta, pubblica un testo, poi tradotto in italiano da Feltrinelli, che ha un impatto immediato e molto profondo sugli studi femministi e sulla vasta galassia del pensiero radicale: Manifesto Cyborg (A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century). La tesi di fondo è che le biotecnologie, lungi dall’avere la colpa di minare l’integrità corporea della persona ibridandola con la tecnica, hanno la virtù di produrre un corpo nuovo e inusitato che nullifica la vecchia opposizione fra tecnica (cultura) e natura.
Com’è facile immaginare, il binomio tecnica/natura, sotto il quale si rubricano altre infinite e cruciali opposizioni, tipiche dell’economia binaria, è da sempre un tema assai frequentato dalla critica femminista. Dopo tutto, nello stesso testo in cui Aristotele riduce gli schiavi a cose strumentali e proprietà del padrone, egli colloca anche le donne, il cui corpo è contrassegnato dalla differenza sessuale, nell’ambito domestico delle cure e dei servizi, dichiarandole per natura inadatte alla libertà e alla politica. Detto altrimenti, la costruzione del soggetto o, per dirla con Esposito, il dispositivo della persona, in tutta la tradizione occidentale ha sin dall’origine contemplato un dislocamento delle donne nella zona della riproduzione naturale, e ha spesso reificato il corpo femminile riducendolo a possesso di padri e mariti.
Ha ragione Esposito nel sottolineare che la proprietà delle cose crea gerarchie, ruoli, gradi diversi di umanità fra le persone e, d’altra parte, il dispositivo della persona crea altrettante gerarchie, nelle quali si annoverano gli emarginati e gli esclusi. Il pensiero femminista, pur nelle sue varie articolazioni, ne è appunto più che convinto ed ha elaborato un sapere molto attento sia ai trucchi del modello dicotomico che oppone le persone alle cose, sia al funzionamento generale dell’economia binaria – l'espressione è di Luce Irigaray – che traduce il due della differenza sessuale in termini di subordinazione/esclusione del femminile rispetto al maschile. Un altro punto importante su cui la critica femminista dialoga virtualmente con Esposito, è la considerazione del corpo come qualcosa che si è e non come qualcosa che si ha.
L’assunzione del corpo come una dimensione esistenziale per ripensare la politica e la diffidenza verso il sistema rappresentativo delle democrazie moderne costituiscono un elemento centrale della critica femminista a partire degli anni Settanta. Più in dettaglio, sul piano delle pratiche, il femminismo conosce sia la strategia dell’esibizione dei corpi, che si muovono nella massa nelle manifestazioni con notevole ritmo, sia la preoccupazione di ridefinire la soggettività come un’unicità incarnata che si svincola dalla categoria generale del ‘vivente’. Il corpo è politico, recita un vecchio slogan femminista.
Donna Haraway, come altre teoriche statunitensi d’ispirazione post-strutturalista, rivisita questo slogan nel nome di un corpo cyborg che, ibridandosi con la tecnica, si libera dalla gabbia della naturalità (e dell’animalità) e, soprattutto, confonde il sistema e le gerarchie delle identità sessuali e di genere, meccanismi da sempre interni al dispositivo della persona . Come dice giustamente Esposito, dove sono la persona e la cosa su questo scenario? che ne è del postulato della loro opposizione? chi rappresenta chi? quale corpo parla?
In effetti, il corpo è davvero un buon tema per rinnovare il lessico dei vecchi registri discorsivi che girano ormai a vuoto rispetto all’ontologia del presente. Filosoficamente disturbante e politicamente promettente, il corpo, come direbbe Esposito, sporge dalle logiche del modello dicotomico e le intralcia.