Francesca Rigotti. Onestà
“I filosofi hanno scritto ben poco sul concetto di onestà e sull’idea di onestà in quanto virtù”, nota Francesca Rigotti in un libro recente, e ricchissimo di spunti, dedicato al tema. Il libro stesso, Onestà (Raffaele Cortina editore) colma finalmente questa lacuna. E riserva sorprese che, come accade spesso a questa autrice, capace di compulsare testi canonici e interrogare il linguaggio quotidiano, attraversando immagini, proverbi, metafore e senso comune, fornisce un materiale ampio su cui riflettere.
Per lo meno da un punto di vista etimologico, c’è un legame stretto fra ‘onestà’ e ‘onore’. L’honestus, ci insegna Cicerone, è chi è degno di onore. Già in Cicerone e negli autori latini, il termine rivela però un’intrinseca ambiguità, destinata a condensarsi in una strutturale polivalenza. Da una parte, l’honestum va infatti a tradurre il greco kalon, ossia il bello morale, e come tale non rappresenta una virtù particolare bensì l’insieme delle virtù o la virtù stessa. D’altra parte, l’uomo honestus denota appunto l’onorevole, ovvero chi, avendo una carica pubblica e agendo in modo appropriato ad essa, gode di rispetto e buona reputazione. I due aspetti – che potrebbero persino alludere a una qualità interna e a una esterna, all’individuale e al sociale – non sono necessariamente in contrasto: l’onesto, il virtuoso, è onorato dagli uomini virtuosi, tanto meglio se suoi pari.
Quel che è certo – argomenta Rigotti – è che bisogna aspettare la modernità perché il termine ‘onesto’ si imponga soprattutto nella sua torsione commerciale. Oggi, nel senso comune, e in tutta coerenza con l’idea di mondo-come-mercato, onesto è chi non ruba e non imbroglia, chi non si impadronisce del denaro altrui. Ma la storia del vocabolo o, se si vuole, del suo concetto racconta una vicenda assai più tortuosa e complessa. A cominciare dalla differenza sessuale, indicatore oltremodo sensibile in tutti i casi di polisemia, tanto più quando sono in gioco non solo gli onori ma anche, e in primo luogo, le virtù. La donna onesta è infatti sostanzialmente la vergine intatta, poi destinata a divenir moglie fedele e madre esemplare. Il suo onore e la sua virtù stanno nel rispetto delle regole fissate da padri e mariti. L’onestà del sesso femminile consiste nel conservare il valore fondamentale della purezza: sino all’eroismo della morte, pur di conservarsi caste e intatte, come nel celebre modello dell’ermellino, “che preferisce morire pur di non sporcare il suo manto candido”.
Per venire a capo della polisemia del termine ‘onestà’, da lei indagato sia nella dimensione storica che geopolitica del concetto, con escursioni interessanti e sempre congruenti, Rigotti ricorre, fra l’altro, all’analisi di alcune coppie concettuali di importanza decisiva. Fra queste la coppia oppositiva fra onestà e corruzione.
Apparentemente, siamo in piena modernità, presso quel significato commerciale di onestà che ha il suo polo negativo nel ben noto costume della corruttela ovvero della ruberia, spesso pubblica, amministrativa o definitivamente politica. In verità, da un lato, tale costume è molto antico e sembra addirittura presentarsi come una sorta di costante antropologica. E, d’altro lato, una breve ricerca etimologica, fornita puntualmente da Rigotti, finisce col complicare alquanto il quadro, ponendoci cruciali interrogativi. Radicata nel latino cum-rumpo (rompo, spezzo, infrango), la parola corruzione sta infatti per disfacimento, decomposizione, putrefazione.
Niente di tremendo, almeno in prima istanza: nel modello aristotelico e tolemaico del cosmo la corruzione è notoriamente un carattere strutturale del nostro mondo, in contrasto con l’incorruttibilità e l’assenza di alterazione del mondo celeste. Robespierre l’incorruttibile – ci ricorda Rigotti – non allude a chi “non si lascia comprare, ma a chi non degenera e non declina, non cade né va in rovina e, soprattutto, rimane saldo nella sua integrità e non è modificabile nelle sue posizioni”. Dunque, sebbene tangenzialmente, l’integrità, il permanere intatta che, per la donna, è garanzia di onestà rispunta nella coppia oppositiva fra onestà e corruzione. Il che non significa che Robespierre impersoni l’onestà, comunque la si intenda, ma significa, per lo meno, che la metafora biologica, capace di veicolare e trasportare in ambito politico il concetto di corruzione, richiama quell’integrità del corpo femminile che ne assicura tradizionalmente l’onestà.
Detto altrimenti, nell’onestà applicata canonicamente allo statuto della donna pura e casta, pronta a morire come l’ermellino pur di non sporcare il suo manto candido, c’è da sempre un aspetto fisico, corporeo, biologico che evoca, come sua minaccia diretta, come suo opposto speculare, la corruzione. Nel corrotto che, dopo l’epoca di Robespierre, sarà innanzitutto chi si fa comprare, la disonestà è un’integrità spezzata, violata. L’onesto, per questo verso, è l’integerrimo.
Per altri versi, come nel caso dell’inglese honest, è chi dice la verità, l’uomo sincero che riceve l’approvazione degli amici. Oppure è l’uomo di corte o chi è degno di fiducia. Potremmo dire è chi è retto e corretto ma, allora, il paradigma della verticalità, sotteso alla categoria stessa di rettitudine, trasformerebbe il concetto di onestà in qualche cosa di rigido e fisso che ne offenderebbe l’intrigante polisemia.