Da Thomas Pynchon a Roberto Bolaño / Il romanzo massimalista

3 Aprile 2016

«Il sistema letterario contemporaneo è troppo frammentato perché si possa parlare di un centro, configurandosi piuttosto come uno spazio policentrico e fluttuante, all'interno del quale la tensione massimalista risulta particolarmente marcata». Non è tuttavia inutile, proprio a partire da questa tensione, cercare di circoscrivere uno spazio che potrebbe caratterizzare al meglio la magmatica landa del postmoderno letterario, priva di riferimenti stabili e di testi sacri, una brulicante distesa di voci che si sovrappongono e si contendono primati impossibili, e rintracciare, se possibile, qualche tratto

generale che permetta di orientarsi al suo interno e magari definire un genere che più di ogni altro lo contraddistinguerebbe. Secondo Stefano Ercolino questo nuovo genere, che si configura come «il frutto più maturo e controverso del sistema letterario postmoderno» è Il romanzo massimalista, che è anche il titolo del suo studio pubblicato in traduzione inglese per Bloomsbury (The Maximalist Novel: From Thomas Pynchon's "Gravity's Rainbow" to Roberto Bolaño's "2666", 2014) e uscito nella versione originale italiana un anno dopo nella collana Agone di Bompiani.

 

Nella nebulosa della narrativa contemporanea, Ercolino individua sette romanzi maggiori, fissati come cardini rappresentativi del nuovo genere: L'arcobaleno della gravità di Pynchon, Infinite Jest di Wallace, Underworld di DeLillo, Denti bianchi di Smith, Le correzioni di Franzen, 2666 di Bolaño e 2005 dopo Cristo del collettivo Babette Factory.  Il suo saggio consiste in un lavoro di mappatura delle grandi narrazioni maturate negli ultimi decenni del Novecento, in un clima di contaminazione di estetica postmoderna e modernista, e si pone come obiettivo di individuarne i tratti di novità più salienti e di tracciare poi una costellazione connettendo tra loro gli astri più lucenti.

 

La ricerca di Ercolino si puntella e si apre su tre precedenti autorevoli tentativi di sistematizzazione in questo scenario pulviscolare: il system novel di Tom LeClair, il Mega-Novel di Frederick R. Karl e l'opera mondo di Franco Moretti (dal confronto con quest'ultimo a Stanford prenderà forma anche un altro saggio di Ercolino, The Novel-Essay, 1884-1947, Palgrave, 2014).

Lo studioso comparatista vuole tirare le somme e aggiustare il tiro e, forse ispirato da quella stessa particolare ambizione degli autori che interpella, tentare di riordinare la massa caotica e burrascosa della contemporaneità, consapevole dei limiti dei metodi di misurazione tradizionali di fronte a un mondo che cresce e tracima.

Ma se è impossibile misurarne la crescita per insufficienza strumentale, si può forse stabilirne su un piano concettuale le proporzioni e tracciare i principi di un sistema che, in quanto tale, confessi in partenza le condizioni di complessità, particolarità, discontinuità e interconnessione dei suoi elementi.

D'altronde, anche la compulsione totalizzante che muove i campioni massimalisti è in fondo una missione impossibile che non resta per questo intentata: tutti gli esempi riportati da Ercolino sono infatti tentativi di disciplinare la complessità del mondo, di dominarla senza disinnescarne il caotico impulso creativo e se mancano l'ambiziosissimo e probabilmente inattuabile obiettivo, ciò che resta può comunque dirci qualcosa dell'assoluto a cui tendeva.

Così, vivisezionando con cura le forme di narrazione definite da LeClair, Karl e Moretti, Ercolino rinuncia agli attributi più universali o estemporanei per conservare quei tratti formali e concettuali che, a suo parere, da tanta eterogenea ed eclettica materia narrativa fanno un genere, una «forma letteraria che a un certo punto è divenuta osservabile e perciò definibile».

 

Dieci elementi caratterizzano morfologia e sistema simbolico di questo genere del romanzo contemporaneo: lunghezza, modo enciclopedico, coralità dissonante, esuberanza diegetica, compiutezza, onniscienza narratoriale, immaginazione paranoica, intersemioticità, impegno etico e realismo ibrido.

Tali ingredienti, individuati attraverso un meticoloso lavoro di close reading sul corpus narrativo precedentemente descritto, non sono equamente distribuiti nei sette romanzi, bensì calibrati arbitrariamente e più o meno consapevolmente dai vari autori, a seconda della ricetta. Ciò che conta è che siano compresenti, che il gusto sia percepibile e riconoscibile, un aroma che non ha niente a che vedere con l'esigenza – errata ma diffusa secondo Ercolino – di tipizzazione assoluta che caratterizza una certa critica e che fa soccombere «la specificità dei testi all'esigenza di costruire oggetti virtuali trasversali», rinnegando quell'ineludibile «margine di irriducibilità teorica».

Così non c'è da stupirsi se alcuni di questi elementi entrano un po' a forza nei testi presi in esame, laddove altri si palesano inconfutabilmente, come la lunghezza, primo dei dieci tratti peculiari del romanzo massimalista, che si dilata dalle 1105 pagine del voluminoso romanzo di Bolaño alle 401 pagine di 2005 dopo Cristo.

Più che lo spessore della costa, in effetti, conta la lunghezza in quanto spazio che favorisce la sperimentazione: grandi dimensioni comportano grandi possibilità e uno sterminato campo di prova su cui collaudare progetti, visioni, espedienti narrativi.

Sperimentalismo e ambizione totalizzante caratterizzano questi torrenziali, labirintici, prolissi, caotici romanzi massimalisti, nei quali la vastità dell'opera, oltre che funzionale al lavoro degli scrittori, è simbolicamente anche la misura necessaria per contenere quante più cose possibile, condizione imprescindibile per una «forma che aspira a misurarsi con il mondo intero e non può farlo se non assumendone l'ampiezza». 

Alla stessa audace aspirazione risponde il secondo attributo del genere, l'enciclopedismo. 

Nato da un tracotante desiderio di dominare la realtà, desiderio, ricorda Ercolino, che affonda le sue radici nell'ambizione sintetica e totalizzante dell'epica, l'enciclopedismo porta con sé un sentimento apocalittico di catastrofe imminente e, insieme, l'auto-investitura dell'autore a salvare il mondo, raccogliendolo pezzo per pezzo, come già Joyce nell'Ulisse, quando tentava di rendere un'immagine di Dublino talmente precisa e completa da poterla ricostruire, anche una volta rasa al suolo, solo a partire dal suo libro.

 

Così, premessa la comune rivendicazione totalizzante dei diversi romanzi, è possibile ascrivere alla bramosia di far entrare il mondo intero nel libro anche molte delle altre caratteristiche evidenziate da Ercolino, che sia la straordinaria apertura polifonica dei romanzi massimalisti e la loro conseguente dissonanza o l'esuberanza diegetica, figlia anch'essa della frammentazione del testo, imbottito di materiali eterogenei e digressioni, fino a «consumare ogni cosa con le parole».

Ma se gli argomenti sin qui citati collaborano all'inflazione del discorso, all'accumulo incontrollato che tende all'implosione, ci sono elementi tipici del romanzo massimalista che concorrono a riequilibrare quella «tensione tra apertura polifonica e necessità di dare ordine a un caos narrativo ingovernabile». L'onniscienza narratoriale e la compiutezza, con le sue strutture e architetture narrative, esercitano un disciplinante controllo sullo slancio onnivoro ed enciclopedico del racconto. 

L'immaginazione paranoica, descritta qui come la tecnica di fantasticare teorie cospiratorie, cercando di interpretare la realtà senza farvi luce, come spiega John McClure, è una strategia per «mappare il mondo senza disincantarlo». In altre parole, si tratta di ipotizzare una totale e rassicurante interconnessione di tutte le cose, un “tout se tient”, un ordine universale e paventare la presenza di «forze oscure che tramino ininterrottamente per rovesciarlo»: un tentativo di resuscitare l'incanto in un mondo dominato dal dubbio senza rinunciare alla possibilità di dominarlo.

 

Il romanzo massimalista, quindi, è da studiare all'interno di questa dialettica caos/cosmos, che tenta di risolvere lungo l'esubero di testo, o per lo meno di contenere bilanciando le forze centrifughe e quelle centripete per evitare la deflagrazione. 

In un mondo esploso e polverizzato, quello in cui nascono queste opere e che queste proiettano davanti a loro, i narratori massimalisti trascinano nell'opera tutto il disordine che c'è intorno, nella speranza che, forzandolo in un contorno di parole, diventi in qualche modo leggibile, interpretabile.

In questo senso sono da leggere le ultime proprietà di questo imponente e problematico oggetto letterario: l'intersemioticità, l'impegno etico e il realismo ibrido, quest'ultimo inteso come «recupero alla mimesi di zone della realtà inesplorate», una «defamiliarizzazione dell'esistente, sulla scorta di uno slancio epico poderoso».

 

Qui si chiude la densissima trattazione di Ercolino, un discorso che, chiaramente partito da una intima e attenta frequentazione con i romanzi massimalisti selezionati, li ha attraversati e lasciati per approdare alla teoria, cercando di isolarne i principi e di tracciare poi connessioni e rotte astrali, di allacciare tra loro i punti in quello spazio “policentrico e fluttuante” citato all'inizio.

L'impegno di Ercolino, in qualche modo etico anch'esso, appare allora appassionatamente solidale con quel disperato e indispensabile progetto proprio degli autori qui citati, quello di raccogliere il disordine del mondo per poterlo comprendere, così come scrive Federico Bertoni, citato nell'ultimo capitolo: «in una fase storica di travolgente invasione mediatica, ipertrofia informativa, strapotere dell'immagine, ambiguità ideologica e irrazionalismo trionfante, è ancora il momento – forse più che mai – di lanciare la sfida al labirinto, di rivendicare una nuova istanza realista e un'idea della letteratura fondata sul potere insostituibile della parola come strumento di costruzione e di interpretazione del mondo».

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